Possiamo forse, provvisoriamente, metterla in questo
modo: se è vero, come da qualche parte si tende a dire, che la cultura
dell’uomo si è sempre svolta all’insegna di opposizioni binarie e distintive
(essere/divenire, sostanza/accidente, caldo/freddo, umido/secco, crudo/cotto, e
via dicendo), e se è vero che, fra tutte, l’opposizione forse più generale e
fondante è quella fra l’’identico’ e l’’altro’, il mondo del sogno rappresenta,
accanto a quello della natura, la più abbondante riserva di ‘altro’ che si sia
offerta all’umanità fin dall’inizio della sua esistenza. E la più inquietante, visto
che non proviene dal ‘fuori’, ma dal ‘dentro’, da un’attività che si deve in
qualche modo ricondurre a quel soggetto che, nello stato di veglia, risulta
invece sottoposto a tutti i più stretti vincoli, a tutte le leggi
dell’identità.
Non ci stupiamo perciò di trovare, sul filo della storia letteraria, un
uso del sogno (non l’unico possibile, certamente) che lo collega con l’insolito
e il meraviglioso: da Luciano a Hoffman, De Quincey e Carrol, passando per
Shakespeare a Calderòn de la Barca. L’insolito e il meraviglioso, si è detto, e
non il fantastico: almeno se seguiamo, su questo terreno , Todorov (La letteratura fantastica) il quale vede
il carattere distintivo della letteratura fantastica nell’esitazione tra una
spiegazione razionale, naturale e una soprannaturale di un fatto insolito. Ora,
forse paradossalmente, il riferimento al sogno nelle opere fantastiche
distrugge appunto – o tende a distruggere – l’esitazione: fornisce una
spiegazione ai fatti insoliti o meravigliosi in cui si sono imbattuti i personaggi
– fatti che possono coprire, come in Alice, anche tutta la narrazione. La
spiegazione potrà essere o non essere convincente: diciamo, anzi, che lo
statuto del sogno nella struttura della narrativa fantastica è inseparabile da
un elemento di ambiguità, ambiguità irriducibile, e presente, peraltro, anche
in tutti i tentativi pre-freudiani di spiegazione scientifica del sogno.
L’avvento della
psicanalisi ha però, dal canto suo, riportato il sogno nell’alveo
dell’identità, riconoscendovi una trama di simboli, una possibilità di lettura
e di ordinamento razionali nella massa di contenuti fino ad allora considerati
caotici e ‘insensati’ del sogno. Nella vita psichica non può esservi nulla di
arbitrario, proclamava Freud. E l’inconscio viene così a funzionare come
categoria in grado di assumere tutto il materiale non ordinabile secondo i modi
della razionalità classica, in grado di dare ad esso un ‘senso’, diverso forse,
ma con pari dignità rispetto ai prodotti della ragione cosciente. Non è qui il
caso di fare un bilancio del successo o meno di questa impresa freudiana, in
particolare nelle sue applicazioni all’analisi della produzione letteraria. Ma,
che si accetti tanto o poco il metodo di indagine psicanalitico in letteratura,
non possiamo quindi liberarci dall’ombra che sul romanzo del ‘900 getta Finnegan’s Wake, che nella
‘registrazione’ dei sogni di una sola notte concentra un inesauribile
repertorio dell’attività umana vista come combinatoria linguistica: “poiché
l’ambiente è un sogno, …non è possibile alcun contrasto tra un flusso di
coscienza all’interno della mente e la comparsa di altre persone al di fuori di
essa” (Northrop Frye, Anatomia della
critica). Ed è, in qualche modo, un’operazione ‘conclusiva’ che Joyce fa, e
non casualmente dentro l’universo del sogno.
In che misura è possibile un abbinamento sogno-fantascienza? Le
generalizzazioni, su un problema del genere, rischiano di essere banalità o
stupidità, come una definizione che vedesse nella fantascienza ‘un sogno del
futuro’, o, tout court, una
‘letteratura del sogno’. Volendo procedere su questo terreno, sarebbe facile
dire che la letteratura è sempre il sogno di qualcosa, che l’universo
letterario, anche nelle forme più realistiche, è sempre un sogno della realtà –
o che la realtà, forse, sogna la letteratura. E la discussione ci porterebbe
lontano, non si sa, a quale livello, con quale frutto. È forse meglio, allora,
procedere più modestamente ad una rassegna di alcune delle opere in cui il
sogno appare esplicitamente, in fantascienza, come elemento della trama o come
meccanismo narrativo; sperando che altri vogliano riprendere, completare, e
soprattutto arricchire, questo primo tentativo.
Da dove cominciare, allora, se non da Alfred Bester, questo istrione
della parola scritta e parlata, di cui non sai mai se devi deciderti a
‘prenderlo sul serio’ o considerarlo niente più che un simpatico burlone, e che
con la sua presenza discreta attraversa tutta la fantascienza degli ultimi
trent’anni? In L’uomo disintegrato Ben
Reich, furioso e nevrotico capitalista che ha ucciso un suo concorrente e deve
sfuggire alle ricerche della polizia condotte con metodi ESP (percezione
extrasensoriale), è perseguitato da un sogno ricorrente. In esso campeggia un
Uomo senza Volto, che con la sua sola presenza
lo terrorizza, e sfugge ad ogni tentativo di identificazione cosciente.
Ben Reich finisce per identificarlo con il suo potente concorrente D’Courtney:
gli propone una fusione e, credendola rifiutata per uno stranissimo lapsus (del
resto perfettamente noto al lettore), lo uccide. Al termine di una memorabile
sequenza, nella quale tutti i riferimenti della realtà esterna, uno ad uno,
scompaiono per Reich, egli si trova faccia a faccia con il protagonista dei
suoi incubi, che questa volta ha un volto, anzi due: il suo e quello di
D’Courtney; il quale nel frattempo, come si è scoperto, non è altro che il
padre di Reich. Non ci vuole molto, anche solo da un riassuntino striminzito
come questo, per individuare una massiccia presenza di tematiche psicanalitiche,
in questo come negli altri lavori di Bester. E in effetti il sogno ritorna,
spesso con funzione e valore terapeutico, in altri racconti di Bester: per
esempio in 5.271.009, o The Starcomber (Lo Stellaiolo, in Stella della sera e Robot 4), dove il sogno serve ad un artista
confinato in una regressione infantile per raggiungere la maturità; o in Hell is forever (L’inferno è eterno, in Stella della sera), in cui sogno e morte si fondono. In questi
racconti, più che in L’uomo disintegrato,
Bester introduce piccoli, ma micidiali elementi di dubbio su quale sia il mondo
‘reale’; il mondo esterno al testo, quello a cui il lettore fa riferimento come
‘mondo reale’, e con cui si identifica – così pare – una parte del mondo del
testo, o il mondo del sogno? Ma non sono niente più che dubbi: a dispetto delle
apparenze, la narrativa di Bester ha un fondo eminentemente etico, esprime una
visione del mondo tipicamente americana, disincantata e scettica, ma ancorata
al quotidiano (come tutta ‘americana’ è la psicanalisi che vi si trova): Bester
non ha dubbi su quale sia la vera ‘realtà’: il riferimento ad un mondo esterno
al testo, che garantisca della risolubilità della contraddizione tra il mondo
della veglia 3e quello del sogno, è un presupposto costante.
Ed
è un presupposto che ritroviamo in due altri autori che, su questa linea, sono
andati comunque più avanti di Bester: Zelazny e Ursula Le Guin.
In
Signore dei sogni Zelazny vuole
deridere l’illusione positivistica e organicistica di poter padroneggiare la
malattia mentale con una tecnica. La neuropartecipazione è una tecnica di
induzione di realtà illusoria, di ‘sogni’ artificiali nella mente del paziente:
questa entra in contatto con la mente dell’analista, il Formatore, tramite una
macchina estremamente sofisticata, e il Formatore crea, in questo modo, mondi e
scenari adatti a far reagire la mente del paziente nel modo più opportuno per
scoprire le origini della nevrosi.
Come spiega Charle Render, Formatore, “la neuropartecipazione è
qualitativamente superiore alla psicanalisi, perché produce cambiamenti
organici, misurabili”. Ma Render, “fuori-classe ultra equilibrato e con volontà
granitica”, soccomberà di fronte ad Eileen Shallot, “una combinazione di alta
intelligenza e di debolezza, di determinazione e di vulnerabilità, di
sensibilità e di amarezza”; Eileen è un dottore cieco che vuol essere iniziata
alla neuropartecipazione, e si rivolge a Render per farsi istruire, finendo a
poco a poco per condurre il gioco e intrappolando il Formatore in un mondo di
archetipi mitici da cui non potrà più uscire. Una rivincita, se non della
psicanalisi di Freud (il cane mutante di Eileen, fin dall’inizio contrario alla
cura, si chiama Sigmund), quanto meno della psicologia analitica di Jung. E sul
messaggio non è possibile equivocare: non si deve scherzare con la realtà.
Un’altra
delle “lezioni dimostrative sui pericoli dell’onnipotenza”, per dirla con
Blish, è La falce dei cieli di Ursula Le Guin. Qui l’equazione sogno = creazione di realtà agisce in
modo ancora più letterale, ma per portare a conclusioni analoghe a quelle di
Zelazny. George Orr scopre che i suoi sogni sono ‘efficaci’, hanno cioè il
potere di trasformare la realtà. In lui Haber, psichiatra illuminista e
messianico, vede una possibilità di realizzare l’utopia. Sotto ipnosi, Orr
potrà sognare i più meravigliosi cambiamenti sociali e politici suggeritigli da
Haber. Naturalmente, in qualche modo, la ‘realtà’, qui nei panni dei meccanismi
interiori di Orr, si vendica, e gli obiettivi più luminosi vengono raggiunti
con i mezzi più terribili: la fine della sovrappopolazione attraverso la peste, la pace perpetua
attraverso un’invasione di alieni. Il meccanismo comincia a non funzionare più:
“il sogno, creando dove non c’era necessità di creare, era diventato logoro e
sottile”, e il mondo rischia di svanire nell’ultimo sogno autistico, questa
volta di Haber (la sequenza ricorda da vicino quella, analoga, di L’uomo disintegrato). Forse la realtà
non è che un sogno, dice la Le Guin, ma un sogno guidato da regole che è
pericoloso infrangere: “Ogni cosa sogna. Il gioco delle forme, dell’esistenza,
è il sogno della sostanza. Le rocce fanno un sogno, e la terra cambia… Ma
quando la mente diventa cosciente, quando la velocità dell’evoluzione aumenta,
allora bisogna andare molto cauti. Cauti, questa è la parola. Occorre imparare
la via. Occorre imparare la tecnica, l’arte, i limiti. Una mente cosciente deve
fare parte del tutto, intenzionalmente e cautamente, come la roccia
inconsciamente fa parte del tutto”.
L’ispirazione più
profonda della narrativa di Ursula Le Guin si conferma quindi, ancora una volta
e a dispetto dei riferimenti mistici che a volte adopera, razionalista e
morale. Occorre un’altra cultura per poter padroneggiare le forze che si scatenano
nel sogno: una cultura, come quella del popolo della foresta (Il mondo della foresta) in cui il “tempo
del mondo” e il “tempo del sogno” non siano drasticamente separati, e il sogno
degli Uomini serva a dare elementi alle Donne per governare la comunità.
L’uomo, come notano Scholes e Rabkin (Fantascienza,
Storia, scienza, visione) è colpevole quando lotta per la vita, quando
vuole l’immortalità con la creazione di una vita artificiale: “o
almeno così ci ha insegnato la nostra mitologia”. La stessa colpa commette
quando vuole creare un’altra realtà, quando sogna, insomma: ed è forse anche il
peccato originale della fantascienza, ciò che ad ogni costo si deve esorcizzare
ribadendo i diritti del reale e della ragione.
(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia Anno IV N. 2 (8) - II Trimestre 1980)
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