lunedì 27 dicembre 2021

Una strana idea.

 


Strana idea quella di volersi ostinare a “Continuare a distruggere la fantascienza” (1) quando la suddetta è già bella che morta da almeno mezzo secolo. E ancora più strano ostinarsi a ribadire questo impulso (forse un po’ necrofilo?) su una neonata rivista, necrofila a sua volta nel voler possedere la compianta defunta Un’Ambigua Utopia, deceduta da quasi un quarantennio.  Confrontarsi con le nuove generazioni, anche scontrarsi, è sempre entusiasmante. Le tue convinzioni, per quanto possano contare su un passato più lungo di esperienze, non possono altresì contare su un altrettanto lungo futuro. E il futuro, con le sue memorie e il suo intenso vissuto, è il terreno in cui i giovani possono muoversi con un tipo di agio che a noi vecchi, ormai, non è più concesso.

Forse per questa mancanza di un qualunque stimolo d’entusiasmo è stato difficile, per non dire impossibile, confrontarmi con un gruppo la cui età media coincide con la mia, o forse (o anche) perché nella morsa degli impulsi nostalgici il rischio della caduta negli stati confusionali caratteristici della nostra età senile sono troppo alti. Lo dimostra l’editoriale di questa UAU 11 (consultabile anche sul sito col titolo “La nostra storia”) in cui i redattori scoprono di essere rimasti, rispetto alla redazione di allora, solo in otto: “due colonne, Antonio e Giancarlo ci hanno lasciati, Giuliano ha scelto di non partecipare, Piero è molto anziano e poco attivo e tutti noi che qui trovate elencati siamo vecchietti e in pensione. Ma non abbiamo mollato ancora.” Anch’io non ho mollato, anche perché dovrei sapere prima cosa ho da mollare… Una militanza? Quella che abbiamo conosciuto in gioventù è finita da un pezzo, e almeno questa è stata una fortuna! Un’appartenenza? Destra e sinistra, due appartenenze che sempre più rischiano di essere puramente nominali. Un’identità? Questa forse sì è il problema che qui mi sembra più rilevante. Dimenticarsi, come è stato fatto in questa storia di un “noi”, di compagne e compagni che hanno fatto altrettanto parte di quella vecchia esperienza non credo possa addebitarsi al problema senile quanto piuttosto al bisogno di volersi sentire maggioranza e pertanto legittimati nel costituirsi come identità, come un ‘noi’ forte che possa reclamare diritti di proprietà. Chiedo scusa a nome loro a Luci Pittan (che non è più tra noi), Michela Panigada, Enrico Miotto, Maurizio Giannoni, Renato Aquilani, a Flavia De Giovanni e insieme a lei a tutte/i quelle/i che sono entrati attivamente negli ultimi tre anni della vita del collettivo (di cui rammento poco volti e nomi essendone io uscito proprio allora). Ricordo con commozione però quando al funerale di Antonio Caronia ha parlato una compagna che ha esordito dicendo “noi di Un’Ambigua Utopia” ed io con Giancarlo Bulgarelli e Patrizia Brambilla ci siamo guardati in faccia stupiti perché non ce la ricordavamo.

Perché in realtà UAU è stata veramente un “noi” ma ben di più ampio respiro di quanto si vorrebbe far credere in quella nuova storia fatta ad hoc. Perché è vero che tutte le storie sono di parte e parziali, ma quelle che si costituiscono in un dibattito nel corso degli anni hanno un valore di memoria che, per quanto inventata (e quale non la è?) si costruiscono come storie operanti nel presente. L’invenzione di una storia ad hoc per legittimare un’operazione improvvisa ha un valore completamente diverso in quanto ha la sola finalità di giustificare tale operazione. Ma non c’è nessuna legittimazione possibile ad un’operazione di accaparramento di una storia che non è solo quella degli anni ’70, ma è soprattutto quella che da più di vent’anni hanno portato avanti Caronia, il sottoscritto e tutte/i quelle/i compagne/i del movimento, attiviste/i dei centri sociali o meno, come ad esempio quelle che hanno messo in piedi l’Archivio di UAU (Bibliotork Interzona Caronia) del C.S. Torchiera, o quelli che hanno digitalizzato e resa pubblica l’intera serie della rivista e prodotto il n. 10 di UAU. Numero unico quest’ultimo perché privo, da parte di chi l’ha fatto, di istanze proprietaristiche, e quindi a disposizione, in quanto attrezzo libero, di chi abbia voglia ed esigenza di usarlo nel rispetto della sua specifica storia interna al movimento antagonista.

E forse questa è stata una pretesa eccessiva. Questo decimo numero a cui ho collaborato ma che non nasce da una mia proposta ma dal gruppo di digitalizzazione (anni fa avevo proposto al C.S. Il Cantiere un n. 10 fatto con un finto materiale recuperato nel classico baule della soffitta dell’immaginario, un fake da realizzare per il primo anniversario della morte di Caronia, che purtroppo non si è potuto realizzare)  è stato costruito come continuazione di un ciclo di incontri sulla fine dell’uomo al C.S. Piano Terra. Ma è evidente che nonostante la cautela e le premesse prudenziali di non voler far rinascere alcunché, del non voler cadere nelle maglie del nostalgico ritorno al passato, i rischi di inneschi di questo tipo c’erano tutti. Avrei molto volentieri evitato questo intervento ma non credo ci sia altro modo per contrastare quella confusione generata da un’iniziativa che si vorrebbe in continuità con tutto quello che è stata finora la storia di UAU e al contempo ne prende le distanze con la rivendicazione di una diversa via autonoma all’interno del vecchio collettivo.

È vero che quando si costituì il collettivo ci furono due linee contrastanti, una che voleva svolgere all’interno del mondo fantascientifico, sia nell’ambito ristretto del fandom che in quello più generale dei lettori anche occasionali del genere, sulla scia della pretesa egemonia culturale della sinistra che anche in questi ambiti particolari poteva e doveva rendersi tale (portata avanti soprattutto da Bulgarelli) e quella del sottoscritto che con l’editoriale del n. 1 annunciava la “distruzione della fantascienza”. Una line di politica culturale classicamente di sinistra contro una più settantasettina, tanto ingenuamente quanto genuinamente ribelle. Entrambe convergono però in quell’idea di far entrare la politica nella fantascienza coll’idea che si potesse separarne la parte buona (di sinistra) da quella cattiva (di destra). L’elenco degli scrittori pro e contro la guerra in Vietnam certificava proprio questo intento. In un qualche modo era difficile per tutti noi liberarci dai condizionamenti di un genere che aveva condotto le generazioni pre e post Seconda Guerra Mondiale attraverso il più rivoluzionario cambiamento epocale, quello tecnoscientifico, che l’umanità abbia mai fatto. Quell'inizio di distanziazione dal genere e di una larvale presa di coscienza di avere a che fare con qualcosa che oggi sappiamo essere stato un efficace dispositivo di assoggettamento è avvenuto solo con l’apporto di Caronia. Nessuna delle due linee preesistenti viene sconfitta, perdono semplicemente di significato perché prive di validi argomenti. Al di là dello slogan settantasettino non c’era poi molto d’altro e sulla vantata egemonia della sinistra e sulla sua liceità, lasciamo perdere!

Con molta franchezza va detto che il collettivo che trovava Caronia al suo ingresso non poteva vantare né un’esperienza di pratica politica né di preparazione culturale pari alla sua, sempre che si voglia essere sinceri! Il livello degli articoli, al di là delle buone intenzioni, più che lodevoli, certo, non poteva dirsi particolarmente elevato. Del resto era un po’ per tutti un’utile palestra. Ma, ancora di più, le idee erano abbastanza confuse e il livello di conflittualità non poteva, oltre agli scazzi, dare alcun contributo arricchente. Prova ne era, oltre a quell’ingenua suddivisione tra fantascienza di destra e di sinistra, soprattutto l’incapacità di uscire da quello schema asfittico di demarcazione del territorio tra ciò che è o non è fantascienza. Come dimostra l’incapacità di collocare nel n. 2 dedicato ai bambini nella SF l’articolo “Perché non voglio avere un bambino” altrimenti che non in fondo, fuori dal monografico. Occasione sprecata per situare un discorso astratto, che si distingueva da tanti altri solo per un linguaggio di sinistra stereotipato, in una situazione di vita concreta, vissuta.

Se analizzassimo la rivista nella sua evoluzione, così come nelle numerose attività parallele al collettivo, si potrebbe dimostrare facilmente che la “svolta” di Antonio non è stata un’altra strada ma l’unica strada per un’esperienza che volesse stare dentro quel Movimento che stava tentando l’ultima, drammatica e gioiosa al tempo stesso, scalata al cielo. Ipotizzare due identità autonome all’interno di UAU, una che fa un percorso dalla “politica alla fantascienza” e l’altra “dalla fantascienza alla politica”, (anche volendo dare per scontato  che questi due percorsi così descritti abbiano un senso logico) e che “per alcuni anni furono superbamente intricate” vuol dire sclerotizzare una storia che ha avuto una pluralità di identità per quante sono state le decine e decine di persone che l’hanno attraversata e fatta vivere. Le due anime conflittuali dell’inizio, abbastanza confuse da non potersi delineare come precise identità autonome con l’arrivo di Antonio perdono la loro superficiale e sterile dicotomia sciogliendosi in una pluralità di identità e posizioni variegate. In “Distruggere l’utopia”, nel libro collettivo in memoria di Antonio Caronia, Mondi altri, Mimesis 2016) ho descritto quello che penso sia stato il significato del lavoro di Antonio all’interno di UAU e credo che questo possa delineare  il senso di tutta quella vecchia esperienza e e la sua possibile risignificazione oggi: “L’incontro di Antonio Caronia con un gruppo, con un ‘noi’ che non rinnega una precisa affiliazione politica ma che rifiuta una qualsivoglia progettualità a cui dover aderire collettivamente gli permette di portar avanti una propria ricerca personale, un proprio progetto di lavoro capace di avvalersi degli stimoli e dei confronti con quello degli altri senza dover imporre necessariamente il proprio. Trent’anni dopo la fine di questa esperienza, in una video-intervista parlando del suo punto di vista sull’arte nel movimento, prospetta una modalità del lavorare insieme in cui il criterio generale ‘sarebbe quello di un posto, di un collettivo, di un luogo in cui l’attenzione sia contemporaneamente o in tempi molto vicini, in modi molto vicini, al modo in cui sorgono le idee, al modo in cui sorgono i progetti, al modo in cui si pensa l’innovazione espressiva e contemporaneamente la si pratica, la si mette in opera” insomma, quasi un’ambigua utopia riadattata per il nuovo millennio.’ L’apporto di Antonio ha reso più concreta quel tipo di “utopia” che Primo Moroni ha esplicitato come la capacità di “diffondere saperi senza fondare poteri”. Alcuni di quei “noi” ne avranno saputo trarre vantaggio, altri evidentemente no.

(1): Il contributo in oggetto QUI mio e di Alberto Di Monte è stato dato al n. 11 della neonata rivista prima di aver potuto leggere l'editoriale. 

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