mercoledì 17 luglio 2019

Antonio Caronia: Torcibudella




Dilaga ormai nel cinema horror un robusto e realistico compiacimento nella rappresentazione del disfacimento della carne. Dai primi, timidi zombi di Romero, ancora riservati nell’esibizione del proprio pus, siamo passati ai lupi mannari americani di John Landis, generosi in fistole e occhiaie verminose, per finire al mosto burlone e squartatore di Nightmare – Dal profondo della notte di Wes Craven, che non scherza neppure lui quanto a putredine e schifo. Sensibilità e morbosità di tipo anglosassone, o magari nordica se volete, mi sono sempre detto. Mi sono dovuto ricredere leggendo la mole di documenti che presenta Piero Camporesi nel suo ultimo libro Le officine dei sensi. Quanto a precisione e accanimento nella descrizione dei processi di putrefazione i nostri predicatori del Seicento e Settecento danno dei punti a tutto il romanzo gotico: “Il ventre così giallo e gonfio comincia a squarciarsi e a dare qua uno scoppio e là una rottura: dalle quali ne sbocca fuori una lenta lava di marciume e di schifezze in cui a pezzi e a bocconi quella carne nera e maciosa galleggia e nuota”. ( È una predica quaresimale del 1752, e mi fermo qui perché non so se state leggendo dopo pranzo). Questo libro di Camporesi (un professore di letteratura italiana che leggendo Artusi si è reso conto di quante cose si potessero tirar fuori dalla letteratura “minore” e ha deciso di coniugare la sua straordinaria erudizione letteraria alla conoscenza e all’amore per le tradizioni popolari e le “culture materiali”), questo libro, dicevo, si può leggere proprio come un libro dell’orrore, o come una fiaba. Non c’è soltanto la considerazione del corpo dell’uomo come centro di una cultura, quella tardomiedevale e poi controriformistica e insomma moderna. Attraverso la mediazione dei sensi umani (vista, udito, olfatto) vengono ricostruiti dei sistemi simbolici, delle figure, come la mela e il formaggio, apparentemente naturali, in realtà elementi di mediazioni fra l’uomo e il mondo. Camporesi  si ferma meno sulle culture preindustriali (quella pastorale e quella contadina) alle quali, si sente, va una sua nostalgica preferenza, e preferisce invece addentrarsi nelle dissezioni dei cadaveri e dei corpi vivi degli anatomisti rinascimentali e moderni, nelle diete equilibrate dei monaci, in quelle deprivanti, al limite dell’anoressia, degli anacoreti tebaici e poi dei gesuiti. Per ricostruire le pratiche su cui si è fondato, forse anche il nostro immaginario contemporaneo. È il corpo dell’uomo, come abbiamo visto, al centro dell’indagine minuziosa e affascinante di Camporesi, anche nella ”ferocia” delle automortificazioni “quale soltanto un’intellettuale può permettersi di sfogare su se stesso”, come appunto nella pratica di Sant’Ignazio. Le condizioni materiali e il rapporto col divino sono cambiati, da allora a oggi, non c’è dubbio, eppure il nostro immaginario si nutre, ancora oggi, dell’attrazione/repulsione morbosa che proviamo di fronte alle infinite possibilità della crudeltà.

(Linus ottobre 1985)

venerdì 12 luglio 2019

Antonio Caronia : Un'Ambigua utopia nella città viva





Diceva Paolo fabbri al convegno ferrarese su “Città e metropoli” dell’ottobre scorso che la città è un fenomeno immaginario: nel senso che, come tutti avete capito, lo spazio fisico cittadino, l’agglomerato delle case, delle strade e delle piazze è il luogo di percorsi e traiettorie che non solo noi compiamo, quotidianamente e eccezionalmente, ma che proprio ci definiscono. Noi cittadini siamo, cioè, i nostri percorsi, le nostre fermate, il nostro girovagare nella città. La quale, proprio per questo, non è unica: in quelli che a noi sembrano gli stessi spazi convivono una città diurna e una notturna, una città degli adulti e una degli adolescenti, e così via. È chiaro, diceva sempre Fabbri in quell’occasione, che ci occorrono nuovi modi di organizzare e di pensare questo spazio, e questi modi, secondo lui, già in parte esistono: sono, per esempio, strutture ben note ai matematici, come reticoli, spazi fibrati, topologie, concetti sui quali, per le note carenze delle nostre capacità divulgative, non ci fermeremo neppure un attimo. Si potrebbe, volendo, fare addirittura un passo più in là di Fabbri, e dire che la città, proprio in quanto rete di percorsi individuali e collettivi, non è solo una metafora del sapere contemporaneo, ma tende in qualche modo ad identificarsi con esso. Ipotesi tanto più suggestiva quanto più avanza, anche nello spazio urbano e metropolitano, la presenza “organizzatrice” e pervadente del calcolatore (nell’organizzazione del traffico, dei servizi e così via). Da dove poteva venirci l’immagine più viva (in senso letterale, come vedremo) di questa città, se non dalla fantascienza? Riprendendo un’abitudine ben consolidata fra gli scrittori di fs (e che ha prodotto, per fare solo un esempio, gli straordinari affreschi di città di Delany in Babel 17, Nova, Dhalgreen e Triton), John Shirley, autore delle ultime leve, ci dà il suo ritratto di città in City Come A-Walkin’, tempestivamente tradotto in Italia presso Mondadori (Il rock della città vivente, Urania 902 del 4 ottobre 1981). (…) Shirley, con procedimento tipicamente fantascientifico, decide di uccidere un’altra metafora e trasformarla in identità. La città contemporanea, con la sua organizzazione sempre più computerizzata, coi suoi flussi di persone, veicoli e informazioni, con i suoi “organi di senso” (televisori e telefoni) assomiglia sempre più a un organismo vivente? Niente affatto, essa è viva in senso proprio, può addirittura incarnarsi in una persona, e condurre una lotta contro le nuove mafie dei computer che essa giudica corpi estranei dentro di sé. Nessuna meraviglia che in uno scenario del genere il linguaggio più stuzzicante sia quello della musica e del nuovo genere metropolitano, l’”angoscia rock”; ma neppure ci stupisce che Shirley denunci esplicitamente il suo debito verso precedenti cantori della città come i classici della hard-boilled school poliziesca. Non a caso, infatti, la città del romanzo è San Francisco, e l’impianto narrativo deve molto alla detective story. L’aspetto più interessante del romanzo sono comunque i percorsi, frammentati e più volte intersecantisi, dei due protagonisti, in una città in cui tutto è mescolato, le ragioni e i torti, la realtà e l’utopia, il progetto e il quotidiano. Certo, non è una novità: il viaggio e la rappresentazione della città sono due costanti della narrativa di fantascienza, con la quale essa paga i suoi debiti ad una delle sue progenitrici, la narrativa utopistica. Ma a quali mediocri risultati costringa una stanca ripetizione dei moduli del viaggio utopico è dimostrato da una delle ultime opere di Ursula Le Guin, The Eye of the Heron (L’occhio dell’airone1, pezzo forte dell’antologia Millennial Women, uscita in USA nel 1978 dalla Delacorte Press. (…) Al suo centro il viaggio, lo scambio, fra due diverse città (quella autoritaria e maschilista e quella utopica, non-violenta); ma nonostante gli sforzi il risultato di I reietti dell’altro pianeta non si ripete, e siamo di fronte a una delle produzioni più deboli della scrittrice dell’Oregon. La quale, come dimostra invece il risultato di The Beginning Piace (da poco tradotto in italiano: La soglia, (Editrice Nord, 1981) sembra recentemente trovarsi più a suo agio nell’universo della favola, sia pure costantemente riferito e confrontato con la realtà contemporanea.
  1. Ursula Le Guin, L’occhio dell’airone,  Elèuthera, Milano 1998
( Linus dicembre 1981)