Disegno di copertina di Michelangelo Miani |
Variazioni Cosmiche.
Catalogo dell’omonima rassegna svoltasi a Vimercate e Mezzago (Milano) dal 14
al 30 ottobre 1988. Edizioni Nord (in collaborazione con i comuni di Vimercate
e Mezzago).
Diversi anni fa lo
scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon (recentemente scomparso) fece
un’osservazione che ebbe fortuna, almeno tra gli appassionati, tanto da essere
citata in seguito come “legge di Sturgeon”. Rispondendo alle critiche
ricorrenti verso questo tipo di narrativa, Sturgeon diceva: concordo con voi,
una gran parte di quello che va sotto il nome di “fantascienza” è spazzatura, diciamo pure il 95%; ma non c’è
da scandalizzarsi, visto che il 95% di tutto quanto si produce oggi è
spazzatura. Era un modo di staccare la fantascienza dal ghetto nel quale spesso
la rinchiudono i pregiudizi dei profani e gli entusiasmi indiscriminati dei
fans, per ricollegarla alla tradizione della normale letteratura, farne una
provincia della narrativa tout court.
Nel 1975 un’altra
scrittrice di fantascienza, Ursula Le Guin, si trovava a Melbourne, in
Australia, per partecipare al convegno mondiale di fantascienza, un genere di
incontri che essa non è solita frequentare. In quella occasione essa citò la
legge di Sturgeon, lamentando che fosse stata usata per troppo tempo come
scusa, in modo troppo difensivo. “Io proporrei” disse “di aspettare di citarla
per un po’, per lo meno quando la usiamo in modo cinico e rassegnato. Vorrei
che non fossimo rassegnati, ma ribelli; non cinici, ma critici, intransigenti e
idealisti. Vorrei che dicessimo: il 95% della fantascienza è porcheria, bene,
liberiamoci di quella roba! Apriamo la finestra e liberiamoci di questa
immondizia! Abbiamo la fantascienza, la forma più flessibile, più adattabile,
strampalata, la più ricca di immagini e di possibilità che la narrativa abbia
mai conseguito, e lasceremo che la usino per costruire pistole a raggi di
plastica che si rompono quando qualcuno ci gioca, e pranzi da consumare davanti
alla TV, preimpacchettati, precucinati, predigeriti, indigeribili, insipidi, ed
enormi palloni di gomma gonfi, che non contengono altro che aria calda? Ah, no,
diamine, dico io. Dobbiamo smetterla di rintanarci a giocare da soli, come
ragazzini continuamente rimbrottati. Quando si recensisce un romanzo di
fantascienza, su una fanzine o su una rivista letteraria, si dovrebbe
paragonarlo al resto della letteratura contemporanea come qualunque altro
libro, e disporlo tra gli altri in base ai suoi meriti particolari. (…) Quando
scrive un libro di fantascienza, lo scrittore dovrebbe essere veramente
consapevole di trovarsi in una posizione invidiabile e straordinaria: di essere
l’erede della più duttile, libera e giovane di tutte le tradizioni letterarie”.
(1) Ursula Le Guin è una
scrittrice un po’ particolare, e non può essere forse presa come rappresentante
tipica della comunità degli scrittori di fantascienza: d’altra parte può essere
che la particolare occasione le abbia preso la mano, caricando un po’ i toni
del suo discorso. In tutti i casi il problema che sollevava in quella
circostanza era e rimane fondamentale: come dobbiamo giudicare la letteratura
di fantascienza, con quali criteri? Con l’occhio distratto e l’atteggiamento di
sufficienza che si riserva al racconto letto frettolosamente su una rivista,
alla narrativa “di consumo”? Oppure con l’attenzione che merita ”la più
duttile, libera e giovane di tutte le tradizioni letterarie”? Tradizione letteraria o industria
editoriale. La questione è stata tranciata, con un’accetta forse non molto
affilata ma vibrata con mano sicura, da Oreste del Buono nell’introduzione a
un’opera di Darko Suvin, Le metamorfosi
della fantascienza.(2)
Suvin
nell’opera in questione propone una vera e propria interessante teoria della
fantascienza come letteratura dalle potenzialità “cognitive” (capace cioè,
attraverso l’emozione, di modificare o strutturare la nostra conoscenza, la
nostra visione del mondo): e milita naturalmente a favore della tesi della
tradizione letteraria, sostenendo che la fantascienza è un genere abbastanza
antico, che comprende al suo interno anche i romanzi utopici. Del Buono
commenta: “Suvin sta per un’origine nobile della fantascienza. Ma, dispiace
dirlo, la fantascienza, come tutti i sottogeneri a larga diffusione partoriti
dall’industria editoriale, ha un’origine, se non ignobile, rozza”.(3)
Sul terreno dei fatti, per esempio l’origine del nome “fantascienza”, del Buono
viaggia sicuro. Non c’è dubbio che i termini inglesi scienti-fiction prima e science
fiction poi (quest’ultimo prevalse) furono coniati da Hugo Gernsback,
lussemburghese trapiantato in America, radiotecnico, inventore e appassionato
lettore di Poe, Verne e Wells, fondatore nel 1926 della prima rivista popolare
completamente dedicata alla fantascienza, “Amazing Stories”. Prima di
Gernsback, la “fantascienza” (che allora non aveva ancora un nome) compariva,
mescolata ai racconti cosiddetti “gotici” del soprannaturale, dell’orrore, del
fantastico in genere, su altre riviste di narrativa popolare: “Argosy”, “Werd
Tales”. Anche Gernsback pubblicava sulla sua rivista di divulgazione “Science
and Invention” racconti di narrativa scientifica, cioè, come lui stesso li
definiva, “affascinanti avventure mescolate a fatti scientifici e a visioni
profetiche”. L’importanza di questo personaggio fu proprio quella di aver
compreso che l’interesse del pubblico popolare verso questo nuovo genere di
narrativa richiedeva progetti editoriali dedicati specificatamente e
completamente ad esso. Cercheremo invano in questa “fantascienza delle origini”
delle qualità letterarie intese in senso tradizionale. Da questo punto di vista
del Buono (e con lui altri critici) ha ragione da vendere. Il lettore di queste
storie di scienza fantastica, narrativa pseudo-scientifica o “super-scienza”
(erano alcune delle altre etichette che circolavano sulle riviste che fra gli
anni Venti e Trenta si aggiunsero a “Amazing Stories”) era in genere circondato
dal discredito generale. Isaac Asimov ha lasciato una interessante e non
sospetta testimonianza di questo fatto: “Alle scuole superiori mi sentii ancora
più solo come lettore di fantascienza.” Scrive “continuavo a non trovare alcun
compagno che condividesse i miei interessi, naturalmente, ma almeno alla media
inferiore avevo suscitato una certa attenzione raccontando agli altri le storie
che leggevo. Ma questo non pareva più possibile nell’atmosfera più adulta e
dignitosa di una scuola superiore (…). Non era solo dovuto al fatto che la
gente non leggeva fantascienza. Una persona poteva non leggere i gialli o i
western, non per questo si metteva a ridere di coloro che li leggevano. Se uno
invece leggeva fantascienza, gli altri si mettevano a ridere. ‘Leggi davvero
quelle storie insensate?’ era la domanda di rito. La fantascienza era
letteratura di evasione. Era la quintessenza in fatto di evasione, più di
qualsiasi altro genere di narrativa popolare perché ti faceva evadere addirittura
da questo mondo. E pareva che l’evasione fosse una cosa molto spregevole”.(4)
I critici accademici
come Suvin, sono molto severi verso questo tipo di fantascienza dei pulp magazines (così erano chiamate le
riviste popolari degli anni Venti e Trenta, a causa della carta scadente che
impiegavano): eppure, a ben guardare, la questione della tradizione letteraria
si pone anche per questo tipo di produzione. Quando Gernsback, presentando la
nuova rivista “Amazing Stories”, invoca come numi tutelari Poe, Verne e Wells,
non barava di certo: a prescindere dalla valutazione delle singole opere, la
fantascienza delle origini nelle sue varie sfumature (quella avventurosa di
“Argosy”, quella orrorifica/soprannaturale di “Weird Tales”, quella
scientifico/tecnologica di Gernsback) riprende tendenze e filoni già presenti
nella letteratura “alta”, ufficiale, dell’Ottocento. Per quanto riguarda la
cultura americana, critici come Bruce Franklin, Ketterer, la stessa Le Guin e
in Italia Carlo Pagetti hanno studiato il legame tra la fantascienza e la
tradizione culturale americana del conflitto tra macchina e natura; sia i
paesaggi utopici e antiutopici che gli alieni e i mostri della fantascienza
affondano le loro radici in altrettanti temi e immagini presenti fin dalle
origini nella cultura americana. Resta certo da spiegare, per dirla con
Pagetti, “la divaricazione della narrativa fantascientifica rispetto alla linea
maggiore del romanzo americano nel passaggio dal vecchio al nuovo secolo”.(5)
Le osservazioni principali da fare a questo proposito sono due, una relativa
all’immaginario collettivo, l’altra all’industria editoriale.
La
fantascienza dei pulp (come del
resto, in una certa misura, quella del decennio successivo) corrispondeva a un
sentimento popolare di entusiasmo e di fiducia verso la scienza e la tecnica.
Il ritmo prodigioso delle invenzioni negli ultimi decenni del secolo scorso e
nei primi del nostro avevano convinto la gente che questa fioritura sarebbe
andata avanti all’infinito, che ogni problema concepibile sarebbe stato
risolto, prima o poi, grazie a una nuova invenzione o a una nuova scoperta. Non
è affatto un caso che l’inventore editoriale della fantascienza moderna,
Gernsback, fosse egli stesso un inventore e un imprenditore (perché le due
figure spesso coincidevano), non è un caso che la fantascienza abbia attecchito
fra gli strati più giovani di quell’ambiente di consumatori di stampa tecnica,
soprattutto nel campo dell’elettricità e delle telecomunicazioni. Un
immaginario tecnologico, come nota anche Pagetti, era già presente nella
letteratura americana dell’Ottocento: ma in questo caso “l’avanzata della
tecnologia e la sua progressiva applicazione al campo dell’industria (avevano
riformulato) lo spazio dell’utopia, introducendo elementi sempre più minacciosi
e la disumanità di un diverso che sostituisce al ‘selvaggio’ la Macchina,
silenziosa e violenta come gli automi della ‘Torre campanaria’ di Melville e
del ‘Signore di Moxon’ di Bierce”.(6) Questa coscienza critica,
questo acuto sentimento dei limiti dei saperi umani (così presente, per
esempio, nell’ultimo Twain) mancano del tutto nella fantascienza popolare fino
agli anni Cinquanta: i superuomini e le superscienze di queste space operas mostrano in modo
sorprendentemente fresco e ingenuo i meccanismi proiettivi che invischiavano
autori e lettori. Il secondo elemento che rende così importante la fantascienza
delle origini è invece di natura editoriale: il campo della fantascienza infatti
(come peraltro quello del giallo) è uno dei banchi di prova della nascente
industria culturale. Non ci troviamo infatti di fronte a una serie di autori
che concepiscono e scrivono le loro opere nel chiuso dei loro studi e poi, in
modo spontaneo, si affidano alla risposta del pubblico: siamo di fronte a una
vera e propria industria che pianifica tutto il ciclo produttivo,
dall’ideazione delle opere fino alla stampa, in funzione di obiettivi
economici, che si basa – magari ancora rozzamente ma efficacemente – su uno
studio del mercato, in questo caso
dei bisogni di evasione di settori giovanili abbastanza bene identificati, e
solo in questo àmbito fa intervenire i veri e propri elementi “creativi”. Si
può dire che la fantascienza anticipa gli elementi che si sono dispiegati più
compiutamente in tutto il processo editoriale in anni più recenti: importanza
centrale della figura dell’editor
(cioè del direttore editoriale), diffusione di un vero e proprio lavoro di redazione, in modo che il testo nasca
dall’interazione fra l’autore e l’editor.
È un processo di
creazione in qualche modo collettivo, in cui le singole opere sono legate tra
loro da una rete di complicità, di rimandi: le figure e le immagini della
fantascienza (l’alieno, il robot, il viaggio nello spazio e nel tempo, lo
spazio esterno, i nuovi mondi) si strutturano per stratificazioni successive,
con contributi di vari autori che si sommano all’intuizione di chi per primo ha
elaborato un personaggio o introdotto una convenzione. L’opera collettiva,
insomma, è più importante del singolo autore. Questo non vuol dire che il ruolo
dell’individuo è annullato, che la figura dell’autore (tradizionalmente inteso)
scompare. Le grandi individualità non vengono cancellate, e l’industria
editoriale non può impedire l’emergere di veri autori, magari riconosciuti e apprezzati in quanto tali con un
certo ritardo. È il caso del più grande talento degli anni Venti e Trenta,
Howard P. Lovecraft, che coniugò il tradizionale racconto del soprannaturale
orrorifico con la nuova fantascienza, creando un originalissimo universo di
mostruose divinità primigenie, che hanno
una volta abitato la terra, e ora si sono ritirate, per comparire solo
sporadicamente e preparare forse un ritorno tra noi. L’universo alieno degli “antichi dei” che
irrompe nella vita sonnacchiosa di un New England odiato e amato è
l’espressione di un materialismo radicale che rifiuta ogni credenza mistica o
religiosa. La scrittura di Lovecraft è una delle voci più incisive dell’angoscia
dell’uomo moderno di fronte alle sue stesse creazioni. Ma la fantascienza ha già prodotto la sua storia e i suoi miti interni.
Fra questi spicca quello dell’”età dell’oro”, gli anni Quaranta che videro, si
dice, la prima rivoluzione di questa narrativa. Nel 1937 arrivò alla direzione
di “Astounding Stories” (un’altra rivista pulp nata nel 1930) John W. Campbell,
un’energica figura di editor che
diede un’impronta a tutta la fantascienza del decennio successivo. Sentiamo un
autorevole storico della fantascienza: “Campbell considerava la scienza il
soggetto principale, ma vi aggiunse un altro polo di interesse: la previsione
del futuro. Egli riteneva che il ruolo della fantascienza dovesse essere quello
di predire la civiltà del domani in modo plausibile, realistico e,
naturalmente, scientifico”.(7) Campbell discuteva a lungo con suoi
autori, li esortava alla coerenza, consigliava di focalizzare ogni racconto su
una singola idea e di prestare attenzione alle conseguenze dell’uso delle
novità introdotte (che quasi sempre consistevano in marchingegni). In effetti
la fantascienza degli anni Quaranta presenta opere meno superficiali e
raffazzonate di quelle dei decenni precedenti. Autori come Asimov, Heinlein,
van Vogt, Sturgeon, Simak, muovono i loro primi passi o si consolidano con
Campbell, e sono tutti nomi che si sono dimostrati capaci di resistere ai
successi di una singola stagione, rimanendo attivi e capaci di produrre opere
interessanti fino ad oggi. Ma dal punto di vista dell’atteggiamento di fronte
alla tecnica e al futuro, le cose non cambiano radicalmente rispetto ai decenni precedenti. È l’ottimismo tecnologico, la
fiducia nelle capacità dell’uomo a risolvere comunque i propri problemi, che
dominano la scena, certo in modo più sofisticato rispetto al primo periodo dei pulp. La storia futura di Heinlein, i
robot di Asimov, i superuomini di van Vogt esprimono ancora un atteggiamento
fondamentalmente positivistico, una visione della scienza che ha più a che fare
con le sue vaste potenzialità applicative che con i veri problemi conoscitivi
che essa solleva.
La fantascienza di questi anni
rimane, insomma, ancora separata dai fermenti culturali più profondi che nello
stesso periodo attraversano la letteratura, le arti, e la scienza stessa. Un
vero punto di svolta (e non solo nella fantascienza, naturalmente, ma in tutta
la cultura e l’immaginario collettivo del nostro secolo) è rappresentato dall’esplosione
delle due bombe atomiche, nell’agosto del 1945, su Hiroshima e Nagasaki. “Gli
scrittori e i lettori di fantascienza” osserva Aldiss “stavano assimilando le implicazioni
che si celavano dietro la bomba nucleare, i suoi illimitati poteri di grandezza
e di distruzione. Fu un processo doloroso: le vecchie fantasie del potere affioravano alla realtà. Molti racconti
narravano la distruzione della Terra, la condanna della civiltà, la morte
dell’umanità e i terribili effetti delle radiazioni, che causavano la mutazione
o una morte insidiosa”.(8) Meno di dieci anni dopo, nel 1957,
l’entrata in orbita dello Sputnik toglieva altro terreno alla fantascienza come
profezia. L’era nucleare e l’era spaziale concretizzavano un inquietante
tendenza della società tardo-industriale a tradurre in realtà le fantasie più
sfrenate, e a colorarle, mentre le realizzava, di sfumature sinistre. Nella
fantascienza ci fu chi seguitò semplicemente a coltivare l’avventura
interplanetaria, ma ci fu anche chi comprese che bisognava battere strade
nuove: rivolgersi con occhi critici alla realtà contemporanea, rileggere gli
eterni problemi dell’umanità in chiavi comprensibili per l’oggi, recuperare
quella che Aldiss ha chiamato “la disperazione naturale e appropriata che ha
sempre caratterizzato gran parte della letteratura”.(9) La social science fiction, la fantascienza
sociologica che fiorì negli anni Cinquanta attorno alla rivista “Galaxy” diretta
da Horace L. Gold, segnò l’inizio di un riavvicinamento più cosciente della
fantascienza alle sue radici letterarie. Autori come Robert Sheckley, Frederik
Pohl e Cyril Kornbluth, Damon Knight batterono
la strada di massa che, per quanto fosse in ritardo sulla realtà, riprendeva un
filone ricco della narrativa fantastica europea, quello dell’anti-utopia,
dell’utopia a rovescio, in cui la descrizione grottesca di una società futura
rimanda a un’analisi implicita dei mali del nostro presente. A un filone del
genere si possono far risalire gli inizi della carriera di Kurt Vonnegut, e
almeno una parte della produzione di Ray Bradbury, due autori che uscirono
presto dall’ambito della fantascienza per approdare alla letteratura tout court. Non si può negare del resto
che all’origine dell’interesse per l’anti-utopia ci sia un libro come 1984 di Goerge Orwell, pubblicato nel
1949. Accanto a “Galaxy” va ricordata un’altra rivista, “The Magazin of Fantasy
& Science Fiction”, il cui direttore Anthony Boucher aveva un’attenzione particolare per l’aspetto
stilistico delle opere di fantascienza: fra gli autori incoraggiati da Boucher
spicca il nome di Richard Matheson, che sarà attivo anche come sceneggiatore
cinematografico.
Gli anni
Sessanta e Settanta registrano nella fantascienza un eco dei movimenti sociali
politici e culturali di quegli anni. La fantascienza ha ormai un mercato più o
meno stabile, il suo pubblico non sono più solo gli adolescenti affamati di
avventura degli anni Venti e Trenta; le riviste globalmente sono in calo di
tirature e di influenza, e al loro posto sono comparse le collane di libri,
rilegati e paperback, edite da case specializzate o da grandi editori. Il clima
di entusiasmo e di unanimismo di prima della guerra lascia il campo a
discussioni e polemiche. L’attività della rivista inglese “New Worlds” diretta
da Moorcock, il fenomeno americano della new
wawe con il suo tentativo di rinnovamento tematico e stilistico,
soprattutto l’affermarsi di una “fantascienza delle donne” che rivendica il
ruolo fin qui sommerso delle autrici e rilancia tematiche più apertamente
femministe o un punto di vista femminile (Joanna Russ, Vonda McIntyre, Alice
Sheldon, più nota come James Tiptree): sono tutti fenomeni che disegnano una
nuova fase della fantascienza, una sua maggiore apertura alla realtà, una
capacità di confrontarsi con i problemi presenti nella vita e nella cultura, il
colonialismo, il razzismo, l’ambiente, il militarismo. In modi diversi e anche
con esiti discutibili, autori formatisi vari decenni fa, come Asimov, Heinlein
o Arthur C. Clarke hanno dimostrato anche negli ultimi anni di saper aderire a
questo nuovo clima. Ma soprattutto, negli anni Sessanta e Settanta emergono
delle vere e proprie figure di autori, scrittori dotati di una immediata
riconoscibilità tematica e stilistica, con una formazione culturale ampia e la
capacità più propriamente letteraria di
tradurre nella scrittura il proprio mondo e la propria riflessione interiore:
capaci anche di dare forma personale ai grandi temi emergenti della nostra
epoca. Tra loro ci sono Thomas Disch, cronista della banalizzazione della vita
quotidiana e della dissoluzione del significato; Samuel R. Delany, interprete
raffinato e barocco dell’esplosione dell’io, creatore di personaggi e paesaggi
frammentati e mutevoli, sempre alla ricerca di una nuova logica capace di
cucire almeno in parte questi frammenti: Alice Sheldon (che si è tolta la vita
l’anno scorso), nella sua opera ha disegnato un percorso che dall’esame della
condizione femminile arrivava a porsi il problema della vita umana come dolore.
In Europa bisogna parlare almeno dell’inglese James Ballard e del polacco
Stanislav Lem. Quest’ultimo ha dimostrato di saper rinnovare sia la tradizione
del “racconto filosofico” di derivazione settecentesca, sia la riflessione sui
limiti e le potenzialità della tecnica.
Quanto
a Ballard, adesso che la pubblicazione dell’Impero
del sole lo ha fatto conoscere a un pubblico più vasto, non si può che
raccomandare la lettura dei suoi romanzi e racconti precedenti, che designano
uno dei più affascinanti ritratti dell’uomo post-nucleare, illuminato (come
appunto nell’Impero del sole) dalla
luce accecante di Hiroshima, e perso da quel momento in poi in un labirinto di
pulsioni e regressioni.
Ma
se volessimo esemplificare i risultati più maturi di cui è capace la
fantascienza, non sapremmo indicare nomi più adatti di quelli di Ursula Le Guin
e Philip Dick. Nessuno come la scrittrice dell’Oregon ha insistito sulla
responsabilità morale dell’individuo, sulla necessità del confronto con l’Altro
in tutte le sue forme, per scoprire quel tanto di noi che nell’Altro si ritrova
ma anche per rispettare ciò che in esso rimane irriducibilmente diverso. La mano sinistra delle tenebre
costituisce l’esempio migliore di questa tematica sul terreno del sesso, come I reietti dell’altro pianeta lo è sul
terreno della fantascienza politica.
Se Ursula
Le Guin rappresenta il ricongiungimento alla tradizione letteraria nella sua
forma più consapevole, anche sul piano dello stile, Philip K. Dick (scomparso
nel 1982) dimostra che la grande letteratura può nascere anche dall’interno
della cultura di massa, se chi la pratica è capace di mettere in gioco tutta la
sua sensibilità, anche al di fuori di una formazione tradizionale. Come nessun
altro nella fantascienza e come pochi fuori di essa, Dick ha saputo dare forma
a uno degli interrogativi più brucianti e fondamentali della società
post-industriale: come si può penetrare la realtà, che possibilità rimane di
attribuirle un senso nell’epoca della Grande Macchina, dell’esplosione delle
tecnologie riproduttrici e produttrici di realtà. La svastica sul sole, Noi Marziani, Le tre stimmate di Palmer Eldritch,
Ubik, Episodio temporale, Valis, sono fra le tappe maggiori del suo
percorso, e rappresentano tutte, in vario modo, delle lucidissime testimonianze
della condizione umana nelle rovine del mondo moderno.
Nota 1: U. Le Guin, Il linguaggio della notte. Saggi di fantasy
e fantascienza, Editori Riuniti, Roma, 1986, pp.217/218.
Nota 2: D. Suvin, Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e
storia di un genere letterario, Il Mulino, Bologna, 1985.
Nota 3: op. cit., p.
VII
Nota 4: citato da O.
del Buono, op. cit., p. XIV
Nota 5: Il laboratorio dei sogni. Fantascienza
americana dell’Ottocento, a cura di C. Pagetti, Editori Riuniti, Roma,
1988, p. 21
Nota 6: op. cit., p. 11
Nota 7: J. Sadoul, Storia della fantascienza, Garzanti,
Milano, 1975, p. 135
Nota 8: B. W. Aldiss, Un miliardo di anni. La storia della
fantascienza dalle origini ad oggi, Delta, Milano 1974, p. 261
Nota 9: op. cit., p.
262
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