Un
sindacalista appassionato più che altro di cinema fantascientifico, (…) uno
studente quindicenne, (…) un giovane illustratore in cerca di uno sbocco
professionale, (…) un ragioniere che si occupò quasi esclusivamente di tenere
la cassa di UAU, (…) una meteora che non ricordo cosa facesse, e neanche che
faccia avesse, (…) un fotografo che campava vendendo servizi a varie riviste e
che viveva in una casa arredata con cassette di frutta.
Sarebbe
materiale per un racconto fantastico tendente al grottesco. Ma non è per fare
della facile ironia che abbiamo fatto un collage di queste descrizioni; è
perché veramente esse danno, quasi loro malgrado, il senso di quello che è
stato il collettivo di UAU, e ci avvertono dell’impossibilità di farne una
storia separata da quella della rivista. Proviamo a fare il confronto con una
storia simile situata ai giorni nostri: un gruppo di giovani apre un circolo
culturale, magari fruendo anche di qualche contributo degli enti pubblici
attinto ai fondi per le politiche giovanili. Sarebbe mai possibile fare una
descrizione dei suoi componenti come quella che abbiamo letto adesso per UAU?
Il collettivo fa un bilancio delle attività svolte, un bel resoconto con tanto
di fascicolo a colori, statistiche e diagrammi. A chi verrebbe in mente di
descriverne i membri in questo modo, con questa ombra di sinistra inquietudine
(penso in particolare a quell’essere meteora, privo di faccia)? Oggi quel che
conta in un gruppo che fa attività culturali è il numero di eventi che è in
grado di produrre, la quantità e il tipo di pubblico che riesce a coinvolgere,
e se poi riesce addirittura a progettare un festival di qualcosa di cui ancora
non sia stato fatto un festival, allora siamo al top. E invece quel gruppo di
trent’anni fa era il prototipo di tanti altri gruppi simili, formati da
individui con caratteristiche peculiari che influenzavano irrimediabilmente,
con le loro particolari deformità e mostruosità, il prodotto culturale che
andavano costruendo, e di cui per fortuna non erano tenuti a produrre bilanci. A dispetto di quello che tanti pennivendoli
ne scrivono oggi, gli anni settanta in Italia furono un enorme cantiere
sperimentale, una rassegna di innumerevoli modi di praticare nel concreto le
varie utopie di cambiamento del mondo, insieme alla costruzione di un’impalcatura
reale e duratura di quel contropotere necessario a sostenerlo. Ma questo non
significa affatto indulgere alla stupida contrapposizione, tanto in voga oggi,
tra ’68 e ’77; sappiamo bene che quest’ultimo, senza il primo, non avrebbe
neanche potuto esistere, ma sosteniamo anche che quel tanto vituperato ’77,
quel Franti nella classe delle date storiche, fu uno tra i più significativi
sussulti rivoluzionari nella controstoria del nostro paese. Quello che più di
tutti ha da un lato allargato a dismisura la partecipazione a tutte le classi,
le categorie, i generi di persone, senza di fatto certificare l’egemonia di
nessuna di esse sulle altre; e dall’altro ha messo in campo tutte le pratiche
di cambiamento possibili – economiche, culturali, spirituali, sessuali e via
dicendo – in una continua e incessante discussione che si concentrava in modo
particolare sulle questioni del potere e della violenza. Senza dimenticare che
tutto ciò, ritratto in questa sintesi un po’ sommaria ma fedele, poggiava su quella
vera e propria faglia di Sant’Andrea che fu il femminismo. Se non teniamo
presente questo quadro di riferimento, la storia di UAU, insieme a quella della
stragrande maggioranza delle altre storie di allora, non solo è trascurabile,
ma è del tutto incomprensibile. La fondatezza e la veridicità del quadro che
abbiamo delineato si ricava, in negativo, proprio da quanto è accaduto dopo,
dalle mosse astute e intelligenti di chi in quegli anni era sotto attacco e
misurava tutta la propria difficoltà. Perché c’è stato chi, meglio di noi, ha
saputo far tesoro di quanto di ricco e innovativo emergeva da quel bozzolo di
crisalide che il movimento di quegli anni andava tessendo con poca pazienza e
tanto furore. Il capitale, nel suo processo di trasformazione, ha saputo
inglobare molte delle esperienze ad esso antagoniste – basti pensare alle
pratiche relazionali femminili, o a quelle inerenti a un rapporto diverso col
corpo proprio e altrui – tanto da far apparire il “pensiero unico” che andava
costruendo e la nuova organizzazione socioeconomica pieni delle più
strabilianti e diversificate attrattive. Per quanto riguarda noi invece, noi
che ancora abbiamo voglia di definirci antagonisti (e non chiedeteci a chi o a
che cosa, fosse anche solo a noi stessi sarebbe già abbastanza, in questo
universo in cui l’unica cosa che ci riesce ancora di condividere con qualcuno è
l’incubo in cui viviamo), be’, noi non abbiamo saputo capitalizzare (scusate il
termine) granché. L’odierno movimento, il più documentato, autoradiografato e
con una interconnessione in tempo reale tra tutti i suoi membri e componenti
non è ancora in grado di sviluppare un dibattito sui propri meccanismi di
potere e di violenza pari neanche alla centesima parte di quella che si
sviluppò allora. Uno smisurato velo di oblio si è steso su quegli anni, ma i
discorsi non possono ripartire da zero, soprattutto se chi quei discorsi li ha
fatti è ancora vivo e vegeto e interagisce con la realtà odierna,
indipendentemente dal ruolo con cui vi opera attualmente. Più che giustificato,
quindi, rimestare le ceneri di quel passato, fosse anche solo per far rivivere
un documento marginale di quel contesto quale fu UAU. Le responsabilità di aver
distrutto la famiglia, aver praticato e teorizzato la violenza, aver voluto
rompere il vaso di Pandora del sesso, e, saltando gli altri innumerevoli
peccati, di esserci infine anche occupati di fantascienza, ce le dobbiamo
assumere tutte. E lo facciamo volentieri. Nove numeri di una rivista partita
con un ciclostile e approdata a una vera tipografia, un libro, una libreria,
tentativi vari di sedi redazionali (in proprio o ospiti di altre realtà
aggregative), manifestazioni, dibattiti, convegni, feste, trasmissioni
radiofoniche, una vasta eco sulla stampa nazionale non di settore, e una proliferazione
di altri gruppi e riviste associate in tutt’Italia. Se andassimo a
vivisezionare questa mole di esperienze, con qualche abbellimento qua e là, ne
potremmo ricavare un quadro estremamente gratificante. Ma sarebbe una
falsificazione, così come lo sarebbe per altro una visione contrapposta tutta
fallimentare. E se, com’è ovvio, le “giuste vie di mezzo” continuiamo a
schifarle, ciò che si può dire ed è giusto dire di quell’esperienza è che tutti
noi che ne facemmo parte, l’abbiamo vissuta, l’abbiamo agita. Tutti abbiamo
potuto fare i conti con essa privi di qualsivoglia obbligo esterno al nostro
sentire, padroni del nostro agire, e liberi dalla minaccia di quell’essere
agiti dal dovere di un’istanza superiore , sia essa politica o squisitamente culturale,
da cui tutto il movimento di quegli anni era o si stava definitivamente
emancipando. In quel contesto di spaesante ebbrezza, prendersi delle
responsabilità nello spingere verso una direzione piuttosto che un’altra era
possibile solo al di fuori di qualunque garanzia di protezione, ideologica,
normativa ecc. (quanto al proporsi come leader, era qualcosa che allora
equivaleva a un suicidio). Un’ambigua utopia non è stata un’eccezione. La sua
nascita e la sua morte non possono essere addebitate a responsabilità singole,
individuali. E la sua fine, se da una parte si inscrive nella scia del
concomitante esaurirsi della storia del movimento degli anni settanta,
dall’altra va di pari passo con quella vera e propria devitalizzazione che il
genere “fantascienza” andava man mano evidenziando proprio in quegli anni.
Insomma, nonostante il tentativo di ampliare il proprio orizzonte verso un immaginario più ampio di
quello legato alla fantascienza, UAU non poté certo sopravvivere alla fine di
quest’ultima. Ma perché scegliere proprio la fantascienza, con quella sua ombra
di irriducibile fiducia nel progresso e nella razionalità tecnico-scientifica,
già in crisi alla fine dell’Ottocento e di nuovo sotto attacco proprio in
quegli anni da parte di una rinvigorita critica politica? Perché non piuttosto
il fantasy, e i suoi legami con quel fantastico che attraverso i miti, le
leggende e le fiabe, percorreva sia i tempi remoti che le diverse culture,
geografiche e sociali (da quella popolare a quella colta)? Tra l’altro, in
questo caso, avremmo avuto come avversari proprio quelli a noi più pertinenti,
i fascisti dei Campi hobbit, per intenderci, e non quella strana melassa,
assolutamente aliena alla nostra pur volenterosa comprensione, che erano e sono
i fan della fantascienza. Estraneità, sia detto qui per inciso, che riguardava
tutti i fan, di destra o di sinistra che fossero. La rabbia di un compagno come
Vittorio Curtoni, nel congedarsi da Robot al momento della chiusura della
rivista, contro i suoi stessi lettori, risultò a tutti noi semplicemente
incomprensibile. Eppure, riflettendo a posteriori, era un gesto emblematico
della differenza che c’era tra noi di UAU e un qualsiasi fan anche di sinistra:
nessuno di noi metteva al primo posto la fantascienza, qualsiasi strategia e
qualsiasi tattica ci potesse dividere, nessuno si era costruito, tramite la
fantascienza, il proprio giocattolo solipsistico. Nessuno tendeva a evasioni da
abate Faria. Con la fantascienza non pensavamo di evadere dalla prigione, ma di
distruggere quella prigione, o per meglio dire, di avere uno strumento in più
per farlo. Il fatto è che eravamo convinti che la fantascienza fosse la forma
narrativa più adatta ad esprimere la sensibilità di una società industriale
matura. Ballard l’aveva detto prima di noi, sin dai primi anni Sessanta, e
restò fedele sino alla fine a questa convinzione, anche quando ormai non
scriveva più fantascienza. Nella sua autobiografia, scritta l’anno prima di
morire, nel 2008, diceva:
Io
pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che da un certo punto di vista la
fantascienza sia stata la vera letteratura del XX secolo, e che abbia avuto una
grande influenza sul cinema, la televisione, la pubblicità e il design dei
prodotti di largo consumo. Oggi la fantascienza è il solo luogo dove sopravvive
il futuro, come la fiction televisiva in costume è il solo luogo in cui
sopravvive il passato (I miracoli della vita, Feltrinelli, Milano 2009, p.
162).
La fantascienza era il tipo di letteratura che
meglio esprimeva la mediazione fra natura e cultura messa in atto dalla società
industriale, ma proprio per questo era anche quella che meglio ne esprimeva la
crisi. Se nei primi decenni del Novecento il suo immaginario era un inno alla
tecnologia come prolungamento potenzialmente infinito dell’uomo e delle sue
capacità, con Ballard, con Dick, con il primo Vonnegut, più ancora forse con la
visionarietà barocca di William Burroughs, cominciava ad emergere un’altra
visione e un’altra pratica, con cui la fantascienza avrebbe accompagnato la trasformazione
dell’economia e della società in senso postfordista, registrando e proiettando
la crisi di quel modello titanico e prometeico, cantandone il tramonto e
l’avvento di nuove preoccupazioni e di nuovi scenari dell’immaginario, quelli
che poi si sarebbero espressi negli anni ottanta nel movimento cyberpunk (che
della fantascienza fu in effetti il canto del cigno). Ma, paradossalmente, era
proprio la sua nascita “sporca”, erano i pulp americani degli anni venti e
trenta, era la sua impossibilità di aspirare a natali più nobili (una scorsa ai
pretesi ascendenti storici, a partire da Luciano di Samosata, si commenta da
sola), era tutto questo che ai nostri occhi rendeva la fantascienza
suscettibile di un ventaglio di approcci estremamente variegato. In quella
discarica di immondizia in cui ci si poteva imbattere in rifiuti tossici per lo
spirito, per la razionalità o per la semplice igiene fisica e mentale, con i
suoi superuomini, mutanti, alieni e invenzioni altamente improbabili, in quella
sorta di fiera del cattivo gusto estesa a dimensioni galattiche, qualcosa
tendeva però ad emergere in superficie urlando la propria indisponibilità alla
salute del mondo. Un mondo malato che necessitava disperatamente di un
pharmakon in grado di salvarlo. Una componente indispensabile di quel pharmakon
si trovava proprio in quel monte di immondizia, tra quella nauseante puzza di
rifiuti. I seguaci della fantascienza, i sacerdoti e i semplici devoti di quel
monte, hanno saputo vedere la componente salvifica di quell’enorme simulazione
della messa in crisi del mondo e di tutte le possibili forme di cura dello
stesso. Assecondare la lacerazione del tessuto della realtà per evidenziarne i
punti di rottura e porvi rimedio. La fantascienza, al contrario del fantasy,
non costruisce altri mondi in cui trasmigrare, lasciando andare alla deriva
quello che si abita realmente. È terribilmente gelosa della propria
appartenenza terrestre. La datità è il grande Moloch a cui si sacrifica, e se
la mette in discussione è solo per meglio rafforzarla. Ma è un gioco sul filo
del rasoio, e alla lunga questo mettere in crisi per risolvere produce come
scarto un’ansia che si accumula sempre più, fino a trasformarsi in vera e
propria paura senza riscatto. Alcuni autori, o semplici appassionati come noi,
hanno intravisto, poco importa quanto consciamente, come questo vero e proprio
sintomo della crisi del mondo fosse sottovalutato e usato male, e da alleati
della cura ci siamo fatti alleati della malattia. D’altra parte questo fu l’uso
della fantascienza che non proponemmo, alla fine degli anni settanta, solo noi,
ma tutto un nutrito settore della cultura underground, e anche alcuni filosofi
visionari e radicali come Baudrillard. Se la fantascienza di Dick, di Ballard,
di Burroughs, ebbe la capacità di distanziarsi dal suo tempo per vedere i germi
di un futuro che si stava preparando e che presto non sarebbe più stato futuro,
ma onnipresente presente, se seppe “ricevere in pieno viso il fascio di tenebra
che proveniva dal suo tempo„ (per usare un’espressione di Giorgio Agamben)
senza indulgere ad alcuna tentazione salvifica, fu perché essa sapeva vedere
nel contingente il suo rovescio, fu perché sapeva rovesciarne il linguaggio.
Perché sapeva mentire. Perché sapeva costruire degli obbrobriosi falsi, e in
questi falsi sapeva illuminare di luce obliqua e radente la verità che pareva
nascosta, e invece era lì, a disposizione di chiunque volesse vederla. Il
valore della fantascienza, anche di quella più miserabile e rattoppata,
consisteva in fondo in due punti fondamentali. In primo luogo, essa minava – a
volte apertamente scardinava – la nozione più ristretta di “realtà„, metteva in
dubbio che la realtà potesse identificarsi con l’esistente, reintroduceva a
vele spiegate il possibile come irrinunciabile elemento costitutivo del reale
(secondo un programma già espresso anche da Robert Musil negli anni trenta). In
secondo luogo la fantascienza, traducendo in termini molto accessibili la crisi
del soggetto narrante impersonale e onnisciente su cui si basava il romanzo
realistico ottocentesco, introduceva nella narrazione il punto di vista del
futuro (o del passato, o del presente alternativo): ma così facendo contribuiva
a mettere in discussione la neutralità della narrazione, e mostrava più in
generale che ogni discorso viene enunciato da un luogo preciso, da un tempo
determinato, da un corpo concreto. E che quindi è illusorio – e quasi sempre
mistificante, e prevaricante – assegnare a certi racconti, a certi saperi, a
certe enunciazioni, un valore assoluto e universale, svincolato dalle
condizioni storiche e contingenti delle narrazioni, dei saperi, delle
enunciazioni. Che ogni sapere ha (per usare il termine di Foucalt) un’epistéme,
che ogni discorso è prodotto da una “formazione discorsiva„. Che ogni conoscenza
è “situata„. Le stesse cose che, più o meno negli stessi anni, andava scoprendo
il pensiero femminista, per rivelare le mistificate radici maschili e
fallocentriche del pensiero occidentale. E questo lega la fantascienza (nella
sua accezione più radicale e davvero immaginativa) alla critica corrosiva del
fake, alle identità immaginarie e collettive, alla guerriglia mediatica. Che è
quella che praticò per breve tempo il movimento studentesco del 68 a Parigi
come a Roma e a Berlino (prima di finire frantumato e immiserito nella diaspora
dei presuntuosi e impotenti gruppetti della sinistra sedicente
“rivoluzionaria„), quella che continuò a vivere con l’endemica rivolta dei
giovani operai italiani ed europei per tutti gli anni settanta – nella
quotidiana ricerca di invenzioni per realizzare il rifiuto del lavoro, quella
che deflagrò come pratica condivisa e unica forma possibile di insurrezione in
Italia tra la fine del 1976 e il marzo del 1977. UAU dal suo iniziale, risibile,
ingenuo quanto si voglia, “vogliamo distruggere la fantascienza”, sino al gatto
del Cheshire sornione e inquietante dell’ultimo numero della rivista (catalogo
di una mostra convegno sulla simulazione, gli ologrammi e il falso, forse un
po’ in anticipo sui tempi), non ha perseguito altro scopo che questo.
Distruggere. Allearsi alla malattia lasciando operare il sintomo. Distruggere
la fantascienza significa usarla e non servirla. Ma il nostro uso politico
della stessa non aveva per noi solo lo scopo, dichiarato, di redimerla
dall’apparente neutralità del prodotto di genere, rivelandone le ideologie
soggiacenti: meno dichiarato ma – credo – ben più rilevante, era quello di far
emergere dalle sue viscere la sua più intima vocazione di strumento, di
cassetta degli attrezzi, o per dirla alla Gunther Anders, di “filosofia
grossolana”, capace di affrontare la disperata situazione di un mondo, per la
prima volta in grado di distruggersi nell’arco di un amen. C’era molto
pressappochismo, almeno nella prima serie di UAU, ma nessun intento
divulgativo, né spirito scolastico. E abbiamo fallito. Certo. Ma la nostra
speranza è di continuare a farlo. E che altri, dopo di noi, lo possano fare
ancora, e ancora, e ancora.
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