sabato 13 marzo 2021

Antonio Caronia: Il bosco di latte

 


Linus dicembre 1985

Trattare la storia del mondo come fosse la storia degli uomini”: la tentazione è antica, anche se i risultati non sono sempre stati di prima qualità. Si tratta naturalmente di intendersi sul semso di una parola d'ordine di questo tipo. Il senso in cui la intendeva quasi due secoli fa il romantico tedesco Novalis (questa singolarissima figura di poeta che all'attività di geologo e intendente minerario affiancava le tensioni mistiche più ardite degli Inni della notte e dei Frammenti) era chiaro. È inutile accostarsi alla natura con spirito eccessivamente analitico, cercando “il granello più piccolo o la fibra più sottile di un corpo solido, i limiti estremi delle grandezze”; essa rivelerà i suoi intimi segreti soltanto a chi vi si accosterà con lo spirito umile, unitario e amico della primitiva età dell'oro, e cioé ai poeti. Altrimenti “l'ambizione dell'uomo di diventare Dio” lo allontanerà ineluttabilmente dalla vera comunione con la natura, e perciò anche da se stesso. Questo è il discorso che percorre il “romanzo filosofico” incompiuto di Novalis, I discepoli di Sais, già tradotto in italiano ma ormai introvabile, che l'editore Tranchida ci ripropone oggi. La tradizione in cui Novalis si inserisce è tipicamente tedesca, quella della Naturwissenschaft, una “conoscenza della natura” che utilizza in parte il metodo della scienza ufficiale ma non si identifica con esso: una via che percorrerà poi anche Goethe, dandoci su questo cammino quella Teoria dei colori a lungo ignorata dalla scienza accademica e solo oggi, timidamente, riscoperta. L'accento di novalis, però, va più sulla corrispondenza interiore di uomo e natura, come nella favola di Giacinto e Fiordirosa inserita in questo romanzo, in cui il giovane protagonista trova alla fine della sua lunga, mistica ricerca, sotto il velo della Vergine sacra nient'altro che la ragazza che aveva abbandonato per intraprendere il suo viaggio. I discepoli di Sais è il secondo titolo di una nuova collana di libricini dal tenero formato ipertascabile che l'editore Sellerio introdusse anni fa e che oggi vanno così di moda (anche la collana “Riflessioni” dell'editrice Theoria ha queste dimensioni). La collana si chiama “Il bosco di latte”, ed è dedicata a testi letterari che affrontino il tema del rapporto uomo/natura da un punto di vista antitetico a quello della “ragione strumentale” che ha dominato la pratica dell'uomo negli ultimi secoli. La collocazione al fianco dei movimenti ecologisti e verdi è dichiarata; inconfessata ma trasparente l'ambizione di fornire nuovi cult books all'”arcipelago” di movimenti in questione. Giocherà naturalmente il valore dei testi. Il denso ma affascinante romanzo incompiuto di Novalis è stato preceduto, per esempio, dal melenso racconto di Bernardin de Saint-Pierre, La capanna indiana, ennesima e fiacca incarnazione del mito del buon selvaggio, del tutto spogliato in questa versione della forza amara di Rosseau. E comunque non è chiaro che stimoli possa trarre . Da un punto di vista del contributo anche solo critico – dallo stesso testo di Novalis il movimento verde oggi. I suoi problemi infatti (se non vado errato) sono ben poco il vagheggiamento di una qualunque “età dell'oro”, e molto più la ricerca di un “punto di svolta” che imprima un altro corso alla tecnologia, non già il suo rifiuto o la sua rimozione.


venerdì 12 marzo 2021

Antonio Caronia: Video dunque sono

 


Linus giugno 1983

Registro alcuni fatti, alla rinfusa. Alla rassegna di Salsomaggiore, che si tiene alla fine di aprile e raccoglie schiere di appassionati e un po’ esclusive di cinefili, quest’anno furoreggia la produzione video. un paio di settimane prima, a Bologna, un convegno abbastanza rigoroso e tecnico su “L'immagine elettronica”, che si presumeva sarebbe stato frequentato solo (o in gran parte) dagli addetti ai lavori, aveva visto invece un pieno di pubblico “generico”, ben più vasto di quanto gli organizzatori si sarebbero aspettati. “Mister Fantasy”, la trasmissione televisiva che ha fatto della video-music il proprio cavallo di battaglia, risulta essere una delle più seguite fra quelle delle reti nazionali. Propongo due considerazioni, provvisorie ma (suppongo) largamente condivisibili. Primo: le tecniche dell'immagine elettronica, che vengono spesso nominate in vari modi, tutti contenenti la parola “video”, sono al centro di molti dei fenomeni di consumo culturale che riscuotono attualmente maggior successo. Secondo: una tradizionale incomprensione, e a volte una vera ostilità, verso il video da parte dell'altro grande medium dell'immagine, il cinema, sembra stia lasciando il posto a un incontro, a una collaborazione. Merito per ora di alcuni pioneri come Coppola: le grandi case americane seguiranno, se gli incassi saranno tali da convincerle (e le linee di tendenza riguardo a televisione ad alta definizione, trasmissioni via cavo e via satellite, costante aumento della qualità e diminuzione dei costi dell'attrezzatura elettronica, sembrano andare in questa direzione). A giudicare da quanto si sente dire in tutti questi incontri, il confronto/scontro fra la tradizionale immagine chimica (fotografica e cinematografica) e la nuova immagine elettronica, si porta dietro ben altro che un problema tecnico. Mentre all'immagine cinematografica, perlomeno da un po' di tempo a questa parte, nessuno associa prospettive apocalittiche, l'immagine video evoca invece in molti critici preoccupazioni e paure di un controllo sociale totale, a cui la maschera elettronica presta lineamenti ancora più terrificanti, e l'ideologia tecnologica dell'informatica strumenti di asservimento ancora più potenti. Fra poco più di sei mesi, non dimentichiamolo, sarà il 1984, data simbolica della cupa video-dittatura immaginata da Orwell. Eppure crescono le masse radunate attorno ai grandi schermi video, o affollanti le sale quiete e composte dei convegni internazionali, con tanto di interventi tecnici e cuffie per la traduzione simultanea: ci sono giovanissimi, giovani e meno giovani. E molte di quelle facce le abbiamo già viste, in anni più o meno lontani, nei cortei e nelle assemblee. È vero, potrebbero obiettare i nostri ideali critici, il video fornisce proprio l'immagine più adatta per questi anni di ripiegamento e di riflusso: viene consumato in modo distratto, passivo, individualizzato, non consente l'impegno né l'aggregazione; non stupisce che i grandi movimenti collettivi ridotti a masse amorfe e cloroformizzate consumino cose di questo tipo. Come tutti i luoghi comuni, anche questo del “riflusso” registra delle tendenze, ma non sa leggerle altro che attraverso gli occhiali su cui sono depositate le incrostazioni delle proprie abitudini. Ci sono anche opinioni diverse. Vittorio Boarini, durante il convegno di Bologna di cui era appunto uno degli organizzatori nella sua qualità di direttore della Mostra internazionale del cinema libero di Porretta Terme, sosteneva che non era affatto casuale che quel convegno si tenesse in quella città: “È stato proprio il movimento del '77” , diceva, “e in primo luogo la sua componente bolognese, neo-avanguardistica, anarchica e ludica, a porre per la prima volta nella pratica e nella teoria delle 'lotte sociali' i temi dell'immagine, della sua cultura e della sua fruizione. E questa cosiddetta 'spettacolarizzazione' del sociale, questo consumo dell'immagine sempre più massificato ma sempre più individuale sono stati anche uno dei risultati non secondari del movimento.” La paura della tecnica nasconde sempre una sua sopravvalutazione e a volte una certa disinformazione sulle caratteristiche dei media che vediamo tanto minacciosi. Il problema della tecnica contemporanea non è più quello della sua “neutralità”: se possiamo essere tutti d'accordo che nessuna tecnica è “neutrale”, dobbiamo riconoscere che tutte, in qualche modo, sono ambigue. Il video, piccolo o grande (o grandissimo) che sia, non è né amico né nemico. Nemiche o amiche sono le immagini che si muovono negli spazi che noi abitiamo: spazi fisici, sociali, mentali. E ogni movimento, ogni formazione sociale, ogni gruppo di persone (“aggregato” o “disaggregato” che sia) ha sempre vissuto su un repertorio di immagini tradizionali, alcune ne ha distrutte, altre ne ha create. Ci sono delle regolarità (o dei salti) nella produzione di immaginario dei gruppi umani che vanno al di là delle ideologie con cui poi questi gruppi giustificano se stessi o condannano altri gruppi rivali. Da questo punto di vista, anche i grandi cortei o le grandi assemblee, con cui di solito visualizziamo i movimenti sociali degli anno 70, producevano le loro immagini, e le proiettavano, magari sui singoli schermi mentali invece che su un grande schermo fisico. E oggi, come allora, c'è qualcuno che riassume meglio di altri questa immagine e presta alla folla il suo viso, i suoi movimenti, quella voce si combinavano con l'immagine mentale di ciascuno dei manifestanti e producevano altre immagini, per esempio quelle prodotte dal corteo con il suo snodarsi fisico, come un serpente per le vie cittadine. Oggi lo schermo prende il posto del palco, o della cattedra, ma l'immaginario che esso produce non è certo meno collettivo di quello del leader che parla alla sua folla. Certo, le differenze ci sono, eccome: lo schermo, per esempio, produce meno identificazione, meno “transfert” del singolo nella massa, conserva maggiormente l'individualità: lo schermo video, insomma, crea più distanza fra l'immagine e chi ne fruisce. Ma siamo così sicuri che si tratti di una cosa negativa?

martedì 9 marzo 2021

Antonio Caronia: FS per l'estate


 Linus luglio 1983

Non vorrei essere caduto preda di una sindrome senile, e mettermi a rimpiangere i bei tempi andati, ma mi sembra proprio che la fantascienza degli anni Ottanta stenti a decollare. O forse è proprio vero quello che da tempo andiamo sostenendo (provocatoriamente, dicono alcuni) e cioè che la fantascienza come genere separato stia esalando gli ultimi respiri e che quanto di meglio ha prodotto negli anni passati si stia trasferendo in un nuovo genere di romanzo di massa, fra l'avventuroso e il tecnologico, come il caso di Congo starebbe a testimoniare. Per il momento non insisto: fatto sta che un rapido esame delle novità editoriali degli ultimi mesi conferma l'ipotesi: il confronto fra la nuova produzione e le ristampe e riedizioni va a tutto vantaggio di queste ultime. Ecco dunque una rapida rassegna che può servire da segnalazione e orientamento per le vostre letture estive. Fra i libri tratti da film, che Urania comincia a pubblicare con una certa frequenza, è da segnalare più che Dark Crystal, stucchevole quanto il film (e trattandosi del libro non abbiamo neppure la modesta attrattiva degli effetti speciali), Poltergeist (Urania 940): James Kahn ha tratto dalla sceneggiatura di Spielberg un romanzo breve dal ritmo serrato e notevolmente avvincente. L'ultimo Vance (Miro Hetzel l'investigatore, Nord, L. 4000) è abbastanza deludente, due esili trame gialle fanno da impalcatura alla consueta descrizione di civiltà aliene che è la caratteristica di questo autore. Ma la rappresentazione della cultura tribale dei Gomaz, delle loro guerre, del loro orgoglioso e sdegnoso separatismo, non diventa come in altre opere di vance un elemento del ritmo narrativo: la xenografia qui è un gioco descrittivo autonomo, e gli intrighi che sono alla base delle storie fanno fatica a tenere desta, da soli, l'attenzione del lettore. A prposito di culture aliene, mi sembra più riuscito l'ultimo romanzo breve del ciclo di Dorsai giunto in Italia (Gordon R. Dickson, Il Dorsai perduto, Nord, L. 4000). Gli ingredienti di Dickson (che pure, in questa narrazione marginale rispetto al flusso principale della serie, non si esprime con la stessa forza di Dorsai o di Soldato, non chiedere) sono più umani, lo sfondo alieno più accessorio, ma soprattutto il controllo del linguaggio è più solido, e quando cominciamo a renderci conto che dalle puntigliose descrizioni di ambienti e azioni sembra sempre mancare qualche particolare decisivo, il gioco è fatto: Dickson è riuscito con relativa economia di mezzi a costruire quella particolare atmosfera di malinconia, quel senso dell'isolamento dell'uomo che, pur senza essere decisivo dal punto di vista filosofico, rende riconoscibile il ciclo e conta pure i suoi estimatori. Un altro autore che a volte gioca con le atmosfere melanconiche e un po' crepuscolari è Bob Shaw, che però è più efficace come costruttore di meccanismi narrativi in cui la suspense gioca il ruolo decisivo. Recuperate, se vi riesce, la sua antologia uscita qualche mese fa (Locus-Alfa, Locus-Zeta, Urania n. 937): fra i racconti che vale la pena di leggere, quello che dà il titolo italiano alla raccolta (peraltro, attenzione!, già uscito in uno degli ultimi numeri della rivista di Asimov), e “Anfiteatro”: ci troverete due fra i più begli alieni a sorpresa degli ultimi anni. Chi è affascinato dagli universi paralleli, può leggere invece I mondi dell'impero di Keith Laumer (Nord, L. 12000), avventuroso e rutilante anche se un po' farraginoso; ma non dimentichi naturalmente che l'assoluto capolavoro del sottogenere “universi paralleli” è La svastica sul sole di Philip Dick che l'editrice Nord ha rimesso in circolazione già da qualche tempo. È un libro su cui si è già detto parecchio e spero che sia noto alla maggior parte dei lettori: chi non lo ha letto non può dire di conoscere veramente le possibilità della fantascienza sul piano della decostruzione della realtà e della crisi del soggetto. D'altra parte una buona introduzione alle stesse tematiche è offerta dalla riedizione di un altro romanzo di Dick dei primi anni Sessanta (Noi marziani, Nord, L. 4.000). Leggere o rileggere, le opere di Dick di quel periodo vuol dire rendersi conto, una volta di più, dell'importante lavoro che questo autore ha fatto introducendo nella fantascienza tematiche ed elementi di riflessione sulla crisi della società americana e sul ruolo sociale della tecnica senza mai abbandonare il carattere popolare di quella narrativa (come notava già dieci anni fa Carlo Pagetti nella sua introduzione a Noi marziani, ripubblicata anch'essa). Molto più datato appare invece, a rileggerlo oggi, un romanzo di Norman Spinrad del 1967, arrivato da noi alcuni anni più tardi suscitando un certo scalpore e oggi anch'esso riedito (Il pianeta Sangre, Nord, L. 6000). Enfant terrible della fs americana alla fine degli anni Sessanta, Spinrad partecipò ai movimenti di rinnovamento di quegli anni con una carica di rottura veramente notevole: e questo The man in the jungle (Il pianeta Sangre nella versione italiana) è la prima opera significativa in questo senso. Nella storia di Bart Fraden, avventuriero e politicante di professione che si prefigge lo scopo di abbattere la cupa Confraternita del Dolore per sostituirla alla guida del Pianeta Sangre, Spinrad aveva forse l'ambizione di alludere ad un discorso politico e antropologico che rovesciasse l'aforisma del fine che giustifica i mezzi. Costruendo scientificamente la rivoluzione che dovrà abbattere la crudele oligarchia che domina il pianeta (e le cui pratiche stanno a mezza strada fra quelle dell'inquisizione e le prescrizioni del divino marchese) Fraden si pone in realtà sullo stesso piano dei suoi nemici: sia lui che i suoi collaboratori arrivano a praticare l'antropofogia. E la rivoluzione si trasformerà in un massacro e in un bagno di sangue generale. Riecheggiando in modo piuttosto ingenuo teorie antropologiche che oggi su direbbero sociobiologiche, Spinrad sferzava però efficacemente luoghi comuni sulla bontà della natura umana e svelava “di che lacrime grondi e di che sangue” il fondamento della civiltà. E anche se oggi non proviamo più lo stesso brivido provato dieci anni fa alla prima lettura, di questo continuiamo a essergli grati.


venerdì 5 marzo 2021

Antonio Caronia: Un raccoglitore fantastico

 


Linus gennaio 1984

Mettere insieme un’antologia è un lavoro che mi è sempre apparso improbo, faticoso e vagamente blasfemo. So bene che è un’idiosincrasia stupida, perché sempre nella vita si tratta di operare scelte, di accettare qualcosa e di respingere qualcos’altro. ma per un pigro come me, che aspetta sempre che le cose gli arrivino addosso e solo in circostanze eccezionali è capace di imboccare coscientemente una strada, fare un'antologia – lo ripeto – sarebbe operare un'inaccettabile violenza sul vasto complesso delle opere entro cui operare la scelta, un complesso che nelle circostanze date assume le vesti spaventose della “realtà”. Ecco perché ammiro incondizionatamente il lavoro di Italo Calvino, che, armato di competenza, decisione e modestia, ci offre una rassegna per niente scontata della produzione fantastica del secolo scorso (Racconti fantastici dell'Ottocento 2 voll. In cofanetto, pp. 286- 264, Mondadori, L. 12.000). Ho detto competenza perché (ed è ovvio) Calvino conosce bene il filone che è poi l'antecedente più o meno remoto di gran parte della sua produzione; decisione perché si è assegnato l'obiettivo di offrire un panorama più vasto possibile del genere considerato, anche a prezzo di tagli dolorosi (un solo racconto per autore, e come metterla quando l'autore è Hoffmann, o Gogol, o Poe?); ma anche modestia perché – a differenza di altri compilatori di antologie dello stesso argomento, e cito per tutti Borges e Casares – è riuscito a sfuggire alla tentazione di presentare una scelta che comprendesse quasi solo i suoi “ideali predecessori” (una debolezza che, perdoniamo volentieri a Borges e Casares e alla loro Antologia della letteratura fantastica, presentata in italiano un paio di anni fa dagli Editori Riuniti). Questo non significa che il temperamento e la sensibilità di Calvino non si sentano in questa antologia. A me sembra che esse traspaiano più che altro in certe scelte (come quelle dei racconti di Leskov, di Villiers de L'Isle-Adam o di Maupassant, non a caso inserite nella sezione detta del “fantastico quotidiano”) che presentano dei testi forse poco classificabili a prima vista come “fantastici”, ma sintomatici per la loro ambiguità, per lo scorcio inedito e imprevisto che ci offrono su situazioni altrimenti del tutto verosimili. Una dimostrazione in più, come osserva Calvino stesso nella sua introduzione, che “il fantastico dice cose che ci riguardano direttamente”, poiché “alla nostra sensibilità d'oggi l'elemento soprannaturale al centro di questi intrecci appare sempre carico di senso, come l'insorgere dell'inconscio, del represso, del dimenticato”. Come (ritorno a un tema che mi è caro, anche se forse è solo uno fra i tanti) l'improvviso animarsi autonomo di certi parti del corpo umano (il naso, l'occhio, la mano) che ritorna con una certa insistenza nei racconti antologizzati.


mercoledì 3 marzo 2021

Antonio Caronia, Piero Fiorili: Morte accidentale di una rivista


Linus ottobre 1980

Questo articolo andrebbe riquadrato di nero, a rigore, perché si tratta, né più né meno, di un necrologio. La rivista Aliens, che nelle intenzioni del suo editore Armenia avrebbe dovuto sostituire degnamente Robot, ha infatti cessato in agosto le pubblicazioni: un po’ in sordina e dopo soli nove numeri (anche se, assai pateticamente, l’ultimo fascicolo è stato numerato 9/10). Era, in pratica, l’unica rivista di fantascienza in Italia: “rivista”, cioè , nel senso etimologico di “rassegna” di informazioni, saggi (si fa per dire) e racconti, e “unica” perché era la sola ad avere una diffusione soddisfacente sul territorio nazionale. Non altrettanto soddisfacenti, a quanto pare, le vendite: un redattore ha parlato di 350 copie vendute in media a Milano (il che è meno di quanto vende – parliamo sempre di Milano – Un’ambigua utopia…). Il fallimento commerciale delle riviste di fantascienza in Italia è un dato ormai storico: ne abbiamo parlato nel nostro libro Nei labirinti della fantascienza, e c’è stato chi, come Monica Saitto sull’Avanti, ha creduto di vedere nella “rivendicazione” di una vera rivista di fantascienza in Italia uno degli assi portanti del nostro discorso. Noi, in realtà, credevamo di aver esternato parecchi dubbi sulla possibilità che una rivista di questo genere trovi un mercato nel quale possa, non diciamo prosperare, ma almeno sopravvivere. Dubbi che la chiusura di Aliens ci conferma. ma quali sono, insomma, le cause di questo fallimento? Vittorio Curtoni, ex-direttore di Robot e responsabile della sezione cosiddetta “critica” di Aliens, una spiegazione ce l’ha, e la espone serio serio (nonostante le apparenze) sul numero di addio di questa rivista, in un editoriale il cui astio e la cui acidità sono sì, certamente spiegabili, ma non per questo meno fastidiosi. La “solipsistica”, tesi di Curtoni è la seguente: che la causa della prematura dipartita non solo di Aliens, ma di tutte le riviste che l’hanno preceduta, stia nella “necrofilia” del fandom; all’appassionato le riviste di fantascienza piacciono solo da morte, per poterle ricordare con accorato rimpianto: finchè sono vive le critica, le maltratta, e non fa nulla per mantenerle in vita. Sicché, chiude il nostro, “spettabile pubblico, ci hai rotto i coglioni”. Ora, neanche a noi gli “appassionati” organizzati, i fan, sono simpatici, e siamo disposti a sottoscrivere un certo numero di analisi sulle loro cattive qualità: ma (a parte la scarsa tolleranza di Curtoni nei confronti delle critiche) imputare loro le cause della morte della povera Aliens è francamente eccessivo. E che avrebbero dovuto fare, gli appassionati? Comprare dodici copie di ogni numero? Organizzare la vendita militante? Perché - ed è questa la valutazione a partire dalla quale probabilmente Armenia, Curtoni e collaboratori si sono rotte le corna - il numero degli appassionati “fedeli” è quello che è: ci ha forse azzeccato l’editore Viviani che, in una recente intervista (La bottega del fantastico n. 2, 1980), lo stimava attorno al migliaio. possono essere anche il doppio, to’: ma non di più. E quasi ognuno di loro, siamo sicuri, comprava Aliens. Perché Aliens proprio a loro si rivolgeva, e a nessun altro: era, in definitiva, una “superfanzine”, che poteva interessare soltanto chi, nel mondo della fantascienza, di riffa o di raffa, ci sta da “conoscitore”, da “competente”, da “esperto”. Se è così il signor Armenia, che ci tiene ad essere considerato un editore e non un filantropo (e chi potrebbe rimproverarglielo?), e che lasciava intendere, su uno dei primi numeri di Aliens, di “aver fatto bene i propri conti”, deve riconoscere che i conti non gli sono tornati. Niente da fare, allora? Una rivista di fantascienza, in Italia, non si può fare? Non resta che fare come Curtoni, che manda affanculo il suo pubblico (quello che, in fondo, la rivista gliela comprava) e continua a fare il riduttore di romanzi per Urania? Tutto sta ad intendersi su chi è il “pubblico”. E’ molto probabile che, nella forma e con le caratteristiche attuali, il fandom della fantascienza sia destinato a restare quello che è, e che quindi ogni rivista che lo assuma come interlocutore privilegiato sia destinata a scontrarsi con difficoltà insormontabili (a meno che non si limiti alla veste e alla diffusione delle fanzine). Ma un discorso sulla fantascienza può avere come destinatario soltanto il fandom, la sua mentalità, le sue idiosincrasie? Se c’è una cosa che stupisce, e fa pensare, è lo scarto che esiste tra il grado di penetrazione di discorsi, figurazioni, immagini soprattutto di tipo fantascientifico, nella vita di tutti i giorni, nell’esperienza comune, nei mezzi di comunicazione, e la ristrettezza di vedute, di strumenti, il clima da conventicola che domina ancora nel mondo ufficiale della fantascienza, fra gli “addetti ai lavori”. Lo scarto, insomma, tra la fantascientizzazione della nostra vita e le “istituzioni” fantascientifiche. Una rivista, forse, ha qualcosa da dire ad un pubblico più vasto (al pubblico di Linus, per esempio), se è capace di stare al passo con il ritmo della mutazione antropologica che si produce in ciascuno di noi, con l’arricchimento (o l’impoverimento) del nostro immaginario collettivo. Diceva Carlo Pagetti in un intervento (tanto bello quanto inascoltato) al convegno di Stresa che il problema oggi è come “difenderci” dalla fantascienza: Forse il termine è già troppo conclusivo: e anche ammesso che ci si debba “difendere”, il primo passo è comunque “capire” le trasformazioni di un armamentario, di un repertorio di luoghi comuni letterari che, sul filo degli anni, si sono trasformati in luoghi comuni del nostro inconscio collettivo e, in certa misura, della nostra vita quotidiana. La vera invasione non è quella di cui “parla” la fantascienza, ma quella che “opera” la fantascienza, anche se le due tendono sempre più a fondersi: dalla conquista dello spazio fino alla “mazinghizzazione” dei nostri bambini. Chi ha voglia e spago per tesserlo, questo discorso, può anche tentarlo, il mercato: ma non ci stupiamo che chi ha scelto un’altra strada sia andato incontro al fallimento anche commerciale.


giovedì 25 febbraio 2021

Antonio Caronia: Mondo impossibile!

 


Linus aprile 1984

Nella sua introduzione alla più recente edizione del romanzo di Orwell che quest’anno celebra una sorta di compleanno/scadenza (1984 Mondadori, pp. XIV-308, L. 16.000) Umberto Eco argomenta che non tanto di profezia o utopia negativa si tratti, quanto di storia. Soprattutto in questi ultimi anni ci si è resi conto che “quel libro, se da un lato parlava di ciò che è già avvenuto, dall’altro, più che parlare di ciò che sarebbe potuto accadere, parlava di ciò che stava accadendo”. Si tratta di un’interpretazione non nuova, ma che a me continua a sembrare convincente. E d’altra parte, in qualche modo, tutte le opere riconducibili al filone dell’’utopia negativa’, dai Viaggi di Gulliver a Terra! Di Benni, si caratterizzano proprio per il fatto che, facendo le viste di parlare del futuro o di paesi immaginari, parlano in realtà del nostro ‘qui e ora’. Detto questo non si deve però dimenticare che gran parte della presa di questi libri sul lettore sta proprio nell’effetto di straniamento, nel vero e proprio brivido che si prova a vedere proiettate le tematiche del ‘qui e ora’ su uno sfondo che non è quello che noi conosciamo adesso, ma è lontano da noi nel tempo, nello spazio e a volte anche nella logica. Questo è il modo di operare della narrativa fantastica di ogni tipo: la costruzione di un universo autonomo o, come è stato detto di un ‘mondo possibile’. Tanto è vero che la denuncia del totalitarismo di Orwell è diventata famosa più con 1984 (o magari con La fattoria degli animali) che con Omaggio alla Catalogna, narrazione fedele dell’esperienza dell’autore durante la guerra di Spagna, che affronta ugualmente il tema della critica allo stalinismo, e con una resa letteraria, a mio parere, superiore a quella di 1984. Ma questo non vuol dire che il successo di questo libro sia immeritato. Al di là della debolezza della scrittura, infatti, Orwell ha saputo tradurre la sua ispirazione politica e morale di fondo nella costruzione di un universo credibile, e non già rispetto all’attendibilità dell’estrapolazione o alla verosimiglianza della previsione scientifica, ma rispetto alla coerenza interna di quel mondo. Per costruire un “mondo possibile” avvincente, che funzioni dal punto di vista narrativo, che tenga insomma il lettore attaccato alla sedia, non è sufficiente affastellare particolari curiosi o stravaganti, stravolgere le leggi della fisica, della sociologia o della scienza politica. Bisogna riuscire a mettere in opera delle leggi che facciano funzionare i dispositivi fondamentali di quel mondo in modo credibile e coerente. Ora le due più grandi scuole di costruzione di “mondi possibili” nella narrativa popolare del nostro secolo sono state, a mio parere, la fantascienza per così dire “classica” (quella che gli appassionati chiamano “tecnologica”, fiorita soprattutto negli anni Quaranta: alla Asimov, tanto per intenderci) e il filone più chiaramente fantastico, quello delle varie terre di mezzo, il cui rapprenetante insuperato rimane Tolkien. Oggi però l’ortodossia di queste correnti (cioè la fedeltà più o meno accentuata alle convenzioni e ai modi di questi due generi, o sottogeneri) mi sembra in declino, e comunque sforna prodotti sempre più deteriorati. In misura maggiore, devo dire, la prima, e cioè la fantascienza “classica”. Prendiamo un esempio recente: I costruttori di Ringworld  di Larry Niven (Fanucci, pp. 354, Lire 12.500), séguito del più famoso Ringworld del 1970 che aveva avuto i premi Hugo e Nebula. Grande precisione di particolari tecnici, alieni di ogni tipo, avvenimenti a iosa, ambienti i più diversi, il tutto sullo sfondo di un gigantesco mondo artificiale ad anello grande tre milioni di volte la Terra. Lo sforzo immaginativo non manca, ma la storia non regge e si trascina stancamente. “Che cos’era un uomo, di fronte a una creazione artificiale tanto immensa?” riflette Niven con sconvolgente profondità a p. 75, e decide di rimanere fedele per altre 300 pagine a questa apprezzabile ma un po’ statica verità. Tutt’altro sapore si avverte davanti al ciclo del Nuovo Sole, quattro romanzi di Gene Wolfe di cui sono apparsi in traduzione italiana i primi due, mentre è in preparazione il terzo (L’ombra del torturatore, Nord, L. 8.000; L’artiglio del conciliatore, Nord, L. 10.000). Gene Wolfe è uno degli autori più interessanti della fantascienza americana, una  curiosa figura di ingegnere che già negli anni Settanta aveva dimostrato di saper ben giocare con le regole tradizionali del genere (ma in Italia, per le ragioni che evito di ripetere per la centesima volta, non si erano finora visti tradotti che due o tre racconti). Qui si cimenta con il fantasy e con il suo classico armamentario di situazioni e figure: un mondo dalla struttura produttiva e sociale di tipo francamente medievale, un giovane eroe che compie il suo apprendistato di torturatore, una spada (ovviamente), un viaggio e una ricerca. Ma gli stereotipi appaiono corrosi dall’interno, nella narrazione aleggia un clima di inquietudine e di ambiguità che produce un fascino diverso dal ritmo ampio e disteso di tolkien, ma altrettanto intenso. Wolfe controlla con grande sapienza il suo mondo possibile: sa, come sapeva Orwell, che esso è un fatto prima di tutto linguistico. E forse sta qui la chiave dell’inquietudine e del fascino di cui si è detto. Ma ne riparleremo a ciclo concluso.

mercoledì 24 febbraio 2021

Antonio Caronia: La vergogna rimossa


 Linus giugno 1985

“Raccontare storie è per noi un rito di sangue”, dice uno dei personaggi del romanzo La vergogna di Salaman Rushdie. Il lettore, incontrando l’affermazione a pag. 69, quasi non ci fa caso, eppure gli episodi macabri che l’autore dissemina discretamente, qua e là per il libro, dovrebbero metterlo sull’avviso, prepararlo al finale sanguinario e pensoso che l’attende. Invece no, la saga mirabolante delle due famiglie Hyder e Harappa e di tutti gli individui che esse man mano inglobano in questo Pakistan mezzo reale e mezzo fantastico ci scorre addosso, ci avvolge come un pigro ma incontentabile anaconda; e ogni morte, ogni assassinio che incontriamo ci sembra solo un elemento narrativo e non una premonizione della catastrofe imminente. È colpa di Rushdie, naturalmente, di questo suo modo di raccontare apparentemente incongruo e invece così sapiente, pieno di incisi, di descrizioni gustose, di ironia e tolleranza, da cui salta fuo4ri, inaspettata, a tratti, la tragedia. Come quando Raza Hyder, futuro presidente, per difendere l’onore della moglie, sfida Iskander Harappa, futuro segretario del Fronte popolare, ma per non battersi in casa di questi va fuori in giardino e si lega a un paletto e da lì chiama a gran voce il suo rivale. Ma che ci possiamo fare se Iskander si guarda bene dall’accettare la sfida, Se Raza rimane sveglio tutta la notte e al mattino, assonnato e con gli occhi rossi, uccide con un gran pugno il vecchio servo che era andato a riportarlo a casa? Tutta la tensione epica e tragica di poche righe prima si scioglie, e non possiamo che sorridere. Perché questa è la cifra di Rusdhie, indiano che in inglese scrive storie avvincenti come se le raccontasse a voce (ma non c’è nulla di “spontaneo”, come s’è detto, è tutto frutto di un lavoro paziente di costruzione della pagina), e salta avanti e indietro, anticipa fatti che narrerà poi, si intromette nella storia e ci racconta da quale idea era partito e che cosa ha finito per realizzare. Ancora più disperso dal punto di vista della trama e dei personaggi, anche se più breve come lunghezza del precedente I figli della mezzanotte, il nuovo romanzo di Rushdie riscatta quella dispersione con un’idea di fondo più compatta: la vergogna rimossa, nascosta (quella dell’”eroe marginale” Omar Khayyam a cui le sue tre madri la hanno nascosta, ma anche quella del Pakistan che vuole dimenticare a forza il suo passato indiano) genera una violenza bruta, incontenibile, feroce. Quella di Sufya Zinobia e della Bestia che la abita, che porterà Raza e Omar alla morte. Quando ha compiuto il massacro finale Sufya scomparirà, “come se non fosse mai stata altro che una voce, una chimera, la fantasia collettiva di un popolo represso, un sogno nato dalla loro rabbia”. Dalla stessa rabbia nascono forse le storie di Rushdie, di V. S. Naipaul, di Nadine Gordiner, tutti scrittori che usano l’inglese senza che questo sia la loro madre lingua, e per cui la “crisi del romanzo” sembra non essere mai esistita.

Salaman Rushdie, La vergogna, Garzanti, pp. 260, L. 18.000