martedì 30 gennaio 2018

Primo Moroni: Sfide della modernità. Riflessioni su James G. Ballard


Quest’anno 2018 è il 50° anniversario del ’68 ma è anche, rispettivamente, il 20° e 5° anniversario della scomparsa di due protagonisti, scomodi e poco ricordati, di quegli anni di gioiose, quanto tragiche, rivolte: Primo Moroni e Antonio Caronia. Entrambi, oltre alle lotte, hanno condiviso una grande passione per due pilastri della fantascienza ribelle di allora: Philip K. Dick e James G. Ballard. Dalla rivista Decoder n. 11 (Speciale J. G. Ballard) https://archive.org/details/decoder-11 le riflessioni di Primo Moroni su Ballard.

La grande polemica e lo scandalo, per noi scandaloso, sull’uscita del film Crash, rischia di mettere il bavaglio anche a J. G. Ballard autore del romanzo omonimo uscito in Italia nel 1990, con grande ritardo rispetto al mercato inglese (l’edizione originale è addirittura del 1973) e che al tempo ebbe in sorte di finire sugli scaffali dei remainder. Ballard è considerato nei paesi di lingua anglosassone uno dei più grandi scrittori contemporanei e una delle firme più prestigiose di “The Guardian”, ma in Italia è uno scrittore che vende poco e per lo più in edicola. Ma quali sono i temi centrali della sua scrittura e perché egli stesso viene talvolta censurato (come accaduto tra gli altri per La mostra delle atrocità, che nella sua prima edizione americana del 1970, fu totalmente distrutta dall’editore Doubleday,  preoccupato per le possibili conseguenze legali di uno dei testi compresi nel libro: Ecco perché voglio fottere Ronald Reagan)? La radicalità di Ballard sta nel fatto di estremizzare la modernità, una modernità che diventa mitologia – e proprio per questo condivisa dai giovani – portando alle più radicali conseguenze situazioni già esistenti nel nostro quotidiano. In Condominium, un megaresidence diventa teatro, a causa di una serie di eventi straordinari, di una lotta postmoderna di bande di coinquilini coalizzati sulla base del piano del proprio appartamento (quasi a evocare con largo anticipo, estremizzandoli, i livori metropolitani legati alle esistenze perimetrate, alle difese dei microterritori urbani,  ai localismi dei comitati di quartiere). In Isola di cemento un banale incidente proietta l’autista in una sorta di terra di nessuno, contornata da grande autostrade che ne impediscono ogni via di uscita. Ma è soprattutto nei quattro magistrali racconti (Vento dal nulla, Deserto d’acqua, Terra bruciata e Foresta di cristallo) che la metafora della modernità dispiegata e i suoi pericoli raggiungono tonalità quasi apocalittiche e primordiali. Le foreste di simboli che vi si sovrappongono diventano un evidente archeologia del presente e del recente passato, e nella loro immediata simbiosi fondono le memorie “genetiche” dei tempi e delle ere scolpiti nelle tracce dell’inconscio collettivo. I protagonisti, sono posti di fronte a repentini, sconvolgenti eventi che modificano la loro relativa tranquillità quotidiana e sono costretti a dare risposte. Risposte drammatiche che ricercano dentro di loro e nelle immense risorse del proprio bagaglio di conoscenze e di propri universi vitali. E se è vero che acqua, sabbia, cemento e cristallo sono elementi che si incontrano in tutta l’opera di Ballard – e che gli stessi hanno molteplici significati simbolici all’interno dei quali l’estetica ballardiana costruisce questo inno alle “infinite possibilità del presente” – altrettanto chiara risulta l’ambivalenza delle scelte legate ai dilemmi della modernità ininterrotte di questo secolo morente. E qui siamo in tutta evidenza a Marshall Berman che rilegge il Marx della rivoluzione ininterrotta di sé e del rapporto mortale tra uomo, natura e tecnica, tra epistème e technè. Spesso, riconosce Berman, “il prezzo di una modernità in via di sviluppo e in espansione è la distruzione non solo di situazioni e ambienti tradizionali e premoderni, ma – e qui è la vera tragedia – anche di tutto quanto vi è di più bello e vitale nello stesso mondo moderno”. I personaggi di Ballard sono costantemente posti di fronte a questi dilemmi, costretti a sfidare forze materiali, economiche e tecnologiche spaventose, a morire a rinascere di sé e delle proprie appartenenze e convinzioni,  come in Guernica di Picasso dove le figure lottano per tenersi in vita, proprio mentre urlano la loro morte. C’è poi la scrittura e lo scavo dei personaggi e delle loro psicologie. Qui tutta la storia personale di Ballard (basti pensare all’Impero del sole) risulta nella sua complessità. Ma ciò che poteva essere rimosso come in incubo, un trauma originario, diventa invece materia vitale di una scrittura tesa a trasformare l’autore stesso in un raffinato psicologo delle situazioni estreme. Si comprendono quindi le difficoltà di comprensione di questi universi estetici. È un segno dei tempi e della staticità di molte soggettività. Osserva Nietzsche: “C’è in giro una moltitudine di ’piccoli suonatori di corno’, la cui soluzione al caso e alla difficoltà del moderno è cercare di non ‘non vivere’ affatto: per loro ‘divenire mediocri’ è ormai l’unica morale che produce senso”. Qui sta la grandezza di Ballard e delle sue sfide, sfide contro le quali l’uomo cerca una nuova difficoltosa e avventurosa via per “ricollocarsi” in un tempo psichico interiore che spesso si dilata nell’allucinazione. E che la ricerca sia difficile lo testimonia, più di tutto, il suo stile che ricrea l’angoscia contemporanea del vivere (sbaglia totalmente Tullio Ketzich su “Corriere della Sera” a definire la scrittura di Ballard come involuta) Ballard è sempre stato uno scrittore ripetitivo e ossessivo, e proprio in Crash, lo è come non mai. Qui, infatti, la franchezza sessuale e le lunghe descrizioni di ferite e mutilazioni, la strana radicale unione tra carne e macchina (che Cronenberg riproduce solamente in maniera moderata) si esplicitano in una scrittura che è più medico scientifica che letteraria, perfetta immagine di rapporti sociali totalmente disgregati e vissuti senza alcun sentimento: un incubo ad aria condizionata molto umida qual è la nostra epoca. 

lunedì 22 gennaio 2018

Antonio Caronia: Geometrie della simulazione



da "Il gatto del Cheshire" Un'Ambigua Utopia II° trimestre 1982






da "Il gatto del Cheshire": Paolo Gallerani



testo di Antonio Caronia 

Bibliografia essenziale della fantascienza 1978


Comunicato
Nel corso della trasmissione radiofonica sulla SF, trasmessa sabato 25/2/78 dalle 16 alle 18 dall’antenna di CANALE 96 (emittente democratica di Milano), il Collettivo redazionale di “UN’AMBIGUA UTOPIA”, ha lanciato un appello per la costituzione di un COLLETTIVO SULLA FANTASCIENZA. Invitiamo quindi tutti i compagni di Milano e Provincia interessati, a mettersi in contatto con noi per discutere operativamente di questa iniziativa. Ci siamo dati una scadenza: il 5 aprile ’78, mercoledì dopo cena, in luogo da definirsi (*) e che verrà comunicato tramite le radio democratiche, i giornali della sinistra di classe, con cartelli nelle librerie democratiche, si terrà una prima riunione. Abbiamo inoltre ciclostilato una breve “BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DELLA SF” che sarà disponibile, per tutti coloro che ne faranno richiesta, presso le librerie democratiche che porranno in vendita questo numero della rivista.


(*) Fabbrica di Comunicazione, ex chiesa di San Carpoforo a Brera
(Un'Ambigua Utopia n.2 aprile 1978)





domenica 14 gennaio 2018

Antonio Caronia: Una striscia per ogni galassia



C’è da stupirsi se le origini del fumetto sono fortemente nutrite di fantastico? I sogni di Little Nemo come i paesaggi di Krazy Kat o la sfrenata capacità del gatto Felix di realizzare fantasie non lasciano dubbi. Tuttavia, mentre già la fantascienza scritta (sia pure non ancora sotto questo nome) si diffondeva robustamente nelle pagine dei pulps, avremmo dovuto aspettare ancora diversi anni prima di avere dei veri fumetti di fantascienza. In effetti i fumetti delle origini (dalla fine del secolo scorso alla metà degli anni Venti) toccavano prevalentemente la corda dell’umorismo, più che quella dell’avventura, e il fantastico dei comics lasciava poco spazio alla fantascienza: Felix The Cat poteva andare sulla luna quando voleva, naturalmente, ma era un’altra cosa. È nel corso degli anni Venti che il pubblico comincia a rivolgersi verso il fumetto d’avventura: la situazione interna degli USA (criminalità, scandali, problemi economici) metteva in crisi nell’immaginario collettivo le strip “familiari” come Arcibaldo e Petronilla, orientava il gusto verso avventure esotiche, viaggi. La riconquista di una dimensione “realistica” ci sarebbe stata più tardi, negli anni Trenta, con le figure di detective, l’Agente segreto X-9 e Dick Tracy, per esempio. Adesso era la volta di Cino e Franco e già si annunciavano i due grandi personaggi di Lee Falk, Mandrake e il Phantom (L’uomo mascherato). In questo clima esotico e avventuroso la fantascienza si inseriva molto bene. Il battesimo al fumetto spaziale lo diede nel 1929 Buck Rogers, un pilota addormentatosi nel 1919 e risvegliatosi cinquecento anni dopo per ritrovare l’America invasa e dominata dai mongoli. Buck Rogers veniva diretto da un romanzo di Philip Francis Nowlan, appena pubblicata a puntate da “Amazing Stories”; Armaggedon 2429 A.D. L’idea era stata del distributore John F. Dillie, la sceneggiatura dello stesso Nowlan, il disegno di Dick Calkins. Era stata una buona idea; nel 1933 seguiva Brick Bradford, di Ritt e Gray, e nel 1934 quello che doveva diventare uno dei più famosi fumetti di fantascienza, Flash Gordon di Alex Raymond. Sia Buck Rogers che Brick Bradford (noto da noi con una quantità di nomi diversi, Guido Arceri, Marco Spada, Bat Star) erano space operas abbastanza ortodosse, più rozza la prima, soprattutto nel disegno, meno la seconda. Flash Gordon invece inclinava più verso l’avventura esotica, il fantasy: solo l’inizio della storia ha una ambientazione fantascientifica, con viaggi interplanetari, asrtronavi e pianeti lontani. Ma una volta che Gordon, la fidanzata Dale Arden e lo scienziato Zarkov sono sbarcati sul pianeta Mongo, si impegnano in una lotta contro il tiranno Ming e la storia assume la fisionomia di una saga cavalleresca. Ciò non toglie che Raymond (poi affiancato e sostituito da altri disegnatori) abbia dimostrato una straordinaria capacità di anticipare invenzioni posteriori, come il laser, il missile, il video-telefono, esercitando una certa influenza anche sul design dei decenni seguenti con il suo stile raffinato un po’ lussureggiante. Non si può negare che, al di là di questi motivi di interesse, il fumetto di fantascienza non sia poi più stato capace di staccarsi da questi cliché, condannandosi a un’esistenza ripetitiva e a schemi tutto sommato logori. Eppure nel fumetto di fantascienza echeggiano umori e esigenze profonde, a livello di massa. L’esempio più tipico è forse Superman, nato nel 1938bad opera di Jerome Siegel e Joe Shuster e destinato a un successo stupefacente. Anche Superman si ispira a un romanzo, Gladiator di Philip Wylie, del 1930, ma vive ben presto di vita propria, anzi attrae nella sua orbita più di uno scrittore di fantascienza, che negli anni seguenti collabora alla sceneggiatura delle storie (Alfred Bester e Henry Kuttner fra gli altri). In una memorabile analisi (in Apocalittici e integrati) Umberto Eco individuava le radici della grande popolarità di Superman nelle “esigenze di potenza” che il cittadino comune non riesce a soddisfare nella società tecnologicamente avanzata e proietta su eroi positivi di questo tipo. Il successo di Superman scatenò comunque una vera e propria febbre di supereroi nel fumetto USA, da Batman ai Fantastici Quattro e alla legione di personaggi della Marvel Comics. Leggiamo questo severo giudizio di Gaetano Strazzulla al proposito: “Nel comic di anticipazione americano, il ‘supermanismo’ ha oggi superato ogni limite dell’immaginazione, mescolando confusamente le risorse della tecnologia e della cibernetica con la magia e l’orrore. Siamo nel regno della favola moderna, che rispecchia la caotica e frenetica vita dell’uomo contemporaneo, proiettato in maniera vertiginosa verso un futuro pieno di inquietanti incognite.” (I fumetti, Sansoni, 1980). Nel filone della space opera sono uscite opere interessanti in Inghilterra, come Dan Dare (1950), ma più ancora il Jeff Hawke creato da Sidney Jordan nel 1954. Senza rinunciare a certe atmosfere fiabesche, la solidità degli intrecci, una gradevole tendenza all’ironia e una notevole galleria di estrose creature extra-terrestri fanno di questo fumetto uno dei più gradevoli dell’intera fantascienza. Ma le novità più rilevanti, nel dopoguerra, sono venute dalla Francia. In questo paese (o meglio in area francofona) si erano avuti fumetti di fantascienza autoctoni già negli anni Trenta e Quaranta, con Futuropolis di René Pellos e le avventure di Blake e Mortimer del belga Edgar-Pierre Jacobs, fantascienza ortodossa con tendenze alla fantaarcheologia e robuste connotazioni poliziesche. Poi, nel 1962, scoppiò Barbarella, questa vagabonda delle galassie dai costumi sessuali alquanto liberi creata da Jean-Claude Forest. Un colpo all’ortodossia avventurosa che suscitò varie imitazioni. E poi, nel 1974, la vera rivoluzione: gli “Humanoides associés” fondano la rivista “Metal Hurlant”. Gli “umanoidi” sono quattro personaggi del fumetto francese, lo sceneggiatore Jean-Pierre Dionnet, il poeta Bernard Farkas e i disegnatori Philippe Druillet e Jean Giraud. Druillet aveva già creato un personaggio fantascientifico nel 1967, Lone Sloane, un vagabondo dello spazio dedito ad avventure di tipo western; Giraud (col nome di Gir) disegnava nel 1963 una saga western ortodossa, quella di Blueberry. Ma con la fondazione della nuova rivista si apre un discorso del tutto nuovo: “Metal Hurlant” vuole rispecchiare nel fumetto tendenze, aspirazioni e gusti degli strati più inquieti delle nuove generazioni, vuole sperimentare le intersezioni tra fumetto, musica e letteratura popolare, e naturalmente la fantascienza è al centro dell’attenzione, ma non secondo i moduli tradizionali. Il riferimento è a quanto, anni prima, è stato fatto di innovativo nella fantascienza scritta, alla cosiddetta new wave al di qua e al di là dell’atlantico, ad autori come Farmer, Dick, Ballard, Moorcock. Il disegno di Druillet diviene più complesso, sovrabbondante, barocco, quasi acido. La violenza metropolitana che altri autori della rivista descrivono con riferimento ai nostri giorni, lui la trasferisce su scenari fantastici e crea opere di grande potenza. Quanto a Giraud, riprende lo pseudonimo che aveva usato anni prima per le collaborazioni al giornale satirico “Hara-Kiri” (Moebius) e crea storie completamente diverse, nel disegno e nella concezione, rispetto a Blueberry: universi enigmatici come quello di Arzach, storie complesse con trame incassate l’una nell’altra e apparenti nonsense come Il garage ermetico di Jerry Cornelius (o Il maggiore fatale) ispirato a un personaggio “new wave” di Moorccock. Con “Metal Hurlant” e i nuovi autori francesi e americani che si raccolgono intorno alla rivista la fantascienza diventa anche nel fumetto una chiave di lettura, volta a volta ironica e drammatica, viscerale e cerebrale, della realtà contemporanea. L’esempio francese contagia anche l’Italia. Per quanto riguarda la fantascienza nel nostro paese c’era stato un avvio alla fine degli anni Trenta con Federico Pedrocchi, un intelligente sceneggiatore che aveva creato, senza praticamente conoscere nulla della fantascienza americana, due interessanti storie, Saturno contro la Terra (soggetto di Cesare Zavattini, disegni di Giovanni Scolari) e Virus, illustrato da Walter Molino. Ma, scomparso Pedrocchi, nessuno aveva raccolto il suo esempio. Alla fine degli anni Settanta è il gruppo di “Valvoline” (Igort, Brolli, Mattotti, Carpinteri, e poi Mattioli) che all’interno di un discorso di rinnovamento radicale del fumetto italiano utilizza spunti, idee e figure della fantascienza in modo non convenzionale, ironico e corrosivo: le realizzazioni più interessanti sono quelle di Massimo Martioli con la sua satira della space opera nella serie di avventure di Joe Galaxy, già avviate sulla rivista “Cannibale”, da cui prende le mosse “Frigidaire”. Ed è su quelle pagine che prende avvio il più famoso fumetto italiano contemporaneo di fantascienza, Ranxerox, creato da Stefano Tamburini e disegnato con rabbia  e partecipazione da Tanino Liberatore: ed è in quest figura di coatto sintetico in una Roma del futuro non troppo dissimile poi dalla nostra che la fantascienza italiana ha mostrato una via non banale e svincolata dalla soggezione a modelli stranieri. 

Pubblicato in Variazioni Cosmiche, Edizioni Nord, Milano, 1988

lunedì 8 gennaio 2018

Antonio Caronia: L'utopia addomesticata

Maurizio Giannoni
Ma l’utopia non era morta? Non si era inabissata con la crisi del ’29, l’industrializzazione forzata in URSS, e lo scioglimento dell’Internazionale situazionista? Ci sbagliavamo. L’ha fatta risuscitare Ernest Callenbach, che, secondo il Los Angeles Times (i cui redattori hanno a disposizione, evidentemente, più informazioni di noi) è “il nome più attuale dopo Wells, Verne, Huxley e Orwell”: i redattori della prossima enciclopedia dell’utopia prendano nota. L’utopia resuscitata dal predetto signore, col nome opportunamente attualizzato di Ecotopia (Mazzotta editore, 1979, 224 pagg., 3.500 L.) ha però tutto l’aspetto dello zombie: è una morta vivente, la cui putredine fa capo ad ogni passo sotto il belletto ecologico. Callenbach ha ripreso pari pari il modello classico del viaggiatore nel paese di Utopia. Il viaggiatore è William Weston, inviato speciale del New York Time Post, e l’Utopia è Ecotopia, il nuovo nome assunto dall’Oregon, dalla Carolina del Nord e dallo stato di Washington dopo una secessione dagli USA nel 1980. Dopo 19 inevitabili anni di separazione, gli ecotopiani aprono le frontiere al prestigioso giornalista, di cui possiamo leggere un mixage di articoli “ufficiali” e diario personale. Non di più, perché sono bastati due mesi al brillante inviato per decidere di trasferirsi definitivamente in Ecotopia. Il viaggio, scrive al direttore con la coscienza di dover scrivere la frase finale del libro, “ha finito per portarmi a casa mia”. Callenbach ha scelto di ricopiare a carta e carbone il modello classico, e quindi non potremo rimproverargli la legnosità e la didatticità del libro: ma, vivaddio, i viaggiatori dell’utopia classica mostravano un po’ più di distacco! Questo Weston è consapevole fin dall’inizio che toccherà a lui, e alla sua scelta eclatante finale, di mostrare agli occhi increduli americani del 1999 (che poi sono quelli del 1975, anno di pubblicazione originale del libro) la superiorità dell’utopia ecologica, e i tentativi  suoi (e di Callenbach) di nascondercelo falliscono pietosamente. Tutto questo è molto irritante (come tutte le offerte di consolazione non richieste), e irritante è il modello proposto: che – non facciamoci ingannare dalla vernice “ecologica” – è poi quello di una rivoluzione non violenta, non anarchica, ecologista, graduale, pragmatista, federalista, cooperativista; è l’utopia individualista del farmer, legato alla terra, che sogna la “concorrenza perfetta”. Tutto questo in un momento in cui anche il governo federale USA maschera la sua riduzione delle spese sotto lo slogan “piccolo è bello”. Propaganda, quindi, e scritta pure male.

Se vogliamo restare nel campo delle utopie “rurali”, ben più interessante appare Viaggio di mio fratello Aleksej nel paese dell’utopia contadina, apparso nel 1920 in URSS a firma di Ivan Kremmnev, pseudonimo sotto cui si nascondeva l’economista e letterato menscevico Aleksandr V. Cajanov, che sarebbe poi stato fucilato nel corso di una delle tante ondate di purghe nel 1939 ad Alma-Ata. Ce lo ha riproposto sempre nel 1979 Einaudi (Nuovo Politecnico, 116 pagg., 2.500 L.), con una breve introduzione di Vittorio Strada e un saggio originale di L. Certkov, dal quale apprendiamo che la parte più consistente dell’attività letterari di Cajanov consistette in alcune “novelle romantiche” (che noi chiameremmo piuttosto racconti fantastici), e che non è improbabile qualche influenza da lui esercitata su Bulgakov. Il Viaggio nell’utopia contadina descrive una Russia del futuro in cui i partiti contadini hanno preso il potere, eliminato il pericoloso centralismo e autoritarismo bolscevichi, e riorganizzato la Russia con la rivoluzionaria misura della proibizione delle città di più di ventimila abitanti. Le città sono diventate dei luoghi di transito, di ritrovo e di divertimento della popolazione rurale, e lì si svolge gran parte dell’attività culturale che entusiasticamente e ingenuamente forse, Cajanov immagina diffusa in profondità nella popolazione. Molti tratti di questa utopia, però, ricordano da vicino il sistema sovietico come si andava effettivamente realizzando, con la sola sostituzione di soviet e partiti contadini a quelli operai; e la stessa produzione artistica e culturale non appare più dissimile – a giudicare dalle descrizioni – dal realismo socialista. Ma, a parte la gradevolezza della scrittura, ci sono due elementi che raccomandano la lettura di questa operina. In primo luogo il suo effettivo collegamento con il dibattito in corso allora e negli anni seguenti in URSS, sul tipo di modernizzazione e di industrializzazione necessario per lo sviluppo del paese (e non poteva che essere così, visto che Cajanov fu, fino al 1929, un economista attivo, anche con incarichi ufficiali). E poi una curiosa ambiguità del Viaggio, nel quale (forse anche a causa della sua incompiutezza) la tesi dei “ruralisti”, per quanto indubbiamente vicine alle tesi di Cajanov, non sono difese in modo esclusivo, e spesso affiorano critiche implicite ai difetti del sistema utopico contadino da lui stesso delineato. Come tutte le utopie, dice Strada, anche questa è a doppio taglio: “stimola il pensiero critico e disegna sogni illusori”.

(Pubblicato in Un'Ambigua utopia n. 1 I° trimestre 1980)

Sull'Utopia:
Antonio Caronia: Utopia e fantascienza. Un menage difficile. 1^ Parte http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2017/12/antonio-caronia-utopia-e-fantascienza.html  2^ Parte http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2017/12/antonio-caronia-utopia-e-fantascienza_11.html 
Giuliano Spagnul, Distruggere l'utopia. http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2016/12/distruggere-lutopia-di-giuliano-spagnul.html 

lunedì 11 dicembre 2017

Antonio Caronia: Utopia e Fantascienza. Un menage difficile. 2^ Parte


Natura e produzione.
Ma perché insomma, non troviamo utopie nella fantascienza? Perché la raffigurazione del futuro o del possibile è utilizzata prevalentemente o in funzione anti-utopica o in funzione di conservare e preservare l’esistente? Thomas Disch non ha dubbi. Secondo lui, le utopie sono “notoriamente noiose, stupide, e ripugnanti”, (e tuttavia aggiunge “comunque abbiamo bisogno di utopie”)9. Ma così il problema è solo spostato: perché a Disch – e ad un osservatore del XX secolo – le utopie appaiono tali? Azzardiamo un’ipotesi: una delle differenze di fondo fra la letteratura utopica e quella di fantascienza al di là delle analogie nella configurazione del discorso di cui parlavamo all’inizio, potrebbe risiedere nel carattere fondamentalmente religioso della prima e, diciamo così, laico della seconda. Ma forse è ancora troppo poco. Che cosa significa, infatti, la religiosità dell’utopia classica? (Che la religiosità ne sia un carattere portante pare difficile contestarlo, da Moro e Campanella fino a Fourier) Significa il vagheggiamento di una natura – e di un rapporto dell’uomo con la natura come parte di essa – o incontaminata, restituita ad una purezza originaria (l’età dell’oro), o nuovamente fondata, ma sulle basi di una razionalità indiscussa, ideale, che non può avere il suo fondamento che in Dio – una razionalità trascendente, insomma. L’immaginario dell’Utopia è un immaginario trascendente, insomma. L’immaginario dell’Utopia è un immaginario trascendente. Quello della fantascienza, al contrario , è completamente immanente. Esso non procede da un’idea originaria o ideale di Natura, ma dalla realtà della natura, così come il capitalismo in espansione la ha trasformata o la sta trasformando. La fantascienza classica è la letteratura della produzione, della sua espansione illimitata, dell’energia e di tutto ciò che essa è in grado di far funzionare (di “materiale” e di “spirituale”), della macchina come prolungamento dell’uomo e della sua capacità, del modo di produzione capitalistico che si espande e si afferma su tutto l’universo. La distanza fra l’Utopia e la Fantascienza non sarebbe, insomma, altro che quella che separa l’organizzazione del sapere nei secoli XVII e XVIII nello spazio dell’Ordine, della Rappresentazione, dell’organizzazione del sapere affermatasi nel XIX secolo attorno al concetto di Storia.10 Questo potrebbe forse essere messo in relazione con il passaggio dal carattere spaziale, locativo delle Utopie classiche (l’isola felice, il paese della Cuccagna) a quello prevalentemente temporale della Fantascienza (non alludiamo solo ai viaggi nel tempo, ovviamente, ma alla caratteristica ambientazione nel futuro): “Una borghesia trionfante introduce una storica rottura epistemologica nell’immaginazione umana, attraverso cui il tempo lineare o scandito dall’orologio diviene lo spazio dello sviluppo umano perché esso è lo spazio della produzione industriale capitalistica”11. Non troveremo utopie in senso classico nella Fantascienza, in altri termini, perché lo spazio per pensare l’immaginario si è ristretto, nel senso che l’immaginario si identifica sempre più con la gamma delle varie possibilità aperte a partire dalla situazione data. L’utopia di uno sviluppo illimitato e tutto inglobante, al limite l’ideologia tecnocratica, tipiche della fantascienza “tecnologica”, e l’antiutopia satirica o drammatica non sarebbero, viste da questa prospettiva, che due facce della stessa medaglia. Le utopie della fantascienza non possono dunque che essere “ambigue”, nel migliore dei casi: Anarres reca dentro di sé i germi che possono, a lungo andare, trasformarla in una nuova Urras. E le stesse eccezioni più rilevanti a questa difficoltà della Fantascienza di trattare l’Utopia – vogliamo dire le utopie di società solo femminili, che si incontrano di recente in varie opere scritte da donne – non ci consegnano certo un messaggio univoco e refrattario alla sua messa in discussione12.
Dilatazione dell’immaginario nell’epoca dei modelli
Il discorso potrebbe anche fermarsi qui, se oltre e accanto a quella che abbiamo chiamato la “fantascienza classica” ci fosse il vuoto. Non è così. E le tendenze più recenti meritano qualche cenno anche per il discorso che stiamo tentando di fare qui. Che dopo l’esperienza della New Wave inglese e le sue propaggini americane si sia scatenato il casino, e la Fantascienza stia mutando sotto i nostri occhi verso una direzione (o direzioni?) non chiara, è stato già osservato da chi da più anni di questo genere si occupa.13 Qualche interpretazione, però, è possibile azzardarla. Ci ha provato Laura serra, per esempio, in una introduzione all’antologia di Wolheim (Il meglio della fantascienza) del 197714. La Serra osserva giustamente che un possibile filo conduttore di quell’antologia può essere visto nel rapporto Realtà-irrealtà, o nei problemi del rapporto uomo-realtà esterna. In effetti, in alcuni dei racconti di quell’antologia, questo rapporto tende proprio a vanificarsi. Prendiamo La banca della memoria di John Varley: un uomo rimane intrappolato in un computer, il cervello collegato alle sue terminazioni, e lì vive alcuni anni soggettivi (scoprirà poi che in “tempo oggettivo” sono solo alcune ore) di esperienze indistinguibili da quelle che avrebbe potuto vivere in un vero “mondo esterno”. Il finale sembra ricomporre l’immagine del mondo e la distinzione fra reale e immaginario; tuttavia non appare convincente, e le “scorie” di indistinzione che vi rimangono hanno una corposità ben più inquietante: un attimo prima che Fingal, l’uomo intrappolato, ritorni alla “realtà” la sua istruttrice tramite filo, Apollonia, tenta di rassicurarlo sulla validità degli studi che egli ha compiuto nel calcolatore, e se ne esce con questa significativa battuta: “Ma non era soltanto un gioco. Lei ha imparato veramente le cose che ha imparato, ed esse non le usciranno di testa, una volta ritornato. Certamente quella carta che tiene in mano (la laurea, ndr) è immaginaria, ma chi crede che stampi quelle vere? Nel computer lei risulta aver superato tutti i corsi prescritti, e questo è ciò che conta. Al suo ritorno riceverà un diploma vero”15. Situazione analoga in Problema d’identità, di Barrington J. Bayley: Naylor viaggia nello spazio con il suo tespitron, una sorta di apparecchio televisivo che è capace di produrre all’infinito storie che riproducono schemi logici e drammatici del mondo esterno e del suo proprietario. Fra la storia del tespitron e quella che vive Naylor nella nave spaziale si stabilisce un parallelismo mediato dalle riflessioni filosofiche del protagonista sul problema del pensiero e dell’identità. Alla fine, punito per aver abbandonato la “solida saggezza dell’empirismo materialista”16, Naylor si perderà nello spazio.    È possibile che il problema della distanza fra realtà e immaginazione, fra sogno e vita cosciente (il problema della diminuzione, al limite dell’annullamento di questa distanza) sia un filo conduttore utile per leggere le più interessanti tendenze dell’ultima fantascienza? Io credo di sì. Se Varley e Bayley sembrano essersi fermati a un certo punto di questo discorso, nei due racconti citati, Thomas Disch va ben più in là. I suoi racconti17 offrono esempi convincentissimi di “intrecci” (se così si può dire) o situazioni che a prima vista appaiono semplici trasposizioni di temi classici della fantascienza – o più spesso dell’orrore: ma basta fermarsi un attimo ad analizzare la sensazione stringentissima di angoscia che si prova nel leggerli per accorgersi che essa è dovuta principalmente all’instaurarsi di una circolarità fra realtà e irrealtà, in cui quest’ultima ha la stessa corposità della prima, e ne risulta indistinguibile. Le scale mobili in discesa di un grande magazzino scendono per centinaia di piani, e il viaggio all’inferno dura giorni e giorni; l’intuizione del protagonista che, riuscendo ad arrivare in fondo, riuscirà a trovare anche le scale in salita, è giusta: la morte non sopraggiunge perché il viaggio è infinito, ma perché sulle scale in salita è appeso il cartello: “Fuori servizio. La Direzione” (Scendendo). La Testa non è più una parte del corpo, ma una protesi intercambiabile, con i suoi input e otput, che garantisce tutte le sensazioni e le prestazioni… di che cosa? Dell’originale? Non è affatto sicuro che ci sia un originale (Divertitevi con la vostra nuova testa). John Benedict Harris, teorico dell’architettura, va ad Istanbul per liberarsi “dal senso di quello che gli era familiare” e dimostrare che le strutture architettoniche, come ogni altra struttura, sono costruzioni arbitrarie. Scoprirà che ogni costruzione intellettuale riposa sulla “disponibilità del pubblico a lasciarsi ingannare, disponibilità che rappresenta il vero cemento del contratto sociale”, e dovrà subire, suo malgrado, un costante e inspiegabile slittamento di identità, tornando a vivere con una donna e un bambino turchi che non aveva mai visto in precedenza ma che aveva abbandonato (Riva d’Asia). E possiamo fermarci qui. In realtà Disch, fornendoci la descrizione dell’intellettuale che, chiuso ermeticamente in una stanza senza contatti con l’esterno, produce storie e scritti che gli vengono sottratti e di cui non sa la destinazione (La gabbia dello scoiattolo), ci parla generalmente della condizione umana nell’epoca in cui sono i media a costruire il nostro reale, producendo un enorme vortice di fatti, rappresentazioni, spettacoli, in cui il senso si distrugge, e la gente va allo stadio con le radioline per essere sicura che quello che sta vedendo è proprio reale18. Ma non ci parla delle stessa cose Lafferty, quando ci racconta degli uomini raddoppiati (Cammelli e dromedari, Clem), dei continenti che si restringono e si allargano (Crisolite intero e perfetto), dell’interscambiabilità fra sogno e realtà (Sogno), dello sconvolgimento del tempo (Rainbird, Continua sulla prossima roccia?)?19. Attenzione: non è Lovecraft, non è la certezza (che sia certezza solamente letteraria o totalmente personale da poter essere classificata come malattia mentale, poco importa) non è la certezza, dicevamo di un ordine sottostante o sovrastante al nostro reale, al nostro quotidiano, in attesa di risvegliarsi e distruggerci: è la consapevolezza che l’altro, il totalmente arbitrario, abita tra noi e invade il nostro quotidiano. Non è il nonsense di Lewis Carrol, strumento per arrivare ad un nocciolo di verità dissimulato sotto le cose: è la consapevolezza che realtà e irrealtà sono ugualmente e assolutamente prive di senso. L’immaginario, buon vecchio rassicurante duplicato – distorto e deformato – del reale, è cresciuto come quella carta geografica dell’Impero di cui parla Borges, sempre più perfetta, tanto da coprire esattamente il territorio che pretendeva rappresentare. Non poteva accadere altrimenti nell’era dei modelli. “I modelli non costituiscono più una trascendenza o una proiezione, non costituiscono più un immaginario in rapporto al reale; sono essi stessi anticipazione del reale, e non lasciano perciò alcuno spazio ad alcun tipo di anticipazione finzionale; sono immanenti, e non lasciano perciò alcuno spazio ad alcun tipo di trascendenza immaginaria. Il campo che si apre è quello della simulazione in senso cibernetico, cioè quello della manipolazione in tutte le direzioni di questi modelli (scenari, messe in opera di situazioni simulate, ecc.): ma allora nulla più distingue queste operazioni dalla gestione e dalla stessa operazione del reale: non è più finzione”20. Non c’è utopia. E, per restare nel campo della fantascienza, tutto ciò ha dei padri, di cui non c’è più lo spazio per parlare, qui, ma che non si può fare a meno di ricordare, ripromettendoci di parlarne quanto meritano in futuro: Philip K. Dick e James G. Ballard.
Nota 9: AA.VV. Domani andrà meglio, cit., introduzione
Nota 10: Cfr. Michel Foucault, Le parole e le cose,  Rizzoli, Milano 1967.
Nota 11: Darko Suvin, La Fantascienza e il “Novum”, cit. p. 7.
Nota 12: I racconti scritti da donne che descrivono società  esclusivamente femminili meriterebbero più lunga trattazione. Io mi limito a questo breve accenno, visto che è preannunciato, per il prossimo fascicolo di Un’Ambigua Utopia, un contributo collettivo di alcune compagne.
Nota 13: Cfr. V. Curtoni, G. Lippi, Guida alla fantascienza, Gammalibri, Milano 1978, pp. 133-137; e anche V. Curtoni, Succede nella SF, editoriale di Robot n. 27 (1978).
Nota 14: L. Serra, I fantastici tempi del combustibile liquido, in: La banca della memoria, Il meglio della fantascienza nel 1976, Robot n. 30, 1978.
Nota 15: Ibid, p. 48
Nota 16: Ibid, p. 186
Nota 17 La raccolta più ricca è quella pubblicata in Urania: Thoma M. Disch, La signora degli scarafaggi, Urania 750, e La stanza vuota, Urania 752 (1978) da cui sono tratti tutti i racconti citati qui.
Nota 18: Cfr. Jean Baudrillard, L’implosione del senso nei media e l’implosione sociale nelle masse, in AUT AUT n. 169, gennaio-febbraio 1979, anche, di Baudrillard,  All’ombra della maggioranza silenziosa, ovvero la morte del sociale, Cappelli, Bologna, 1978.
Nota 19: Raphael A. Lafferty: Strani fatti, (antologia), Robot n. 31, 1978.

Nota 20: Jean Baudrillard, Simulacres et science-fiction, intervento al convegno di Palermo, cicl. P.2 (traduzione nostra; anche l’intervento di Baudrillard dovrebbe essere compreso nel volume degli atti del convegno).

(Pubblicato in Un'Ambigua Utopia n. 2 marzo-aprile 1979)