mercoledì 25 settembre 2019

The Last Avant-Garde


Una doverosa segnalazione: per le edizioni Mimesis è uscito un volume (purtroppo solo in lingua inglese) sulle riviste alternative degli anni Settanta The Last Avant-Garde. Alternative and Anti-Establishment Reviews (1970-1979) a cura di Andrea Chiurato. Principalmente incentrato sulle riviste francesi e italiane dedica per quest’ultime un intero capitolo alla fantascienza italiana The Inner Space of Utopia. Italian Science Fiction Magazines, scritto dallo stesso curatore.
Aver dedicato un intero capitolo a un settore culturale che ai tempi ebbe un riscontro nel movimento antagonista solo a partire da quell’esperimento, unico nel suo genere, che fu il collettivo di Un’Ambigua Utopia, con la sua omonima rivista, significa aver colto il vero senso della rivolta giovanile di quegli anni. Proprio da quello specifico angolo di visuale si può avere uno sguardo capace di superare quell’angusta visione di una rivoluzione che si voleva vedere a tutti i costi divisa tra politica e culturale. La fantascienza, che come sostenuto da Ballard è stata la vera letteratura del Novecento, è anche la chiave per capire l’intimo significato di quella rivolta. Non una presa del potere per l’ennesima utopia, pronta a convertirsi in distopia, ma una presa di potere sui vari possibili che la realtà ci offre affinché il mondo non sia più governato solo da ciò che ci vogliono far credere unico plausibile.
Ecco che insieme alle altre, più o meno famose e consacrate, riviste anti-establishment, Un’Ambigua Utopia (nata come ciclostilato in una sede politica extraparlamentare per poi diventare una rivista vera e propria) acquista il proprio posto di rivista militante in quella storia che molti vorrebbero finita ma che, per dirla con Primo Moroni, conserva un vero e proprio “giacimento minerario” che pur avendo esaurito il suo filone aurifero principale  potrebbe conservare nelle vene parallele “molti materiali assai preziosi che si sono trascurati e altri, chissà dove, impareggiabilmente ancora più preziosi”. Questo libro ha messo in evidenza che ancora oggi si può cercarli e, forse, anche trarne maggior profitto di allora.
Giuliano Spagnul

martedì 24 settembre 2019

Antonio Caronia: Un'Ambigua Utopia nel fiume della finzione


(Linus settembre 1981)

Quanto bisogna prenderla sul serio, questa fantascienza, e quanto riderci sopra? Fate bene a diffidare di domande di questo tipo, perché la stessa cosa si può domandare (retoricamente) della letteratura in generale. Se ci siamo permessi di porla, è proprio perché crediamo che la fantascienza sia quasi l’unico modo possibile di scrivere oggi, come abbiamo sostenuto in sedi più o meno serie di questa. E anche perché da poche settimane si trova in libreria un testo singolarmente in sintonia con la domanda in questione: Il labirinto magico di Philip J. Farmer (ed. Nord) che altro non è se non la attesissima conclusione del suo famoso ‘ciclo del fiume’, uno dei pochi titoli degni di nota in un anno fantascientifico abbastanza deludente, insieme magari con l’antologia, Il mondo di P. J. Farmer, edito sempre dalla Nord. Farmer è un autore che, se vi azzardate a dargli tanta corda così, e mostrate di prendere sul serio quello che dice, non ve lo togliete più di torno: e rischiate di fare la fine del signor Pergameno, prefatore di entrambi i libri citati, il quale, preso dalla lodevole intenzione di ‘nobilitare’ la fantascienza e di dimostrare il suo ‘valore filosofico’, vaga non molto a suo agio fra mito e antropologia per riproporre la visione, un po’ consunta del Farmer “oppositore della morale convenzionale”, “dotato di spirito vivace e dissacrante”, e via banalizzando. Il fatto è che Farmer ci porta continuamente fuori strada. Prendete per esempio questa frase, da La voce del sonar nell’appendice vermiforme (nella già citata antologia): “La vita non è un racconto di fantascienza, dove tutto viene spiegato all fine in modo essenziale e stucchevole”. Guardatevi dal prenderla alla lettera: Farmer l’ha messa lì per suggerirci una visione del rapporto tra vita e arte, forse, ma se pensate al contesto in cui è inserita, vi accorgete che essa fa parte di un racconto di fantascienza in cui alla fine non viene spiegato nulla, se non un’ipotesi – in apparenza stravagante, probabilmente sostenibile quanto altre, - sul segreto ultimo della vita. La stessa cosa accade per questo famoso ‘ciclo del fiume’, che Il labirinto magico conclude in modo degno e, si potrebbe azzardare, geniale. Il disegno dell’opera è noto ai lettori dei tre precedenti volumi: tutta l’umanità, dai primi pitecantropi giù giù fino al 2000 e rotti d.C., si risveglia dalla morte su un pianeta percorso ad anello da un fiume; i più inquieti tentano di scoprire il segreto di questa resurrezione collettiva, e scoprono che una razza misteriosa, gli Etici, in possesso di una tecnologia raffinatissima, sono in grado di resuscitare qualunque persona catturandone il wathan, che è una sorta di versione elettromagnetica dell’anima, e duplicandone il corpo all’infinito. Ma a quale scopo? Quest’ultimo volume scioglie enigmi e interrogativi posti nei tre volumi precedenti, soprattutto nel terzo densissimo Il grande disegno. Sarebbe facile, anche qui, interpretare il tutto come la rappresentazione di una gigantesca ricerca sul significato ultimo della vita e della morte (e infatti anche in questo caso, Pergameno c’è cascato). Ma questo come sempre, è solo l’involucro: nessuno può pensare che Farmer creda veramente a pasticci sul wathan, la registrazione della personalità, e via dicendo. Questa è la forma, avvincente perché giocata sul ritmo della accelerazione e decelerazione degli eventi avventurosi, di una ‘narrazione’ sul corpo e sul suo statuto: naturalità o artificialità? Ecco il nostro corpo, dice Farmer, può benissimo essere una creazione artificiale e la storia può ripetersi all’infinito, in infiniti modelli e con infinite variazioni. Proprio perché Farmer, come dicono sensatamente Fabozzi e Fucile in un loro articolo su Alfabeta di questi giorni, è il Borges della letteratura popolare, cioè esibisce la stessa libidine classificatoria, lo stesso gioco di specchi tra i vari modelli di finzione, ma con un riferimento ai libri e alle opere del passato molto più ‘da consumatore’ dell’argentino, tutti i temi mitologici e linguistici necessari allo sviluppo di questo discorso sul corpo artificiale vengono qui mediati dalla tecnologia e dalle convenzioni del genere fantascientifico. Per la stessa ragione non vi racconteremo gli scioglimenti degli enigmi di questo gigantesco universo di simulazione che è il  mondo del fiume (la suspense ha i suoi diritti). Vi diremo solo che il vero nume tutelare di questo ciclo, in ombra ma presente nei libri precedenti e sfolgorante nella kermesse finale di quest’ultimo, è un reverendo/logico/fotografo inglese della seconda metà dell’Ottocento: Charles L. Dogson, più noto a noi come Lewis Carroll. E, se ci pensate bene, non poteva essere altrimenti.

sabato 7 settembre 2019

Oreste del Buono - Recensione "Nei labirinti della fantascienza"



Scaffale della fantascienza (Corriere della Sera 13.1.1980)

Libri sulla fantascienza (…) continuano a uscirne, ma quello che segnaliamo oggi è abbastanza unico. Si tratta, infatti, di un saggio, anzi di un insieme di saggi, utile oltre che suggestivo. Lo pubblica Feltrinelli nell’Universale Economica, consta di 250 pagine, costa 3.500 lire. Il titolo suona “Nei labirinti della fantascienza”, e il sottotitolo specifica “guida critica a cura del Collettivo ‘Un’Ambigua Utopia’”. Il programma è chiarito subito. I collettivisti che hanno  curato la guida (Marco Abate, Silvano Barbesti, Patrizia Brambilla, Antonio Caronia, Roberto Del Piano, Piero Fiorili, Giuliano Spagnul), affermano, ad apertura del libro, che la loro non è una piccola enciclopedia della fantascienza completa di nomi e date, elenchi dei premi e bibliografie, dedicata esclusivamente ai lettori specializzati che si credono già in grado di destreggiarsi per conto proprio nella selva di autori, tendenze, collane, novità e ristampe. “Noi, invece, nel preparare questa guida, abbiamo avuto l’occhio a un pubblico diverso: non gli appassionati in senso stretto, i cosiddetti “fan”, già sin troppo enciclopedici, spesso per conto loro, e altrettanto spesso impermeabili a ogni discorso che non si attenga rigorosamente all’oggetto delle loro brame, ma i lettori occasionali, gli spettatori una tantum di “Guerre stellari” o “Incontri ravvicinati del terzo tipo” o anche lettori e spettatori più sistematici non comunque distratti e frettolosi. Coloro fra questi che vogliono fermarsi un attimo, capire meglio le ragioni per cui qualche libro o film di fantascienza abbia suscitato in loro una riflessione o comunicato un’emozione meno epidermica del solito…”. Il programma è avvincentemente rispettato. “Nei labirinti della fantascienza” contiene le meditazioni generali, ma non sempre monotonamente convergenti dei vari componenti del collettivo, ma anche (ed è il punto di forza della guida) 140 proposte di lettura di opere e autori rilevanti. Proposte faziose per scelta e svolgimento, ma, per chiarezza e capacità di coinvolgimento, irresistibili.

mercoledì 17 luglio 2019

Antonio Caronia: Torcibudella




Dilaga ormai nel cinema horror un robusto e realistico compiacimento nella rappresentazione del disfacimento della carne. Dai primi, timidi zombi di Romero, ancora riservati nell’esibizione del proprio pus, siamo passati ai lupi mannari americani di John Landis, generosi in fistole e occhiaie verminose, per finire al mosto burlone e squartatore di Nightmare – Dal profondo della notte di Wes Craven, che non scherza neppure lui quanto a putredine e schifo. Sensibilità e morbosità di tipo anglosassone, o magari nordica se volete, mi sono sempre detto. Mi sono dovuto ricredere leggendo la mole di documenti che presenta Piero Camporesi nel suo ultimo libro Le officine dei sensi. Quanto a precisione e accanimento nella descrizione dei processi di putrefazione i nostri predicatori del Seicento e Settecento danno dei punti a tutto il romanzo gotico: “Il ventre così giallo e gonfio comincia a squarciarsi e a dare qua uno scoppio e là una rottura: dalle quali ne sbocca fuori una lenta lava di marciume e di schifezze in cui a pezzi e a bocconi quella carne nera e maciosa galleggia e nuota”. ( È una predica quaresimale del 1752, e mi fermo qui perché non so se state leggendo dopo pranzo). Questo libro di Camporesi (un professore di letteratura italiana che leggendo Artusi si è reso conto di quante cose si potessero tirar fuori dalla letteratura “minore” e ha deciso di coniugare la sua straordinaria erudizione letteraria alla conoscenza e all’amore per le tradizioni popolari e le “culture materiali”), questo libro, dicevo, si può leggere proprio come un libro dell’orrore, o come una fiaba. Non c’è soltanto la considerazione del corpo dell’uomo come centro di una cultura, quella tardomiedevale e poi controriformistica e insomma moderna. Attraverso la mediazione dei sensi umani (vista, udito, olfatto) vengono ricostruiti dei sistemi simbolici, delle figure, come la mela e il formaggio, apparentemente naturali, in realtà elementi di mediazioni fra l’uomo e il mondo. Camporesi  si ferma meno sulle culture preindustriali (quella pastorale e quella contadina) alle quali, si sente, va una sua nostalgica preferenza, e preferisce invece addentrarsi nelle dissezioni dei cadaveri e dei corpi vivi degli anatomisti rinascimentali e moderni, nelle diete equilibrate dei monaci, in quelle deprivanti, al limite dell’anoressia, degli anacoreti tebaici e poi dei gesuiti. Per ricostruire le pratiche su cui si è fondato, forse anche il nostro immaginario contemporaneo. È il corpo dell’uomo, come abbiamo visto, al centro dell’indagine minuziosa e affascinante di Camporesi, anche nella ”ferocia” delle automortificazioni “quale soltanto un’intellettuale può permettersi di sfogare su se stesso”, come appunto nella pratica di Sant’Ignazio. Le condizioni materiali e il rapporto col divino sono cambiati, da allora a oggi, non c’è dubbio, eppure il nostro immaginario si nutre, ancora oggi, dell’attrazione/repulsione morbosa che proviamo di fronte alle infinite possibilità della crudeltà.

(Linus ottobre 1985)

venerdì 12 luglio 2019

Antonio Caronia : Un'Ambigua utopia nella città viva





Diceva Paolo fabbri al convegno ferrarese su “Città e metropoli” dell’ottobre scorso che la città è un fenomeno immaginario: nel senso che, come tutti avete capito, lo spazio fisico cittadino, l’agglomerato delle case, delle strade e delle piazze è il luogo di percorsi e traiettorie che non solo noi compiamo, quotidianamente e eccezionalmente, ma che proprio ci definiscono. Noi cittadini siamo, cioè, i nostri percorsi, le nostre fermate, il nostro girovagare nella città. La quale, proprio per questo, non è unica: in quelli che a noi sembrano gli stessi spazi convivono una città diurna e una notturna, una città degli adulti e una degli adolescenti, e così via. È chiaro, diceva sempre Fabbri in quell’occasione, che ci occorrono nuovi modi di organizzare e di pensare questo spazio, e questi modi, secondo lui, già in parte esistono: sono, per esempio, strutture ben note ai matematici, come reticoli, spazi fibrati, topologie, concetti sui quali, per le note carenze delle nostre capacità divulgative, non ci fermeremo neppure un attimo. Si potrebbe, volendo, fare addirittura un passo più in là di Fabbri, e dire che la città, proprio in quanto rete di percorsi individuali e collettivi, non è solo una metafora del sapere contemporaneo, ma tende in qualche modo ad identificarsi con esso. Ipotesi tanto più suggestiva quanto più avanza, anche nello spazio urbano e metropolitano, la presenza “organizzatrice” e pervadente del calcolatore (nell’organizzazione del traffico, dei servizi e così via). Da dove poteva venirci l’immagine più viva (in senso letterale, come vedremo) di questa città, se non dalla fantascienza? Riprendendo un’abitudine ben consolidata fra gli scrittori di fs (e che ha prodotto, per fare solo un esempio, gli straordinari affreschi di città di Delany in Babel 17, Nova, Dhalgreen e Triton), John Shirley, autore delle ultime leve, ci dà il suo ritratto di città in City Come A-Walkin’, tempestivamente tradotto in Italia presso Mondadori (Il rock della città vivente, Urania 902 del 4 ottobre 1981). (…) Shirley, con procedimento tipicamente fantascientifico, decide di uccidere un’altra metafora e trasformarla in identità. La città contemporanea, con la sua organizzazione sempre più computerizzata, coi suoi flussi di persone, veicoli e informazioni, con i suoi “organi di senso” (televisori e telefoni) assomiglia sempre più a un organismo vivente? Niente affatto, essa è viva in senso proprio, può addirittura incarnarsi in una persona, e condurre una lotta contro le nuove mafie dei computer che essa giudica corpi estranei dentro di sé. Nessuna meraviglia che in uno scenario del genere il linguaggio più stuzzicante sia quello della musica e del nuovo genere metropolitano, l’”angoscia rock”; ma neppure ci stupisce che Shirley denunci esplicitamente il suo debito verso precedenti cantori della città come i classici della hard-boilled school poliziesca. Non a caso, infatti, la città del romanzo è San Francisco, e l’impianto narrativo deve molto alla detective story. L’aspetto più interessante del romanzo sono comunque i percorsi, frammentati e più volte intersecantisi, dei due protagonisti, in una città in cui tutto è mescolato, le ragioni e i torti, la realtà e l’utopia, il progetto e il quotidiano. Certo, non è una novità: il viaggio e la rappresentazione della città sono due costanti della narrativa di fantascienza, con la quale essa paga i suoi debiti ad una delle sue progenitrici, la narrativa utopistica. Ma a quali mediocri risultati costringa una stanca ripetizione dei moduli del viaggio utopico è dimostrato da una delle ultime opere di Ursula Le Guin, The Eye of the Heron (L’occhio dell’airone1, pezzo forte dell’antologia Millennial Women, uscita in USA nel 1978 dalla Delacorte Press. (…) Al suo centro il viaggio, lo scambio, fra due diverse città (quella autoritaria e maschilista e quella utopica, non-violenta); ma nonostante gli sforzi il risultato di I reietti dell’altro pianeta non si ripete, e siamo di fronte a una delle produzioni più deboli della scrittrice dell’Oregon. La quale, come dimostra invece il risultato di The Beginning Piace (da poco tradotto in italiano: La soglia, (Editrice Nord, 1981) sembra recentemente trovarsi più a suo agio nell’universo della favola, sia pure costantemente riferito e confrontato con la realtà contemporanea.
  1. Ursula Le Guin, L’occhio dell’airone,  Elèuthera, Milano 1998
( Linus dicembre 1981)