mercoledì 20 gennaio 2016

Nuvole marziane di Antonio Caronia: Come eravamo nel 1878


Il testo di queste "nuvole" è ricavato dalla risposta di Antonio Caronia alla lettera di Mauro Antonio Miglieruolo, pubblicate sul numero 4 del novembre/dicembre 1878 (da leggersi 1978) della rivista Un'Ambigua Utopia.



Testi integrali di Mauro Antonio Miglieruolo e Antonio Caronia

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sabato 9 gennaio 2016

Paolo Gallerani: intervento al convegno Logic Lane


Paolo Gallerani

LOGIC LANE - ANTONIO CARONIA GIORNATE DI STUDIO
5/6 giugno 2015 - Accademia di Belle Arti di Brera Milano


Con Antonio Caronia siamo stati colleghi all’Istituto sperimentale onnicomprensivo di Bollate, dove arrivò, mi pare nel 1977/78, fino all‘82 quando nel maggio Antonio realizzò la “Rassegna di teorie e pratiche della simulazione” Il Gatto del Cheshire («Un’Ambigua Utopia», Numero speciale sulla simulazione, n. 9,
Milano 1982), cui partecipai nella sezione delle arti visive organizzata da Alik Cavaliere e Vincenzo Ferrari che anche voglio ricordare oggi in quest’aula.

Il titolo di questo intervento Arte e politica. La condizione della violenza è il tema di un seminario che ho curato alla scuola di Scultura dal 2002 per quattro anni, fino al 2005. Il seminario ha proseguito e sviluppato l’attività iniziata nelle sessioni 2000 e 2001 con il titolo Arte e politica, estetica, estetico. Semplificando, la prima motivazione era quella di portare nella scuola almeno dei frammenti di aree di lavoro complesse al di là dell’estetizzazione dominante diffusa nel prodotto culturale.
Il seminario in cui si sono innestati gli interventi di Antonio Caronia, aveva due caratteristiche: quella secondo cui lezioni - azioni - esposizioni, aperte al pubblico, venivano svolte, salvo eventi speciali, nell’ambiente di lavoro dell’aula di Scultura, cioè nell’aula laboratorio con gli studenti nel loro spazio, e la trasversalità generazionale dei relatori, oltre che delle aree tematiche, con interventi sia di studiosi degli specifici che di studenti e giovani artisti.
Nell’ambito del rapporto arte e politica, nel 2002 è stato individuato come tema di riflessione La condizione della violenza. Perché? L’arte ha sempre avuto a che fare con la violenza; arte, teatro, poesia ne sono intimamente connesse, nel modo diretto della rappresentazione e del canto, o nella permanenza dell’ente sullo sfondo.
Per l’individuazione della “condizione della violenza” sono stati proposti alcuni testi di riferimento iniziale:
. Jean-Paul Sartre, le due sezioni del 1947/48 in Quaderni per una morale raccolte nel volume L’universo della violenza, 1997 a cura di Fabrizio Scanzio; Sartre presenta la violenza come «un certo tipo di rapporto con l’altro» e come una possibilità costante della condizione umana le cui manifestazioni più comuni, quasi paradigmatiche sono tre: lo stupro, l’autodafé (“il giudizio di Dio”), la menzogna;
. Caronia indica il testo di Hannah Arendt, Sulla violenza, 1970;
. Albert Camus, L’uomo in rivolta, 1951, in particolare il capitolo Rivolta e arte;
. Roy Gutman, David Rieff, Crimini di guerra, 1999, una sorta di impressionante trattato enciclopedico delle più recenti infamie, subito dimenticate, obliate, dopo la copertura mediatica.
Oblio che corrisponde forse a una AMPUTAZIONE simbolica.

Antonio Caronia indica come tema per il seminario Tecnologia e violenza, titolo che cambierà al momento dell’intervento nel marzo 2002 [l’Undici settembre è appena accaduto], in Violenza e tecnologia. Trascrivo l’abstract dell’intervento:

«Ogni protesi tecnica, secondo l'insegnamento di McLuhan, amputa (simbolicamente) una parte del corpo o una funzione mentale. E' un trauma, a cui la cultura occidentale (e forse anche altre culture) reagiscono con un'operazione di anestesia sulla parte o sulla funzione amputata.
A questa anestesia l'arte ha da sempre collaborato (anche se con atteggiamenti ed esiti spesso opposti). Tuttavia oggi la tecnologia tende sempre più a presentarsi come "mondo" piuttosto che come "protesi".
Il problema della violenza inerente alla tecnologia, oggi, tende quindi a spostarsi da un livello epistemologico (o soggettivo) a un livello ontologico (o oggettivo)».

Sono molte le domande che si pongono. E le risposte mancano. Ma, come dice Eleonora Fiorani, sono importanti le domande che si pongono, non le risposte. cosa ce ne facciamo delle risposte? Domande che producono nuove domande, che aprono a altre possibilità.
Protesi tecnica è il computer? La memoria artificiale? L’intelligenza artificiale? La comunicazione di internet?
Allora l’amputazione diventa globale. E l’anestesia?
Come si anestetizza un’amputazione generalizzata?
E l’arte come collabora a questa anestesia, anche se con atteggiamenti ed esiti opposti?
Forse una possibile risposta si può trovare nel secondo intervento proposto da Antonio Caronia per la sezione 2004 del seminario.
Caronia presenta la “Performance Intermediale” Geometrie senza organi - Artaud/Ballard, realizzata con Stefano Caronia e attuata il 5 maggio nell’aula 10 del Teatro.
Scrive Caronia nell’abstract:

«Due autori del Novecento sono evocati in questa performance, due discorsi sul corpo, diversi ma straordinariamente attuali, vengono messi a confronto: l’incontro e lo scontro fra queste due istanze vorrebbero illuminare la nostra condizione di cyborg.
Il corpo senza organi di Antonin Artaud (1896-1948) narra e denuncia lo spezzarsi del corpo, e il suo possibile ricomporsi al di fuori della dittatura linguistica imposta all’esperienza dall’ordine sociale. In James G. Ballard (1930) e nel suo Crash (1973), c’è invece il superamento della usuale funzionalità del corpo, la cui organicità deve essere superata in vista di nuove geometrie espressive, di nuovi possibili significati forniti dalla fusione orgasmica e distruttiva con la macchina. Ma entrambi gli autori hanno annunciato, con acutezza e in anticipo sui tempi, una mutazione dei corpi e dei sé che solo oggi, con l’avvento delle tecnologie informatiche e della globalizzazione, si dispiega pienamente divenendo esperienza quotidiana».[1]


C’è una dimensione apocalittica evocata in questo convegno in altri interventi a cui ho avuto la possibilità di assistere con grande interesse e partecipazione.
Mi riferisco tra gli altri, agli “scenari apocalittici” indicati da Patrizia Moschella sui processi di controllo capillare sui sistemi universitari:
- processi di automazione a orientamento ispettivo, attraverso le nuove tecnologie;
- acquisizione di competenze certificate;
- pacchetti di competenze distribuiti non dai docenti ma dai revisori;
- conseguente innesto di processi di auto espulsione (per chi nella gabbia non ci sta).
Franco Berardi ha parlato di epoca che viene - o in cui siamo - come epoca di miseria, violenza, fascismo, depressione.
Ma io sono anche convinto, e non da oggi, che qualunque regime lasci delle zone scure in cui è possibile agire. Perché il regime è sciocco, non è intelligente, LASCIA SPAZI.
Zone scure che sono PIEGHE in cui è possibile lavorare, anche all’interno del regime.
Progettare UTOPIE - projectil - proiettile.

Ma La piega, Le pli, rimanda a Deleuze.
Vorrei parlare dell’ultimo intervento di Caronia nel seminario che ho curato nel 2008. Il titolo del seminario questa volta è Scultura e altri specifici. Rapporti di connessione o di riduzione tra gli specifici della scultura e delle altre aree disciplinari nel contemporaneo.
Formare pieghe è ciò che appartiene alla scultura. Quante pieghe ha realizzato la scultura? Le pieghe delle vesti; la piega di un gomito, di un ginocchio; le infinite pieghe delle strutture arboree; le pieghe delle foglie gotiche e barocche.
È a partire da queste considerazioni che mi sono sentito di chiedere a Caronia di illustrare nella scuola, come fece da par suo, questa complessità, con i necessari rimandi al pensiero scientifico e allo straordinario testo di Deleuse; complice una richiesta di tesi di uno studente, Ilaria Beretta, che riguardava il desiderio di avvicinamento alla “teoria delle catastrofi” di René Thom.
Antonio Caronia rispose con la lezione Catastrofi e Pieghe, dell’aprile 2008.
Scrive nell’abstract:

«La “teoria delle catastrofi”, formulata dal matematico francese René Thom negli anni Sessanta del Novecento, ha goduto di una certa attenzione in Europa e nel mondo, anche al di fuori dell’ambiente matematico, nel corso dei quindici anni successivi. Oggi essa sembra nuovamente dimenticata a favore di teorie più spendibili sul piano applicativo (pensiamo al cinema) come le geometrie frattali. Eppure la teoria di Thom, che si offriva come un modello per la descrizione e la spiegazione dei processi di generazione delle forme (morfogenesi) è forse l’ultima grande teoria matematica “classica” (cioè prima dell’avvento dei calcolatori) e la prima di una serie di nuove teorie destinate a guidarci sul terreno della cosiddetta “complessità”. Una teoria di confine, quindi, che vale la pena di riprendere anche in virtù del nuovo sguardo che può aiutarci a gettare sull’arte storica e sulle nuove sperimentazioni multimediali».




[1] Si veda Antonio e Stefano Caronia, scheda di presentazione della Performance Intermediale Geometrie senza organi - Artaud/Ballard, Associazione Reload, Milano 2001, «Con Crash, James G. Ballard ha fatto di più che percorrere una delle perversioni sessuali dell’era tecnologica. Ha mostrato come l’autonomizzarsi della tecnologia e del capitale, il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo, renda inutilizzabili non solo i tradizionali percorsi linguistici, ma anche la più profonda attività comunicativa ed espressiva del corpo. [...]
L’universo di Crash comporta un superamento della usuale funzionalità del corpo, la cui organicità deve essere superate in vista di nuove geometrie espressive, di nuovi possibili significati forniti dalla fusione orgasmica e distruttiva con la macchina. Ballard ritrova così, partendo da esigenze diverse e con modalità diverse, uno dei concetti cardine del secondo Novecento: quello del corpo senza organi di Antonin Artaud. Lo spezzarsi del corpo, il suo ricomporsi al di fuori della dittatura linguistica imposta all’esperienza dall’ordine sociale, torna più volte nell’opera di Artaud: in ultimo, nella trasmissione del 1947 censurata dalla radio francese Pour en finir avec le jugement de dieu (Per farla finita con il giudizio di dio), in cui scoppia letteralmente la visione e la rivendicazione del nuovo corpo [...]
“Il corpo senza organi, l’improduttivo, l’inconsumabile, serve da superficie per la registrazione di tutto il processo di produzione del desiderio.” (Deleuze e Guattari). Nel corpo straziato dagli incidenti automobilistici che domina in Crash, Ballard inscrive una nuova versione, più sommessa e disincantata, ma ugualmente radicale, dell’obiettivo che innervò tutta la vita di Artaud: “spezzare il linguaggio per raggiungere la vita.”
Fino a ieri non era forse possibile vedere una connessione fra due autori così diversi. Se ciò è possibile adesso, è perché entrambi hanno annunciato, con grande acutezza e largo anticipo sui tempi, una mutazione dei corpi e dei sé che solo oggi, con l’avvento delle tecnologie informatiche e l’instaurarsi del quadro sociale e immaginario che va sotto il nome di postfordismo, si dispiega pienamente, diviene esperienza quotidiana, nuovo senso comune».


sabato 12 dicembre 2015

Eleonora Fiorani: intervento al convegno Logic Lane


La “sfida allo sguardo” del corpo artificiale

Eleonora Fiorani


E’ alle dinamiche di costituzione del soggetto che Caronia ha rivolto la sua attenzione nel suo intervento in Girare su se stessi. Emancipazione, libertà, liberazione, in E manu capere. Come Foucault Caronia abbandona l’approccio tradizionale al problema del potere basato su modelli politico-istituzionali  per volgersi al modo in cui il potere penetra nel corpo vivo dei soggetti e delle loro forme di vita. Disciplinando i corpi, includendo la nuda vita nei meccanismi e nei calcoli del potere statuale, la politica si trasforma in biopolitica, ben più capillare e insidiosa del precedente potere che “uccide e lascia vivere”.
E’ questo soggetto desoggettivizato a me pare il tema sempre sotteso delle teorizzazioni di Caronia del cyborg che vorrei a sua volta definire un corpo desoggettivizzato perché è proprio la figura del cyborg che mostra come “sono le strutture, il sistema stesso del linguaggio - e non il soggetto - che parlano” per cui si rende inevitabile l’incontro con il corpo, che è esteriorità visibile ed esemplare su cui non solo il potere si istoria, con le sue pratiche e le sue discipline, ma è un corpo inteso come la superficie di iscrizione delle tecnologie e un luogo attraversato dal desiderio.
Nell’aggiornamento che Caronia fa del testo del 1985 nel 2001 in relazione con il postmoderno sono infatti protagoniste le tecnologie del linguaggio. Il linguaggio non media solo il nostro rapporto con il mondo e con gli altri, è costitutivo del nostro stesso Io, della coscienza e della corporeità.
Se per Merleau-Ponty è il corpo che parla, per Caronia sono i saperi, le tecnologie e le configurazioni linguistiche che lo parlano. Rifacendosi a Dick, Cronenberg, Ballard ma anche a Lacan e allo strutturalismo, a Nietzsche e a Foucault, Caronia con la figura del cyborg presenta il corpo come un luogo in cui si iscrive l’immaginazione che è un dispositivo non solo riproduttivo, ma produttivo, che ricombina, integra, progetta, configura, e interattivo che incide sull’ambiente. L’era immateriale configurata dalle nuove tecnologie infatti non significa affatto la fine del corpo, ma un suo mutamento. L’immaginario penetra e si iscrive nel nostro sistema nervoso come diceva Ballard.
E’ su questo terreno che si iscrive il corpo mutante e disseminato del cyborg  e il fatto che mai come oggi si è parlato tanto della corporeità. E’ il corpo visto come macchina al lavoro che tende al simbolico mondo delle protesi, e agli strumenti che dilatano le capacità motorie e manuali e quelle intellettuali. Scompaiono i confini tra corpo e tecnologia, tra mente e macchina. Il nostro corpo è sempre più un corpo tecnologico per cui si ridefinisce la percezione umana, che non si può scindere in compartimenti stagni, e ciò investe il corpo nella sua totalità.
E se da sempre, addomestichiamo e “indossiamo” il nostro corpo, costruendo su di esso un altro corpo, facendone la conferma ai processi sociali e rendendolo insieme individuale, più proprio a chi lo “indossa”. E se fin dalle origini, per quanto possiamo parzialmente ricostruire, il corpo è stato ampliato da protesi e apparati “artificiali” che ne modificano le possibilità di interazione e di presa e di costruzione di se stesso e del mondo, il corpo protesico e macchinino messo in atto dalle nuove tecnologie, muta la stessa “materia prima” biologica dell’uomo (Caronia, 1996). Le nuove tecnologie contribuiscono a disseminare a dismisura, con l’interposizione di interfacce tra l’io e i suoi organi periferici, il corpo invisibile e più esteso dei sensi. La realtà virtuale lo dissemina nelle reti e negli spazi virtuali. Per questo non è facile dire dove termini il corpo, che già i nostri sensi estendono oltre la pelle, che ha occhi come dice la Ackerman (1991), è la linea di confine, o “la prima interfaccia” del nostro corpo, il luogo degli scambi e del contatto.
La realtà virtuale si può vedere, toccare, sentire, ci conduce in un ambiente tattile, aggiungendo la mano alla mente. Il casco e la manopola agiscono come sorta di pelle artificiale e riescono anche a costituire un efficace meccanismo per interagire nello spazio virtuale. Possiamo realizzare i nostri sogni, viverli da dentro, toccarli. E già si è fatto corpo l’antico sogno del doppio. Il mondo stesso è ora un’illusione del mondo creato dalle nostre protesi.
Ciò rimette in causa il luogo di formazione delle immagini mentali e determina una crisi senza precedenti della rappresentazione. E insieme si dà uno ampliamento ed estensione dei nostri sensi, come se avessimo il “cervello fuori dal cranio”, e i “nervi fuori della pelle”, come dice A. Caronia (1993), con effetti tali da richiedere un oltrepassamento del linguaggio o un nuovo ambiente perché “quando si è in grado di creare ogni tipo di realtà non c’è più bisogno di descrivere il mondo” (Lanier). “In Ballard – scrive Caronia in Archeologie del virtuale (2001: 99) “l’interno e l’esterno, il corpo e il mondo diventano l’uno in funzione dell’altro, anzi si compenetrano, diventano un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una scrittura crudele e impietosa la fine della modernità”.
L’emersione della realtà virtuale, aprendo nuove possibilità di ricerca e di progettazione, ci ha reso consapevoli che la visione del nostro corpo non è data una volta per sempre: il corpo è storia, e la sua storia è quella della sua progressiva artificializzazione, fino all’ibridazione. E l’ibrido definisce una nuova morfologia, qualcosa che non ha ancora identità e non ripete forme o realtà già esistenti. Rompe gli schemi e non rientra nelle tassonomie.
L’uomo non è più confinato nella sua pelle. <<La percezione cibernetica implica tecnologie transpersonali, quelle della comunicazione, della condivisione, dello scambio, della collaborazione, la tecnologia che ci rende capaci di trasformare il nostro essere, di trasferire i nostri pensieri e di trascendere i limiti del nostro corpo.>>, scrive De Kerckhove (2000/2001).
Il corpo virtuale implica una nozione di identità che si costruisce e si modifica in connessione con altri nei processi comunicativi virtuali. Il “corpo flusso” del cyborg è un corpo senza confini, senza identità fisse, che si confonde con l’esterno, un corpo che si modifica all’infinito. Il trattamento digitale delle immagini (morphing) ci avvia a corpi fluidi e malleabili. Negli immaginari indotti dalle nuove tecnologie si delineano i nuovi territori, in cui le ibridazioni degli uomini con le macchine prospettano nuovi vissuti estetici e nuove modalità di conoscenza e di fruizione. L’accettazione di una logica di metamorfosi e di flusso implica non solo che sia l’uomo a modificare il suo corpo, ma che il corpo stesso possa scegliere la metamorfosi continua.
Attraverso l’innovazione tecnologica (ingegneria genetica, biotecnologie, robotica), il corpo funge da soggetto tecnico e diviene oggetto da riprogettare: è un corpo-oggetto-macchina, sempre più determinato dalle protesi motorie, sensorio-percettive e intellettive. O, come lo pensa Sterlac, è un “corpo cavo”, aperto ai nuovi organi artificiali.
Il corpo virtuale non ha né carne né sangue ma è il tramite tra i corpi di carne e di sangue. Inoltre il corpo virtuale riannoda i fili del perduto “corpo dionisiaco”, evocato dalle Avanguardie di primo Novecento e il contemporaneo “corpo glorioso”, che proietta su di sé segni d’arte: un corpo aperto che si offre al mondo sia con la liberazione totale del corpo sia con il suo ingresso in un involucro e perfino con la sua metafisica distruzione a vantaggio del macchinino e della marionetta, che non sono il meccanico o il macchinale, ma caso mai macchine desideranti e macchine celibi. Per significare un corpo nuovo.
Il corpo non è solo il “luogo” privilegiato della strategia repressiva, che normalizza il desiderio e lo riconduce alle istanze della Legge. E’ anche il luogo in cui recuperare il corpo e far valere i piaceri e i saperi nella loro molteplicità, in un movimento aperto di differenziazioni e di metamorfosi. Racchiude anche, istoriata nella sua carne, la potenza della vita e del desiderio. E’ questo che ha richiamato l’attenzione di Caronia per il cyber manifesto di Donna Haraway.
E il riferimento a Deleuze che parte dal corpo e permanendo in esso pone il rapporto con la molteplicità e la diversità, indagando già a partire dalla Logica del senso (1969), attraverso Nietzsche, il rapporto tra singolarità preindividuali e individuazione corporea. Perché per Deleuze corpo è superficie scivolosa, opaca, tesa, flusso amorfo e indifferenziato. E dato che non c’è fondamento, è senza fondo. E quindi pensa il corpo al singolare, senza organi, come dice Artaud, spogliato di ogni dimensione organica, che diviene il “luogo di trasmigrazione”, di registrazione di effetti, di visibilità, udibilità, dicibilità, individuazione, il luogo da cui affiorano i continenti e tutti i nomi., Percetti e affetti sono autonomi e autosufficienti, sono il divenire non umano dell’uomo.
Così ora che siamo di fronte a un mutamento epistemico radicale che rivaluta la conoscenza sensoriale per una nuova qualità della vita, il corpo si fa racconto attraverso la propria esperienza fisica e si apre un diverso approccio ai modi e ai campi del sensibile, per andare a interrogare le reti, i grappoli, i fasci sensoriali, la polisensorialità della significazione (J. Fontanille).
La mutazione e l’ampliamento delle sensorialità e del mondo esperienziale è stato il grande tema dell’immaginario cyborg e del posthuman. E porta oggi alla ricerca di sensazioni nuove, apre a nuove frontiere della sensibilità e a nuovi linguaggi.
Il corpo è infatti anche corpo sovversivo, dotato di una propria intenzionalità, luogo del desiderio, dove si fa visibile di quale società il corpo ha bisogno, e quale desidera, sogna: e lo fa   anche producendo sintomi ribelli e “caotici” che aprono continue brecce nei conflitti tra mente e corpo, natura e cultura, corpo individuale e sociale.

Merito di Caronia con la sua analisi del cyborg è anche l’aver assunto lo scacco analitico che si manifesta nell’eccedenza di discorsi e saperi che investono il corpo. Per questo il libri di Caronia terminano sempre con delle domande che aprono a nuovi percorsi, che sono quelli del mutamento di paradigma aperto dalle nuove tecnologie che connettono non solo persone, ma cose, prodotti e tutti gli oggetti generati dai dati, e dai nuove forme di vita degli oggetti tecnici e da quella che è stata chiamata la terza rivoluzione digitale dei nuovi artigiani digitali, dei marker e dei fablab.

sabato 5 dicembre 2015

Massimiliano Viel: intervento al convegno Logic Lane


Do Androids Sing in the Shower?
Massimiliano Viel
LOGIC LANE - ANTONIO CARONIA. Milano 5/6 06 2015

Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro ho subito pensato di indagare il possibile legame tra l’opera di Philip Dick, un autore spesso associato al nome di Antonio Caronia e che anch’io ho letto molto, e un tema che mi interessa particolarmente e cioè quello del rapporto tra musica e potere. Non a caso: la musica è sempre presente da qualche parte nelle opere di Dick, un po’ come lo sono i gatti, ed arriva persino a meritare l’apparizione nel titolo di un romanzo; si tratta di Scorrete Lacrime, Disse il Poliziotto, titolo che riecheggia quello di “Flow my tears”, forse la composizione più conosciuta di John Dowland, compositore rinascimentale inglese.
Quello del potere, poi, è un tema addirittura onnipresente e pervasivo nel lavoro di Dick. Lo troviamo a partire dal microcosmo della vita famigliare, tipicamente tra il protagonista e sua moglie o la sua amante, o negli equilibri di un gruppo di amici, come in Un Oscuro Scrutare o più in generale di un gruppo di persone, come ad esempio in Ubik o in Labirinto di Morte, fino a coinvolgere non solo l’intera società spesso ingabbiata in una distopia totalitaria, sia essa di stampo militarista, religioso o consumista, ma anche l’intera esistenza umana, o almeno quella del protagonista, perso tra mondi paralleli, governati da divinità personalzzabili, come Palmer Eldritch, o ingannato dal velo di illusione intessuto da forme biologiche parassite e aliene per noi inconcepibili, come la Zebra di VALIS.

Ciononostante, è estremamente difficile individuare nel lavoro di Dick una relazione esplicita tra musica e potere, così che forse l’unico esempio che possiamo trovare è nel finale di Radio Libera Albemuth, che è per così dire la “prova generale” di VALIS, trilogia che costituisce l’ultima opera di Dick. Nella conclusione di questo romanzo, la musica di una band pop è l’ultima opzione rimasta ai ribelli per riuscire a delegittimare il dittatore Fremont, attraverso la diffusione di messaggi subliminali. Dunque comunque alla fine non si tratta della musica in sé che ha il potere di indurre la sovversione, ma del testo che in essa può essere nascosto.

Eppure proprio la musica, con la sua complessa architettura di relazioni tra scale, note, accordi, figure e melodie che si ripetono e vengono variate, con le sue forme e i suoi organici vocali e strumentali, ma allo stesso tempo con l’ampiezza della sua diversità interculturale ben si presta a esemplificare il processo di costruzione di un’ideologia e il suo volersi porre come orizzonte di senso nel regime totalitario.
E forse è proprio per questo motivo che ci sembra eccessivo pensare alla musica come uno strumento di soggezione: in fondo la musica allieta, ci emoziona (come vuole la retorica di massa); e se non è così, non è musica: è rumore, non ci dice niente e guardiamo con sospetto chi sostiene che ciò che per noi è un insensata accozzaglia di rumori per altri è musica. Ma anche quando la riconosciamo come musica, la musica degli altri pur aliena ed esotica, spesso non possiamo evitare di considerarla l’espressione di un livello culturale inferiore rispetto al nostro, che è quello di  “esseri civili”. Oppure la facciamo discendere da un concettualismo che interpretiamo più come truffa, come mistificazione, che come genuina manifestazione musicale.

Oggi si litiga molto sulla musica. Anche se siamo lontani dalle risse che scoppiavano durante i concerti di musica contemporanea negli anni ’60, è facile offendere qualcuno dicendogli che non apprezziamo un dato brano musicale che magari viene adorato dal nostro interlocutore o peggio se gli smontiamo il brano e lo riportiamo a banali cliché. Ciò avviene tipicamente perché ci identifichiamo con la musica che ascoltiamo e se qualcuno rifiuta la nostra musica è un po’ come se rifiutasse noi stessi. Siamo in genere disposti a tollerare chi ha gusti alimentari diversi dai nostri, ma per qualche motivo con la musica questo ci riesce più difficile; come diceva un meme di qualche anno fa: “se ci devono mettere in prigione perché scarichiamo musica, che almeno ci dividano a seconda dei generi musicali”.
Dunque oggi sembra che l’ascolto musicale si stia spostando dal riconoscimento di strutture al riconoscimento di generi, operando una formazione identitaria, una distinzione sociale, non più attraverso il grado di sensibilità, ma attraverso l’orientamento di questa verso specifici target, che formano le coordinate sempre diverse di ciò che chiamiamo “musica”. Insomma, la musica oggi viene in qualche modo reificata: diventa parte di un arredo, viene indossata come un indumento, o un tatuaggio.

Formare le identità, magari identità ad hoc, è uno strumento fondamentale nella dominazione. L’identità non è semplicemente il modo con cui noi ci distinguiamo dagli altri, ma è soprattutto la membrana cognitiva con cui diamo un senso al mondo, è il nostro Umwelt personale. Così che noi non percepiamo la nostra identità in sé, ma piuttosto l’alterità di ciò che ci circonda contro la quale ci ergiamo in difesa, per così dire, della nostra integrità di senso. Non c’è quindi da stupirsi se la musica, con la sua liquidità inafferrabile e la sua pervasività inevitabile, possa divenire lo strumento ideale per formare i cittadini del regno, della Prigione di Ferro Nera, come la chiama Philip Dick, entro la quale siamo rinchiusi. E questo vale anche se la finalità diretta è semplicemente quella di diffondere il più possibile un’opera musicale per avere maggiori profitti, anzi, vi è una precisa connessione tra ripetizione e modulazione della coscienza. Ed è proprio questo il punto: è attraverso la ripetizione che si forma l’universo che incontriamo, come uno specchio sempre incrinato.

Insomma, è naturale quindi che mi sarebbe piaciuto leggere un romanzo di Philip Dick, in cui per una volta fosse proprio la musica a squarciare il velo dell’illusione costruito dal demiurgo parassita per dominarci e trasformarci in un docile e insensibilmente felice gregge.
Magari la storia sarebbe potuta iniziare a partire dal finale di Radio Libera Albemuth, quando il protagonista, che è lo stesso Philip Dick, dall’interno della prigione in cui è stato rinchiuso si rende conto che i messaggi subliminali non sono bastati a sconfiggere il dittatore e che anzi, sono gli stessi giovani, i destinatari di questi messaggi sovversivi, a consolidare il potere del tiranno.
In prigione però, lo scrittore si accorge del dilagare di uno strano culto i cui adepti si riuniscono segretamente per ascoltare in silenzio un singolo suono o a volte un accordo che continua per ore e ore, apparentemente senza minime variazioni. Ovviamente Philip Dick, grande appassionato di Wagner e di Linda Ronstadt, rifugge da questa setta, ma tra i detenuti incontra una giovane ragazza, che è stata incarcerata per aver spacciato vinili di musica degenerata. Questa introduce il protagonista a un mondo di culti e di pratiche di ascolto di cui non aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza: chi ha fatto voto di ascoltare per il resto della propria vita solo Gute Nacht di Schubert, il primo Lied del Winterreise, chi invece è devoto al rumore bianco, che per definizione contiene tutte le musiche del passato e del futuro e cerca di recuperarle scolpendo con l’ascolto il rumore bianco come un blocco di marmo, chi si riunisce per ascoltare le musiche portate dai singoli adepti, però tutte insieme contemporaneamente, e tanti altri culti ancora.
Il romanzo poi avrebbe potuto seguire il percorso esistenziale di Dick mentre si addentra in queste pratiche vietate dal regime, descrivendo come ogni nuovo esercizio dell’ascolto lo conduce a una diversa percezione del mondo intorno a sé, un po’ come un’esperienza psichedelica. E piano piano il mondo si trasforma. Il meccanismo di proiezione della realtà fittizia, il Vasto Sistema di Intelligenza Vivente Attiva o VALIS come lo chiama Dick, sembra vacillare perché non riesce a sostenere i continui cambiamenti cognitivi del protagonista: dove prima c’era una cella ora c’è una palude, dove c’era un secondino ora c’è una sorta di legionario romano da incubo, nel cielo ogni tanto si può scorgere un gigantesco sguardo malevolo e sogghignante, ma soprattutto al posto dei muri della prigione ora c’è lo spazio aperto. Che quello che si percepisce sia la vera realtà, il sostrato, non è certo. Quello che è invece certo è che il velo di Maya è stato squarciato. Ma solo per un momento.
Ora però la resistenza sa finalmente cosa deve fare per sconfiggere il tiranno. Non c’è bisogno di sottoporre gli ascoltatori a messaggi subliminali, tutto il contrario: occorre far ascoltare a tutti i suoni e le musiche del mondo. Bisogna occupare le televisioni, le radio, le sale da concerto e fare musica, suoni, rumori di tutti i tipi. Certo anche Wagner e Linda Ronstadt hanno il loro posto in questa babele sonora, ma il loro ruolo è cambiato: ora sono una voce tra un miliardo, tra mille miliardi. Sono una possibilità, un percorso sonoro unico. Ancora di più perché l’ascolto liberato delle persone può trovare in questi brani ogni volta suggestioni diverse.
E così alla fine, con il diffondersi di questa esplosione di diversità di ascolti e pratiche, tutti riescono finalmente a vedere il tiranno per quello che è, la Prigione di Metallo Nera viene distrutta e ora è possibile costruire una nuova società. Ma un nuovo tiranno si sta già preparando per salire al potere.


Ecco, un romanzo di Philip Dick sul rapporto tra potere e musica avrebbe forse potuto avere una trama come questa. Oppure chissà, forse, anzi molto probabilmente, il romanzo sarebbe stato completamente diverso.

sabato 28 novembre 2015

Jaromil Rojo: intervento al convegno Logic Lane


Il funerale di Antonio Caronia, di quel ragazzaccio coltissimo, infaticabile
attivista e generosissimo educatore e studente al contempo, che era Antonio
Caronia, e' stata una celebrazione straziante per me, come per molti giovani
presenti. C'era gente di tutte le eta', c'erano svariate generazioni a
rendergli omaggio. Ci ha accolti la musica dell'angosciante ed al contempo
leggera performance "Superman" di Lori Anderson, a sottolineare la tensione,
l'ansieta', l'urgenza di quell'uomo cosi' speciale: il discorso di Antonio
sempre teso ad una critica all'Occidente, alla nostra ragion d'essere, una
critica molto utile, su cui meditare, per chi si sente sempre e comunque
titolare del bene, della ragione e del diritto di sentirsi vincitore sulle
macerie.

Il vuoto lasciato dalla perdita di Antonio Caronia per la cultura hacker
Italiana e' grande. Anche piu' grande se si considera quanto manchera' alle
generazioni future, nativi digitali, Cyborg inconsapevoli, utenti di una
tecnologia che a sua volta li usera' nella loro inconsapevolezza. A noi giovani
cyborg Antonio sapeva trasmettere le gioie e i dolori della contaminazione e
della consapevolezza. Antonio non insegnava, ma coltivava consapevolezze e lo
faceva con il ritmo spasmodico di un adolescente erudito, pazzo d'amore, pazzo
per parlare, pazzo per vivere.


In un operetta Carmelo bene una volta impersono' un'intervista post-mortem allo
scultore Gaudi' che, alla domanda di come definisse il suo ruolo in vita,
rispose che lui si considerava un "giardiniere di pietre". Oggi penso che
Antonio fosse un giardiniere di coscienze come pietre, ma non di pietre
preziose sul mercato. Lui proprio come Gaudi' amava pietre la cui preziosita'
deriva dalle loro irregolarita', da inaspettate curve ed asprezze aggraziate,
piuttosto che dalla forma imposta di prismi perfetti e dal valore a loro dato
sul mercato.



Antonio non voleva morire. Questo mi rattrista oggi. Antonio era avido di vita,
del sapere sempre nuovo che era linfa per i suoi intrecci di senso, intuizioni
trasversali, evoluzioni sul filo d'acciaio ben teso di una tecnologia sempre
piu' levigata ed affilata che lui sapeva ben comprendere, seguire, riavvolgere,
identificando nella centralita' del corpo umano il terreno demilitarizzato tra
i confini aspri di capitale e biopolitica.


Nel mezzo di discorsi sempre attuali che hanno a che fare con la privacy, con
l'approccio od il rifiuto della tecnologia, in definitiva con l'accettazione o
meno della purezza, trovo gli scritti di Antonio incredibilmente,
sorprendentemente, eroticamente attuali, inviti a confrontarsi con l'empieta'
del reale, con l'amore per quella che e' e rimarra' sempre l'eredita dei
diseredati nelle modalita' di ibridazione tra presente e futuro, tra esseri
umani e macchine.

Antonio aveva una conoscenza enciclopedica, sterminata, dei suoi tanti libri
che pareva conoscere uno per uno, pagina per pagina. Era al contempo un
matematico ed un filosofo ed era in grado di citare e combinare pensieri colti
da ambiti estremamente diversi, con rigore intellettuale ineccepibile. Ed era
anche un artista lui stesso, di quelli che plasmano identita', esistenze,
relazioni. La prima volta che lo vidi di persona in questa vita, con quel suo
cappello nero a falda larga, la sua presenza mi scosse con una visione: era lui
quel famigerato Dottor Sax, l'essere ai confini dell'Interzona che saltava fra
i tetti e le ombre nei sogni di Jack Kerouac, che distorceva le visioni di
Cody, che ispirava gli angeli del Dharma. A seguito di tale frequentazione
fuori dall'accademia la mia impressione mi e' stata confermata piu' volte:
quell'uomo cavalcava i serpenti. Piu' tardi, negli ultimi anni, ho avuto la
fortuna sfacciata di poter studiare con lui ed ho compreso quanto non sia solo
una presenza spiazzante la sua, ma anche una sostanza, cioe' un'erudizione
sconfinata, disarmante, unita ad una pulsante passione per la letteratura ed a
una rigorosa pratica da militante politico che non ha mai abbandonato.

Antonio si e' sempre dato per gli altri, non risparmiava nulla. La vita di
Antonio e' un monito per tutti i sessantottini che si dilettano a ricordare i
tempi passati ed oggi son forti di posizioni di privilegio guadagnate nel
progressivo abbandono della militanza: Antonio non ha mai ceduto al privilegio.
Lo abbiamo visto impegnato sin negli ultimi giorni in occupazioni a piazza
affari con il megafono in mano, fino al punto di rischiare il suo contratto con
l'Accademia di Brera, una posizione che ci ricorda artisti come Beuys. Antonio
non ha mai abbandonato l'attivismo militante e nel continuare ad insegnare fino
agli ultimi goccioli di vita, negli ultimi giorni, ha dato prova di una
passione maniacale per i suoi studenti, per le nostre ricerche, percorsi, per
la nostra liberta' di sentire.

Non c'e' nessun'altro che possa sostituire Antonio Caronia in Italia oggi,
questo e' un nodo che si stringe alla gola di tanti, inesorabilmente, anno per
anno. Non ultima, nel ciclo di occupazioni che si perpetuano nelle accademie e
universita' e scuole di tutto il mondo, si riconosce il senso della passione di
Antonio per la descolarizzazione di Ilich, tema a lui caro: e' ora di camminare
da soli, anche se ci cedono le gambe, a costo di metterci sui cingoli o sui
trampoli. A costo di sbagliare, a costo di non essere piu' accettabili
nell'implosione borghese del reale, nella totalizzante presenza di una
modernita' che a cicli ricorrenti ci si rivela ipocrita e vuota di senso.

Oggi raccomando a chi non l'ha fatto, dobbiamo leggere e ascoltare quel che ci
ha lasciato Antonio Caronia, sforzarci di condividere e criticare il suo punto
di vista mai scontato, raramente allineato, sempre teso a superarsi, farci
prendere per mano lungo le sue strade non-strade, battute da pochi e senza
alcuna divisa agli angoli per rassicurarci che sia la via giusta o sbagliata,
pericolosa o sicura, bugie inutili.


"" (Cyborg) (gia' citato da Maurizio Guerri) Qui sta la sua forza (di Donna
Haraway): nella sua estraneita' al mito della trasparenza del linguaggio, nella
sua capacita' di tornare a parlare una lingua radicata nel corpo senza doverla
riferire a una presunta dimensione originaria, nel far agire insomma dentro al
linguaggio il residuo extralinguistico e corporeo che l'informatica del dominio
tenderebbe a cancellare.  ""