https://archive.org/details/MichelFoucault_PerUnaGenealogiaDelSoggetto (lezione 1^ - 40')
sabato 19 marzo 2016
sabato 20 febbraio 2016
mercoledì 20 gennaio 2016
Nuvole marziane di Antonio Caronia: Come eravamo nel 1878
Il testo di queste "nuvole" è ricavato dalla risposta di Antonio Caronia alla lettera di Mauro Antonio Miglieruolo, pubblicate sul numero 4 del novembre/dicembre 1878 (da leggersi 1978) della rivista Un'Ambigua Utopia.
Testi integrali di Mauro Antonio Miglieruolo e Antonio Caronia
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sabato 9 gennaio 2016
Paolo Gallerani: intervento al convegno Logic Lane
Paolo
Gallerani
LOGIC
LANE - ANTONIO CARONIA GIORNATE DI STUDIO
5/6
giugno 2015 - Accademia di Belle Arti di Brera Milano
Con
Antonio Caronia siamo stati colleghi all’Istituto sperimentale onnicomprensivo di
Bollate, dove arrivò, mi pare nel 1977/78, fino all‘82 quando nel maggio
Antonio realizzò la “Rassegna di teorie e pratiche della simulazione” Il Gatto del Cheshire («Un’Ambigua
Utopia», Numero speciale sulla
simulazione, n. 9,
Milano
1982), cui partecipai nella sezione delle arti visive organizzata da Alik
Cavaliere e Vincenzo Ferrari che anche voglio ricordare oggi in quest’aula.
Il
titolo di questo intervento Arte e
politica. La condizione della violenza è il tema di un seminario che ho
curato alla scuola di Scultura dal 2002 per quattro anni, fino al 2005. Il
seminario ha proseguito e sviluppato l’attività iniziata nelle sessioni 2000 e
2001 con il titolo Arte e politica,
estetica, estetico. Semplificando, la prima motivazione era quella di
portare nella scuola almeno dei frammenti di aree di lavoro complesse al di là
dell’estetizzazione dominante diffusa nel prodotto culturale.
Il
seminario in cui si sono innestati gli interventi di Antonio Caronia, aveva due
caratteristiche: quella secondo cui lezioni - azioni - esposizioni, aperte al
pubblico, venivano svolte, salvo eventi speciali, nell’ambiente di lavoro
dell’aula di Scultura, cioè nell’aula laboratorio con gli studenti nel loro
spazio, e la trasversalità generazionale dei relatori, oltre che delle aree
tematiche, con interventi sia di studiosi degli specifici che di studenti e
giovani artisti.
Nell’ambito
del rapporto arte e politica, nel 2002 è stato individuato come tema di
riflessione La condizione della violenza. Perché? L’arte ha sempre avuto
a che fare con la violenza; arte, teatro, poesia ne sono intimamente connesse,
nel modo diretto della rappresentazione e del canto, o nella permanenza
dell’ente sullo sfondo.
Per
l’individuazione della “condizione della violenza” sono stati proposti alcuni
testi di riferimento iniziale:
.
Jean-Paul Sartre, le due sezioni del 1947/48 in Quaderni per una morale raccolte nel volume L’universo della violenza, 1997 a cura di Fabrizio Scanzio; Sartre
presenta la violenza come «un certo tipo di rapporto con l’altro» e come una
possibilità costante della condizione umana le cui manifestazioni più comuni,
quasi paradigmatiche sono tre: lo stupro, l’autodafé (“il giudizio di Dio”), la
menzogna;
.
Caronia indica il testo di Hannah Arendt, Sulla
violenza, 1970;
.
Albert Camus, L’uomo in rivolta,
1951, in particolare il capitolo Rivolta
e arte;
.
Roy Gutman, David Rieff, Crimini di
guerra, 1999, una sorta di impressionante trattato enciclopedico delle più
recenti infamie, subito dimenticate, obliate, dopo la copertura mediatica.
Oblio
che corrisponde forse a una AMPUTAZIONE simbolica.
Antonio
Caronia indica come tema per il seminario Tecnologia
e violenza, titolo che cambierà al momento dell’intervento nel marzo 2002
[l’Undici settembre è appena accaduto], in Violenza
e tecnologia. Trascrivo l’abstract dell’intervento:
«Ogni protesi tecnica, secondo l'insegnamento di McLuhan, amputa
(simbolicamente) una parte del corpo o una funzione mentale. E' un trauma, a
cui la cultura occidentale (e forse anche altre culture) reagiscono con
un'operazione di anestesia sulla parte o sulla funzione amputata.
A questa anestesia l'arte ha da sempre collaborato (anche se con
atteggiamenti ed esiti spesso opposti). Tuttavia oggi la tecnologia tende
sempre più a presentarsi come "mondo" piuttosto che come
"protesi".
Il problema della violenza inerente alla tecnologia, oggi, tende quindi
a spostarsi da un livello epistemologico (o soggettivo) a un livello ontologico
(o oggettivo)».
Sono
molte le domande che si pongono. E le risposte mancano. Ma, come dice Eleonora
Fiorani, sono importanti le domande che si pongono, non le risposte. cosa ce ne
facciamo delle risposte? Domande che producono nuove domande, che aprono a
altre possibilità.
Protesi
tecnica è il computer? La memoria artificiale? L’intelligenza artificiale? La
comunicazione di internet?
Allora
l’amputazione diventa globale. E l’anestesia?
Come
si anestetizza un’amputazione generalizzata?
E
l’arte come collabora a questa anestesia, anche se con atteggiamenti ed esiti
opposti?
Forse
una possibile risposta si può trovare nel secondo intervento proposto da
Antonio Caronia per la sezione 2004 del seminario.
Caronia
presenta la “Performance Intermediale” Geometrie
senza organi - Artaud/Ballard, realizzata con Stefano Caronia e attuata il 5
maggio nell’aula 10 del Teatro.
Scrive
Caronia nell’abstract:
«Due autori del Novecento
sono evocati in questa performance, due discorsi sul corpo, diversi ma
straordinariamente attuali, vengono messi a confronto: l’incontro e lo scontro
fra queste due istanze vorrebbero illuminare la nostra condizione di cyborg.
Il corpo senza organi
di Antonin Artaud (1896-1948) narra e denuncia lo spezzarsi del corpo, e il suo
possibile ricomporsi al di fuori della dittatura linguistica imposta
all’esperienza dall’ordine sociale. In James G. Ballard (1930) e nel suo Crash
(1973), c’è invece il superamento della usuale funzionalità del corpo, la cui organicità
deve essere superata in vista di nuove geometrie espressive, di nuovi possibili
significati forniti dalla fusione orgasmica e distruttiva con la macchina. Ma
entrambi gli autori hanno annunciato, con acutezza e in anticipo sui tempi, una
mutazione dei corpi e dei sé che solo oggi, con l’avvento delle tecnologie
informatiche e della globalizzazione, si dispiega pienamente divenendo
esperienza quotidiana».[1]
C’è una dimensione
apocalittica evocata in questo convegno in altri interventi a cui ho avuto la
possibilità di assistere con grande interesse e partecipazione.
Mi riferisco tra
gli altri, agli “scenari apocalittici” indicati da Patrizia Moschella sui
processi di controllo capillare sui sistemi universitari:
- processi di
automazione a orientamento ispettivo, attraverso le nuove tecnologie;
- acquisizione di
competenze certificate;
- pacchetti di
competenze distribuiti non dai docenti ma dai revisori;
- conseguente
innesto di processi di auto espulsione (per chi nella gabbia non ci sta).
Franco Berardi ha
parlato di epoca che viene - o in cui siamo - come epoca di miseria, violenza,
fascismo, depressione.
Ma io sono anche
convinto, e non da oggi, che qualunque regime lasci delle zone scure in cui è
possibile agire. Perché il regime è sciocco, non è intelligente, LASCIA SPAZI.
Zone scure che sono
PIEGHE in cui è possibile lavorare, anche all’interno del regime.
Progettare UTOPIE -
projectil - proiettile.
Ma La piega, Le pli, rimanda a Deleuze.
Vorrei parlare
dell’ultimo intervento di Caronia nel seminario che ho curato nel 2008. Il
titolo del seminario questa volta è Scultura
e altri specifici. Rapporti di connessione o di riduzione tra gli specifici
della scultura e delle altre aree disciplinari nel contemporaneo.
Formare pieghe è
ciò che appartiene alla scultura. Quante pieghe ha realizzato la scultura? Le
pieghe delle vesti; la piega di un gomito, di un ginocchio; le infinite pieghe
delle strutture arboree; le pieghe delle foglie gotiche e barocche.
È a partire da
queste considerazioni che mi sono sentito di chiedere a Caronia di illustrare
nella scuola, come fece da par suo, questa complessità, con i necessari rimandi
al pensiero scientifico e allo straordinario testo di Deleuse; complice una
richiesta di tesi di uno studente, Ilaria Beretta, che riguardava il desiderio
di avvicinamento alla “teoria delle catastrofi” di René Thom.
Antonio Caronia
rispose con la lezione Catastrofi e
Pieghe, dell’aprile 2008.
Scrive
nell’abstract:
«La “teoria delle catastrofi”, formulata dal matematico francese René
Thom negli anni Sessanta del Novecento, ha goduto di una certa attenzione in
Europa e nel mondo, anche al di fuori dell’ambiente matematico, nel corso dei
quindici anni successivi. Oggi essa sembra nuovamente dimenticata a favore di
teorie più spendibili sul piano applicativo (pensiamo al cinema) come le
geometrie frattali. Eppure la teoria di Thom, che si offriva come un modello
per la descrizione e la spiegazione dei processi di generazione delle forme
(morfogenesi) è forse l’ultima grande teoria matematica “classica” (cioè prima
dell’avvento dei calcolatori) e la prima di una serie di nuove teorie destinate
a guidarci sul terreno della cosiddetta “complessità”. Una teoria di confine,
quindi, che vale la pena di riprendere anche in virtù del nuovo sguardo che può
aiutarci a gettare sull’arte storica e sulle nuove sperimentazioni multimediali».
[1]
Si veda Antonio e Stefano Caronia, scheda di presentazione della
Performance Intermediale Geometrie senza
organi - Artaud/Ballard,
Associazione Reload, Milano 2001, «Con Crash, James G. Ballard ha fatto
di più che percorrere una delle perversioni sessuali dell’era tecnologica. Ha
mostrato come l’autonomizzarsi della tecnologia e del capitale, il dominio del
lavoro morto sul lavoro vivo, renda inutilizzabili non solo i tradizionali
percorsi linguistici, ma anche la più profonda attività comunicativa ed
espressiva del corpo. [...]
L’universo
di Crash comporta un superamento della usuale funzionalità del corpo, la
cui organicità deve essere superate in vista di nuove geometrie
espressive, di nuovi possibili significati forniti dalla fusione orgasmica e
distruttiva con la macchina. Ballard ritrova così, partendo da esigenze diverse
e con modalità diverse, uno dei concetti cardine del secondo Novecento: quello
del corpo senza organi di Antonin Artaud. Lo spezzarsi del corpo, il suo
ricomporsi al di fuori della dittatura linguistica imposta all’esperienza
dall’ordine sociale, torna più volte nell’opera di Artaud: in ultimo, nella
trasmissione del 1947 censurata dalla radio francese Pour en finir avec le
jugement de dieu (Per farla finita con il giudizio di dio), in cui
scoppia letteralmente la visione e la rivendicazione del nuovo corpo [...]
“Il
corpo senza organi, l’improduttivo, l’inconsumabile, serve da superficie per la
registrazione di tutto il processo di produzione del desiderio.” (Deleuze e
Guattari). Nel corpo straziato dagli incidenti automobilistici che domina in Crash,
Ballard inscrive una nuova versione, più sommessa e disincantata, ma ugualmente
radicale, dell’obiettivo che innervò tutta la vita di Artaud: “spezzare il
linguaggio per raggiungere la vita.”
Fino
a ieri non era forse possibile vedere una connessione fra due autori così
diversi. Se ciò è possibile adesso, è perché entrambi hanno annunciato, con
grande acutezza e largo anticipo sui tempi, una mutazione dei corpi e dei sé
che solo oggi, con l’avvento delle tecnologie informatiche e l’instaurarsi del
quadro sociale e immaginario che va sotto il nome di postfordismo, si dispiega
pienamente, diviene esperienza quotidiana, nuovo senso comune».
martedì 22 dicembre 2015
sabato 12 dicembre 2015
Eleonora Fiorani: intervento al convegno Logic Lane
La “sfida allo sguardo” del corpo
artificiale
Eleonora Fiorani
E’ alle dinamiche
di costituzione del soggetto che Caronia ha rivolto la sua attenzione nel suo
intervento in Girare su se stessi. Emancipazione, libertà, liberazione, in E
manu capere. Come Foucault Caronia abbandona l’approccio tradizionale al
problema del potere basato su modelli politico-istituzionali per volgersi al modo in cui il potere penetra
nel corpo vivo dei soggetti e delle loro forme di vita. Disciplinando i corpi,
includendo la nuda vita nei meccanismi e nei calcoli del potere statuale, la
politica si trasforma in biopolitica, ben più capillare e insidiosa del
precedente potere che “uccide e lascia vivere”.
E’ questo soggetto desoggettivizato a me pare
il tema sempre sotteso delle teorizzazioni di Caronia del cyborg che vorrei a
sua volta definire un corpo desoggettivizzato perché è proprio la figura del
cyborg che mostra come “sono le strutture, il sistema stesso del
linguaggio - e non il soggetto - che parlano” per cui si rende inevitabile
l’incontro con il corpo, che è esteriorità visibile ed esemplare su cui non
solo il potere si istoria, con le sue pratiche e le sue discipline, ma è un
corpo inteso come la superficie di iscrizione delle tecnologie e un luogo
attraversato dal desiderio.
Nell’aggiornamento
che Caronia fa del testo del 1985 nel 2001 in relazione con il postmoderno sono
infatti protagoniste le tecnologie del linguaggio. Il linguaggio non
media solo il nostro rapporto con il mondo e con gli altri, è costitutivo del
nostro stesso Io, della coscienza e della corporeità.
Se per
Merleau-Ponty è il corpo che parla, per Caronia sono i saperi, le tecnologie e
le configurazioni linguistiche che lo parlano. Rifacendosi a Dick, Cronenberg,
Ballard ma anche a Lacan e allo strutturalismo, a Nietzsche e a Foucault,
Caronia con la figura del cyborg presenta il corpo come un luogo in cui si iscrive l’immaginazione che
è un dispositivo non solo riproduttivo, ma produttivo, che ricombina, integra,
progetta, configura, e interattivo che incide sull’ambiente. L’era immateriale
configurata dalle nuove tecnologie infatti non significa affatto la fine del
corpo, ma un suo mutamento. L’immaginario penetra e si iscrive nel nostro
sistema nervoso come diceva Ballard.
E’ su questo
terreno che si iscrive il corpo mutante e disseminato del cyborg e il fatto che mai come oggi si è parlato
tanto della corporeità. E’ il corpo visto come macchina al lavoro che tende al
simbolico mondo delle protesi, e agli strumenti che dilatano le capacità motorie
e manuali e quelle intellettuali. Scompaiono i confini tra corpo e tecnologia,
tra mente e macchina. Il nostro corpo è sempre più un corpo tecnologico per cui
si ridefinisce la percezione umana, che non si può scindere in compartimenti
stagni, e ciò investe il corpo nella sua totalità.
E se da sempre, addomestichiamo e “indossiamo” il nostro corpo,
costruendo su di esso un altro corpo, facendone la conferma ai processi sociali
e rendendolo insieme individuale, più proprio a chi lo “indossa”. E se fin dalle
origini, per quanto possiamo parzialmente ricostruire, il corpo è stato
ampliato da protesi e apparati “artificiali” che ne modificano le possibilità
di interazione e di presa e di costruzione di se stesso e del mondo, il corpo
protesico e macchinino messo in atto dalle nuove tecnologie, muta la stessa
“materia prima” biologica dell’uomo (Caronia, 1996). Le nuove tecnologie
contribuiscono a disseminare a dismisura, con l’interposizione di interfacce
tra l’io e i suoi organi periferici, il corpo invisibile e più esteso dei
sensi. La realtà virtuale lo dissemina nelle reti e negli spazi virtuali. Per
questo non è facile dire dove termini il corpo, che già i nostri sensi
estendono oltre la pelle, che ha occhi come dice la Ackerman (1991), è la linea
di confine, o “la prima interfaccia” del nostro corpo, il luogo degli scambi e
del contatto.
La realtà virtuale si può vedere, toccare, sentire, ci conduce in un
ambiente tattile, aggiungendo la mano alla mente. Il casco e la manopola
agiscono come sorta di pelle artificiale e riescono anche a costituire un
efficace meccanismo per interagire nello spazio virtuale. Possiamo realizzare i
nostri sogni, viverli da dentro, toccarli. E già si è fatto corpo l’antico
sogno del doppio. Il mondo stesso è ora un’illusione del mondo creato dalle
nostre protesi.
Ciò rimette
in causa il luogo di formazione delle immagini mentali e determina una crisi
senza precedenti della rappresentazione. E insieme si dà uno ampliamento ed
estensione dei nostri sensi, come se avessimo il “cervello fuori dal cranio”, e
i “nervi fuori della pelle”, come dice A. Caronia (1993), con effetti tali da
richiedere un oltrepassamento del linguaggio o un nuovo ambiente perché “quando
si è in grado di creare ogni tipo di realtà non c’è più bisogno di descrivere
il mondo” (Lanier). “In Ballard – scrive Caronia in Archeologie del virtuale (2001: 99) “l’interno e l’esterno, il
corpo e il mondo diventano l’uno in funzione dell’altro, anzi si compenetrano,
diventano un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una
scrittura crudele e impietosa la fine della modernità”.
L’emersione
della realtà virtuale, aprendo nuove possibilità di ricerca e di progettazione,
ci ha reso consapevoli che la visione del nostro corpo non è data una volta per
sempre: il corpo è storia, e la sua storia è quella della sua progressiva
artificializzazione, fino all’ibridazione. E l’ibrido definisce una nuova
morfologia, qualcosa che non ha ancora identità e non ripete forme o realtà già
esistenti. Rompe gli schemi e non rientra nelle tassonomie.
L’uomo non è
più confinato nella sua pelle. <<La percezione cibernetica implica
tecnologie transpersonali, quelle della comunicazione, della condivisione,
dello scambio, della collaborazione, la tecnologia che ci rende capaci di trasformare
il nostro essere, di trasferire i nostri pensieri e di trascendere i limiti del
nostro corpo.>>, scrive De Kerckhove (2000/2001).
Il corpo
virtuale implica una nozione di identità che si costruisce e si modifica in
connessione con altri nei processi comunicativi virtuali. Il “corpo flusso” del
cyborg è un corpo senza confini, senza identità fisse, che si confonde con
l’esterno, un corpo che si modifica all’infinito. Il trattamento digitale delle
immagini (morphing) ci avvia a corpi fluidi e malleabili. Negli immaginari
indotti dalle nuove tecnologie si delineano i nuovi territori, in cui le
ibridazioni degli uomini con le macchine prospettano nuovi vissuti estetici e
nuove modalità di conoscenza e di fruizione. L’accettazione di una logica di metamorfosi
e di flusso implica non solo che sia l’uomo a modificare il suo corpo, ma che
il corpo stesso possa scegliere la metamorfosi continua.
Attraverso
l’innovazione tecnologica (ingegneria genetica, biotecnologie, robotica), il
corpo funge da soggetto tecnico e diviene oggetto da riprogettare: è un
corpo-oggetto-macchina, sempre più determinato dalle protesi motorie,
sensorio-percettive e intellettive. O, come lo pensa Sterlac, è un “corpo
cavo”, aperto ai nuovi organi artificiali.
Il corpo virtuale
non ha né carne né sangue ma è il tramite tra i corpi di carne e di sangue. Inoltre
il corpo virtuale riannoda i fili del perduto “corpo dionisiaco”, evocato dalle
Avanguardie di primo Novecento e il contemporaneo “corpo glorioso”, che
proietta su di sé segni d’arte: un corpo aperto che si offre al mondo sia con
la liberazione totale del corpo sia con il suo ingresso in un involucro e
perfino con la sua metafisica distruzione a vantaggio del macchinino e della
marionetta, che non sono il meccanico o il macchinale, ma caso mai macchine
desideranti e macchine celibi. Per significare un corpo nuovo.
Il corpo non
è solo il “luogo” privilegiato della strategia repressiva, che normalizza il
desiderio e lo riconduce alle istanze della Legge. E’ anche il luogo in cui recuperare
il corpo e far valere i piaceri e i saperi nella loro molteplicità, in un
movimento aperto di differenziazioni e di metamorfosi. Racchiude anche,
istoriata nella sua carne, la potenza della vita e del desiderio. E’ questo che
ha richiamato l’attenzione di Caronia per il cyber manifesto di Donna Haraway.
E il
riferimento a Deleuze che parte dal corpo e permanendo in esso pone il rapporto
con la molteplicità e la diversità, indagando già a partire dalla Logica del
senso (1969), attraverso Nietzsche, il rapporto tra singolarità preindividuali
e individuazione corporea. Perché per Deleuze corpo è superficie scivolosa,
opaca, tesa, flusso amorfo e indifferenziato. E dato che non c’è fondamento, è
senza fondo. E quindi pensa il corpo al singolare, senza organi, come dice
Artaud, spogliato di ogni dimensione organica, che diviene il “luogo di
trasmigrazione”, di registrazione di effetti, di visibilità, udibilità,
dicibilità, individuazione, il luogo da cui affiorano i continenti e tutti i
nomi., Percetti e affetti sono autonomi e autosufficienti, sono il divenire non
umano dell’uomo.
Così ora che siamo di fronte a un mutamento epistemico radicale che
rivaluta la conoscenza sensoriale per una nuova qualità della vita, il corpo si
fa racconto attraverso la propria esperienza fisica e si apre un diverso
approccio ai modi e ai campi del sensibile, per andare a interrogare le reti, i
grappoli, i fasci sensoriali, la polisensorialità della significazione (J.
Fontanille).
La mutazione e l’ampliamento delle sensorialità e del mondo
esperienziale è stato il grande tema dell’immaginario cyborg e del posthuman. E
porta oggi alla ricerca di sensazioni nuove, apre a nuove frontiere della
sensibilità e a nuovi linguaggi.
Il corpo è
infatti anche corpo sovversivo, dotato di una propria intenzionalità, luogo del
desiderio, dove si fa visibile di quale società il corpo ha bisogno, e quale
desidera, sogna: e lo fa anche
producendo sintomi ribelli e “caotici” che aprono continue brecce nei conflitti
tra mente e corpo, natura e cultura, corpo individuale e sociale.
Merito di
Caronia con la sua analisi del cyborg è anche l’aver assunto lo scacco
analitico che si manifesta nell’eccedenza di discorsi e saperi che investono il
corpo. Per questo il libri di Caronia terminano sempre con delle domande che
aprono a nuovi percorsi, che sono quelli del mutamento di paradigma aperto
dalle nuove tecnologie che connettono non solo persone, ma cose, prodotti e
tutti gli oggetti generati dai dati, e dai nuove forme di vita degli oggetti tecnici
e da quella che è stata chiamata la terza rivoluzione digitale dei nuovi
artigiani digitali, dei marker e dei fablab.
sabato 5 dicembre 2015
Massimiliano Viel: intervento al convegno Logic Lane
Do Androids Sing in the Shower?
Massimiliano
Viel
LOGIC
LANE - ANTONIO CARONIA. Milano 5/6 06 2015
Quando
mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro ho subito pensato di
indagare il possibile legame tra l’opera di Philip Dick, un autore spesso
associato al nome di Antonio Caronia e che anch’io ho letto molto, e un tema
che mi interessa particolarmente e cioè quello del rapporto tra musica e
potere. Non a caso: la musica è sempre presente da qualche parte nelle opere di
Dick, un po’ come lo sono i gatti, ed arriva persino a meritare l’apparizione
nel titolo di un romanzo; si tratta di Scorrete Lacrime, Disse il Poliziotto,
titolo che riecheggia quello di “Flow my tears”, forse la composizione più
conosciuta di John Dowland, compositore rinascimentale inglese.
Quello
del potere, poi, è un tema addirittura onnipresente e pervasivo nel lavoro di
Dick. Lo troviamo a partire dal microcosmo della vita famigliare, tipicamente
tra il protagonista e sua moglie o la sua amante, o negli equilibri di un
gruppo di amici, come in Un Oscuro Scrutare o più in generale di un
gruppo di persone, come ad esempio in Ubik o in Labirinto di Morte,
fino a coinvolgere non solo l’intera società spesso ingabbiata in una distopia
totalitaria, sia essa di stampo militarista, religioso o consumista, ma anche
l’intera esistenza umana, o almeno quella del protagonista, perso tra mondi
paralleli, governati da divinità personalzzabili, come Palmer Eldritch, o
ingannato dal velo di illusione intessuto da forme biologiche parassite e
aliene per noi inconcepibili, come la Zebra di VALIS.
Ciononostante,
è estremamente difficile individuare nel lavoro di Dick una relazione esplicita
tra musica e potere, così che forse l’unico esempio che possiamo trovare è nel
finale di Radio Libera Albemuth, che è per così dire la “prova generale”
di VALIS, trilogia che costituisce l’ultima opera di Dick. Nella conclusione di
questo romanzo, la musica di una band pop è l’ultima opzione rimasta ai ribelli
per riuscire a delegittimare il dittatore Fremont, attraverso la diffusione di
messaggi subliminali. Dunque comunque alla fine non si tratta della musica in
sé che ha il potere di indurre la sovversione, ma del testo che in essa può
essere nascosto.
Eppure
proprio la musica, con la sua complessa architettura di relazioni tra scale,
note, accordi, figure e melodie che si ripetono e vengono variate, con le sue
forme e i suoi organici vocali e strumentali, ma allo stesso tempo con
l’ampiezza della sua diversità interculturale ben si presta a esemplificare il
processo di costruzione di un’ideologia e il suo volersi porre come orizzonte
di senso nel regime totalitario.
E
forse è proprio per questo motivo che ci sembra eccessivo pensare alla musica
come uno strumento di soggezione: in fondo la musica allieta, ci emoziona (come
vuole la retorica di massa); e se non è così, non è musica: è rumore, non ci
dice niente e guardiamo con sospetto chi sostiene che ciò che per noi è un
insensata accozzaglia di rumori per altri è musica. Ma anche quando la
riconosciamo come musica, la musica degli altri pur aliena ed esotica, spesso
non possiamo evitare di considerarla l’espressione di un livello culturale
inferiore rispetto al nostro, che è quello di
“esseri civili”. Oppure la facciamo discendere da un concettualismo che
interpretiamo più come truffa, come mistificazione, che come genuina manifestazione
musicale.
Oggi
si litiga molto sulla musica. Anche se siamo lontani dalle risse che
scoppiavano durante i concerti di musica contemporanea negli anni ’60, è facile
offendere qualcuno dicendogli che non apprezziamo un dato brano musicale che
magari viene adorato dal nostro interlocutore o peggio se gli smontiamo il
brano e lo riportiamo a banali cliché. Ciò avviene tipicamente perché ci
identifichiamo con la musica che ascoltiamo e se qualcuno rifiuta la nostra
musica è un po’ come se rifiutasse noi stessi. Siamo in genere disposti a tollerare
chi ha gusti alimentari diversi dai nostri, ma per qualche motivo con la musica
questo ci riesce più difficile; come diceva un meme di qualche anno fa: “se ci
devono mettere in prigione perché scarichiamo musica, che almeno ci dividano a
seconda dei generi musicali”.
Dunque
oggi sembra che l’ascolto musicale si stia spostando dal riconoscimento di
strutture al riconoscimento di generi, operando una formazione identitaria, una
distinzione sociale, non più attraverso il grado di sensibilità, ma attraverso
l’orientamento di questa verso specifici target, che formano le coordinate
sempre diverse di ciò che chiamiamo “musica”. Insomma, la musica oggi viene in
qualche modo reificata: diventa parte di un arredo, viene indossata come un
indumento, o un tatuaggio.
Formare
le identità, magari identità ad hoc, è uno strumento fondamentale nella
dominazione. L’identità non è semplicemente il modo con cui noi ci distinguiamo
dagli altri, ma è soprattutto la membrana cognitiva con cui diamo un senso al
mondo, è il nostro Umwelt personale. Così che noi non percepiamo
la nostra identità in sé, ma piuttosto l’alterità di ciò che ci circonda contro
la quale ci ergiamo in difesa, per così dire, della nostra integrità di senso.
Non c’è quindi da stupirsi se la musica, con la sua liquidità inafferrabile e
la sua pervasività inevitabile, possa divenire lo strumento ideale per formare
i cittadini del regno, della Prigione di Ferro Nera, come la chiama Philip Dick,
entro la quale siamo rinchiusi. E questo vale anche se la finalità diretta è
semplicemente quella di diffondere il più possibile un’opera musicale per avere
maggiori profitti, anzi, vi è una precisa connessione tra ripetizione e
modulazione della coscienza. Ed è proprio questo il punto: è attraverso la
ripetizione che si forma l’universo che incontriamo, come uno specchio sempre
incrinato.
Insomma,
è naturale quindi che mi sarebbe piaciuto leggere un romanzo di Philip Dick, in
cui per una volta fosse proprio la musica a squarciare il velo dell’illusione
costruito dal demiurgo parassita per dominarci e trasformarci in un docile e
insensibilmente felice gregge.
Magari
la storia sarebbe potuta iniziare a partire dal finale di Radio Libera
Albemuth, quando il protagonista, che è lo stesso Philip Dick, dall’interno
della prigione in cui è stato rinchiuso si rende conto che i messaggi
subliminali non sono bastati a sconfiggere il dittatore e che anzi, sono gli
stessi giovani, i destinatari di questi messaggi sovversivi, a consolidare il
potere del tiranno.
In
prigione però, lo scrittore si accorge del dilagare di uno strano culto i cui
adepti si riuniscono segretamente per ascoltare in silenzio un singolo suono o
a volte un accordo che continua per ore e ore, apparentemente senza minime
variazioni. Ovviamente Philip Dick, grande appassionato di Wagner e di Linda
Ronstadt, rifugge da questa setta, ma tra i detenuti incontra una giovane
ragazza, che è stata incarcerata per aver spacciato vinili di musica
degenerata. Questa introduce il protagonista a un mondo di culti e di pratiche
di ascolto di cui non aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza: chi ha fatto
voto di ascoltare per il resto della propria vita solo Gute Nacht di
Schubert, il primo Lied del Winterreise, chi invece è devoto al rumore
bianco, che per definizione contiene tutte le musiche del passato e del futuro
e cerca di recuperarle scolpendo con l’ascolto il rumore bianco come un blocco
di marmo, chi si riunisce per ascoltare le musiche portate dai singoli adepti,
però tutte insieme contemporaneamente, e tanti altri culti ancora.
Il
romanzo poi avrebbe potuto seguire il percorso esistenziale di Dick mentre si
addentra in queste pratiche vietate dal regime, descrivendo come ogni nuovo
esercizio dell’ascolto lo conduce a una diversa percezione del mondo intorno a
sé, un po’ come un’esperienza psichedelica. E piano piano il mondo si
trasforma. Il meccanismo di proiezione della realtà fittizia, il Vasto Sistema
di Intelligenza Vivente Attiva o VALIS come lo chiama Dick, sembra vacillare
perché non riesce a sostenere i continui cambiamenti cognitivi del
protagonista: dove prima c’era una cella ora c’è una palude, dove c’era un
secondino ora c’è una sorta di legionario romano da incubo, nel cielo ogni
tanto si può scorgere un gigantesco sguardo malevolo e sogghignante, ma soprattutto
al posto dei muri della prigione ora c’è lo spazio aperto. Che quello che si
percepisce sia la vera realtà, il sostrato, non è certo. Quello che è invece
certo è che il velo di Maya è stato squarciato. Ma solo per un momento.
Ora
però la resistenza sa finalmente cosa deve fare per sconfiggere il tiranno. Non
c’è bisogno di sottoporre gli ascoltatori a messaggi subliminali, tutto il
contrario: occorre far ascoltare a tutti i suoni e le musiche del mondo.
Bisogna occupare le televisioni, le radio, le sale da concerto e fare musica,
suoni, rumori di tutti i tipi. Certo anche Wagner e Linda Ronstadt hanno il
loro posto in questa babele sonora, ma il loro ruolo è cambiato: ora sono una
voce tra un miliardo, tra mille miliardi. Sono una possibilità, un percorso
sonoro unico. Ancora di più perché l’ascolto liberato delle persone può trovare
in questi brani ogni volta suggestioni diverse.
E
così alla fine, con il diffondersi di questa esplosione di diversità di ascolti
e pratiche, tutti riescono finalmente a vedere il tiranno per quello che è, la
Prigione di Metallo Nera viene distrutta e ora è possibile costruire una nuova
società. Ma un nuovo tiranno si sta già preparando per salire al potere.
Ecco,
un romanzo di Philip Dick sul rapporto tra potere e musica avrebbe forse potuto
avere una trama come questa. Oppure chissà, forse, anzi molto probabilmente, il
romanzo sarebbe stato completamente diverso.
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