1. Dentro il movimento, non dentro il fandom
Il primo numero di Un'ambigua utopia uscì nel dicembre del
1977. Il nono e ultimo nel maggio del 1982. Il nome della rivista era
una citazione del sottotitolo di uno dei più noti romanzi di fantascienza "politica",
da poco arrivato in Italia, The
Dispossessed, di Ursula K. Le Guin1. An Ambiguous Utopia diceva bene, così ci sembrava, la nostra condizione
di freschi esuli da un'esperienza politica
drammaticamente (per alcuni traumaticamente) conclusa quanto alle forme e ai
modi dell'impegno, ma per nulla messa in soffitta quanto alle ragioni della
ribellione e a una persistente volontà di sovversione.
In quei cinque anni alcuni di noi salvarono se stessi, non certo da una crisi
che restava profonda e pesante, ma forse da suoi possibili esiti ancora più
rovinosi e destabilizzanti: lo facemmo
realizzando una delle più singolari esperienze culturali e politiche uscite dal cosiddetto
"movimento del 77”2. Cronologicamente, infatti, I'attività di Un'ambigua utopia è totalmente posteriore a quel movimento (che si può considerare concluso
con il convegno nazionale sulla repressione del
22, 23 e 24 settembre 1977 a Bologna3); ma I'atteggiamento del collettivo, le tematiche e lo
stile della rivista, dei convegni e delle azioni, i referenti materiali e culturali, le preoccupazioni
intellettuali e politiche che animavano il nostro agire, tutto insomma,
riporta al terremoto che gli
eventi e le pratiche del 77 avevano introdotto nel movimento, e che in quegli anni si riassumeva nella
formula "crisi della militanza".
A esperienza conclusa, col passare
degli anni e con le episodiche rievocazioni che alcuni dei protagonisti e dei testimoni
andavano facendo (e che si possono leggere nella ristampa della rivista4), si è forse
stratificata la convinzione che Un'ambigua
utopia sia stato un fenomeno interno al mondo della fs italiana,
un'escrescenza (bizzarra o sensata, da esecrare o da esaltare) del ristretto mondo
degli appassionati di quel genere letterario. Secondo questa percezione
I'obbiettivo fondamentale della nostra azione
(sicuramente animata da intenzioni politiche, senza dubbio intenzionata a introdurre nella
fantascienza chiavi di lettura sociali o ideologiche) sarebbe stato però quello
di creare una specie di “fandom di
sinistra”; forse introducendo una distinzione tra una "fantascienza di
destra" e una di sinistra, oppure, ancora più radicalmente ma
insensatamente, contrapponendo una fs globalmente
considerata "di sinistra" ad altri generi (per esempio il fantasy o l'horror)
considerati geneticamente e inguaribilmente di destra. Solo Giuliano Spagnul,
fra chi
intervenne in quei dibattiti, è
stato sempre chiarissimo e non ha mai dato adito a questo equivoco. Può darsi invece che anche chi
scrive, inconsapevolmente, vi abbia contribuito. Questa sede mi pare singolarmente
adatta, quindi, per (eventualmente) rettificare, e dichiarare in modo, spero, definitivo
che questa lettura di Un'ambigua utopia
è totalmente sbagliata, mistificante e fuorviante, e non trova fondamento né nei
documenti scritti che abbiamo prodotto né nell’ insieme delle nostre azioni politiche
e culturali - come vedremo fa breve. Noi non fummo dei fan di sinistra.
Scegliemmo la fs come pretesto (in senso letterale: pre-testo), come occasione,
come grimaldello, per affermare una serie di tematiche teoriche e politiche; prediligemmo
la fs perché, geneticamente, quel genere era non solo, come scrisse Ballard,
"la letteratura tipica di una società industriale”, ma anche perché era la
letteratura del possibile, I'erede - tanto nella letteratura “alta” come in
quella popolare - dell'utopia, e consentiva dunque meglio di altre di trattare,
di scandagliare i temi che ci interessavano: le trasformazioni della società, i
progetti di vita alternativi, gli scontri fra le classi, la distribuzione dei
poteri, i sogni e i bisogni degli oppressi e il cinico realismo degli
oppressori. Ma mai, in nessun momento, fummo interessati a promuovere una
"fantascienza di sinistra”, e in fondo neanche una “lettura di sinistra”
della fs; mai ci ponemmo come obbiettivo di destabilizzare il fandom, le riviste
di fs o I'editoria di fs. Che marcissero nel loro brodo. Nell’editoriale del
n.1 della rivista tutto questo è scritto a chiare lettere, addirittura maiuscole:
Non vogliamo
allargare, far crescere, propagandare la fantascienza.
VOGLIAMO DISTRUGGERLA.
Nel senso che
vogliamo rompere questo involucro, questo contenitore che si chiama
fantascienza,
e dimostrare
che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro che quello che si trova
fuori.
(…)
Se
l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può
soltanto sognare e non praticare.5
Pratica dell'obbiettivo, pratica
dell'utopia. sarà pure stata una formulazione rigida e ingenua, ma non li
sentite gli echi degli slogan del 77? Dei volantini dei circoli dei
proletariato giovanile? Non la vedete I'assonanza con le pagine di A/traverso,
la sintonia con le trasmissioni di Radio Alice? È ovvio, poi, che avere scelto
questa chiave di lettura, questo pre-testo, ci portasse a frequentare anche il
mondo del fandom, degli appassionati: lì c'era chi poteva cogliere al volo le
trame dei romanzi di Asimov, le situazioni di Sheckley, i riferimenti a Le Guin,
i costumi di Guerre stellari, e
questo ci evitava di fare il riassunto, ci permetteva di andare al punto più
rapidamente. Ma non volevamo discutere di fs, neanche con loro. Volevamo parlare
di lotte, di bisogni materiali, di rivoluzione. Sapevamo a priori che gran parte
di quel pubblico sarebbe stato sordo, se non ostile, al nostro discorso: ma ci
interessavano quelle due, tre, dieci persone, potenzialmente interessate - e ne
trovavamo ogni volta ben di più, a Milano e in tutta Italia. Fra il 1978 e il
1980 si costituirono collettivi di un'ambigua utopia a Genova (con Claudio
Asciuti e Nico Gallo), a Roma e a Napoli6, e c'erano contatti in
varie altre città, da Bologna a Ferrara a Udine. Anche la rubrica delle lettere
della rivista è interessante, al riguardo. Giancarlo Bulgarelli, che nella
prima fase fu la figura di riferimento del collettivo, a ogni riunione leggeva
la posta e rispondeva sulla rivista. Certo, ci furono le proteste per la stroncatura
di Lovecraft, ma la maggioranza di quelli che scrissero, anche a quel riguardo,
lo fece sollevando i temi di una nuova critica sociale, del rapporto fra
ideologie e pratica rivoluzionaria, del superamento dell'ordine borghese.
Se andiamo a enumerare le iniziative
pubbliche del collettivo, le prese di parola in pubblico, vediamo che quelle
dedicate alla fs in quanto tale furono una netta minoranza. In cinque anni,
partecipammo in modo organizzato a tre soli appuntamenti, a tre convention
“ufficiali”, nazionali o internazionali, di appassionati di fs: lo SFIR
(Science Fiction Italian Roundabout) di Ferrara il 2 e 3 giugno 1978, la Seacon
di Brighton del 1979 (con ben scarsi risultati), e soprattutto l’Eurocon di
Stresa del maggio1980. E se a Brighton fummo presenti solo con un banchetto
della rivista, senza organizzare nulla di alterativo, nelle altre due occasioni
agimmo seguendo l’impostazione che ci era propria: utilizzare la fs per
sollevare, anche ln quelle sedi, problemi più ampi e ben diversi. L'incursione
a Ferrara fu la nostra prima uscita pubblica, e fu quindi l’occasione per una
presentazione generale del collettivo, o poco più – sempre però, accompagnata
da una contestazione e da una messa in ridicolo dei riti paludati e pomposi
delle associazioni tradizionali. A Stresa arrivammo dopo due anni e mezzo di
attività, con le idee più chiare e un lavoro preventivo di contatti e di
organizzazione che ci permise di avere una presenza ben più incisiva - e che amplificò
la nostra partecipazione a livello mediatico in modo significativo (due articoli
sulle pagine nazionali cultura di Repubblica).
Ma questo avvenne perché, sin dall'inizio, rifiutammo di farci intrappolare
nelle liturgie rigide e precostituite del convegno. Seguimmo, certo, anche le
conferenze ufficiali, discutemmo con Alfred Bester e John Brunner (ospiti
d'onore), con Spagnoletti e Pagetti. Ma ci concentrammo su due linee:
contestazione e sbeffeggiamento del programma ufficiale, e promozione di una serie
di "assemblee generali" non previste dal calendario della convention.
Sul primo fronte, quindi, disturbammo la conferenza di Alex Voglino (piccola
star emergente, allora, della critica fantascientifica di destra) passeggiando
per la sala in cinque o sei persone, inverosimilmente truccate, e fermandoci a
fissare, in assoluto silenzio, i (pochi) ascoltatori; trasformammo la
premiazione (ci era stato assegnato il terzo premio per le riviste) in una
sarabanda, facendo del papiro ufficiale che ci era stato consegnato un aeroplano
di carta lanciato tra il pubblico, accompagnato da altri corpi non contundenti
come rotoli di carta igienica. Sull'altro versante, presentammo una performance
autonoma di Claudio Asciuti ispirata a Lovecraft, efficace sul piano
dell'orrore (lancio di vermi tra il pubblico); e nelle assemblee autoconvocate
sottraemmo al programma ufficiale quasi meta dei delegati alla convention, per discutere
di iniziative concrete sull'editoria, di autorganizzazione, di solidarietà ai
dissidenti sovietici.7
2. La fantascienza come lettura del conflitto sociale
Certo, a Stresa arrivavamo anche
sull'onda di un piccolo caso editoriale. Nel novembre del 1979 era uscito per
Feltrinelli (Universale economica) Nei
labirinti della fantascienza. Guida
critica a cura del collettivo “Un’ambigua utopia”, ultima fra le pubblicazioni dello
stesso tipo apparse fra il1977 e il 1979 a cura dei principali
esperti del settore (Curtoni, Lippi, Montanari, Cremaschi). La fs era arrivata nelle librerie, in
Italia all'inizio degli anni 1970, e a metà del decennio aveva conosciuto un piccolo boom: le varie “guide
alla fs” erano una ovvia conseguenza di quel boom. Fu Goffredo Fofi, che allora collaborava con
Feltrinelli, a proporci I'idea del libro, che all'inizio ci spaventò un poco, forse, ma che accettammo poi con
entusiasmo. Alla fine del 1980 Nel labirinti della fantascienza aveva venduto circa 10.000 copie,
esaurendo in pratica la tiratura (non venne pero ristampato). Credo si sia trattato del
risultato migliore (azzarderei di tutti i tempi) per un libro di critica della
fs
in Italia. È indiscutibile che
anche questa iniziativa vada conteggiata nel capitolo “fantascienza” delle attività di Un'ambigua utopia. Marco Abate, Renato Aquilani,
Silvano Barbesti, Patrizia Brambilla, Roberto Del Piano,
Piero Fiorili, Giuliano Spagnul e chi scrive si dedicarono alla selezione di circa 140 titoli e
alla stesura delle relative schede che, insieme con una introduzione di chi scrive (“Incarnazioni
dell'immaginario”) e alcune appendici sull'editoria e la critica (curate da Barbesti, Fiorili e Spagnul),
costituirono il volume. Ma anche in questo caso la nostra cifra fu chiara: ci tenevamo a distinguere
il nostro lavoro dalle altre guide consimili allora in circolazione, e a dichiarare un'intenzione
diversa, non fittiziamente neutrale, ma apertamente partigiana e al servizio di un discorso per nulla
interno al settore. Nella "Avvertenza" che apre il volume scrivevamo:
[Al pubblico]
non offriamo una enciclopedia o una guida onnicomprensiva, ma una proposta di lettura della
fantascienza, come tutte le proposte
unilaterale, o, se si preferiscono parole più forti, settaria. (...) Essa fa
perno su un'idea di fondo: che la fantascienza sia fra i generi di narrativa
popolare, quello che strutturalmente si presta più di altri a riflettere, rielaborare,
restituirci, le contraddizioni della nostra vita pubblica e privata, le
aspirazioni, le tensioni, gli incubi che percorrono il tessuto sociale
e le storie personali di ognuno di noi.8
Nell'introduzione si parlava, certo, di
fs, ma si cercava di descrivere il processo che aveva portato alcuni autori e alcune
tendenze, fra gli anni 1960 e 1970, a una maggiore consapevolezza e una maggiore
apertura alle influenze del sociale, con un discorso più articolato e avvertito
sulla natura del potere, e una
embrionale riflessione sulle forme linguistiche. I nomi erano già allora, nel 1979, quelli che sarebbero rimasti
al centro di questo dibattito sino a oggi: Philip K. Dick, James G. Ballard, Samuel R. Delany - e il
nume tutelare che aveva acceso due anni prima in quasi tutti noi la scintilla dell'intuizione di un
uso politico della fs, e che aveva suggerito il nome del collettivo (Ursula Le Guin) cominciava ad
affievolirsi e a spostarsi in secondo piano. Sulla scorta di Baudrillard (che, è inutile
negarlo, rappresentò per alcuni di noi l'influenza più rilevante di quegli anni), si individuava il tratto
più caratteristico di questa "nuova fantascienza" in una diversa
visione
dei rapporti fra “reale” e
“immaginario”:
Proprio perché
la distanza fra immaginario e reale è abolita, proprio perché siamo immersi in
un universo iperreale, la nuova fantascienza può fornirci strumenti cosi fini
di rappresentazione e di critica della realtà. Non è più la vecchia dialettica
fra utopia e antiutopia, fra letteratura apologetica (impegnata a descriverci i
paradisi della tecnologia, della produzione, della libera iniziativa, della
frontiera, della bontà o del socialismo) e letteratura di denuncia dei “nuovi
inferni”. La scrittura della nuova fantascienza, piuttosto, è impegnata in
operazioni di destrutturazione del reale, di esplorazione di nuovi codici
comunicativi, in un universo che la crisi e la scomposizione del linguaggio
tiene costantemente aperto.9
Mimetizzate in forme apparentemente più
neutre, al fondo ci sono le nostre preoccupazioni di sempre, c'è la richiesta
(certo ingenua, e ancora dogmatica, in fondo) che la fs ci dica una “verità” sulla società che ci era
sinora sfuggita, nella pesantezza e nella rigidità dei marxismi in cui si era invischiata la nostra
formazione, e che avevano dato una così misera prova, alla resa dei conti. C’è
anche I'intuizione - non più di una confusa intuizione, certo - che in una
letteratura si possa trovare meglio che in altri luoghi culturali un antidoto
alla mortifera separazione fra strategia e tattica, fra universalità e totalità
(totalitarismo?) della teoria, e parzialità e concretezza (miseria?) della pratica. E tanto meglio,
forse, se quella letteratura è una letteratura di consumo, fangosa, poco
“nobile”, attraversata da esigenze di comunicazione immediata, capace anche di
giocare con
modelli sensazionalistici e “di
cassetta”. Il finale di quell'introduzione, riletto a trent'anni di
distanza, si rivela allora forse
ciò di cui allora non potevamo essere consapevoli, e cioè un appello disperato alle nostre risorse di
narrazione e di affabulazione perché ci preparassero a un passaggio difficile e
periglioso, ci traghettassero da una forma del conflitto sociale che (lo
sapevamo confusamente, ma lo sapevamo) era ormai esaurita, a un'altra, che
ancora non sapevamo vedere – e meno che mai eravamo in grado di prevedere:
Sappiamo, certo,
che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei libri. Ma se rifiutiamo alla
scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è
dell'utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo
alla comprensione di quello che siamo, all'elaborazione di altre forme di
socialità, di altri codici di comunicazione, di qualche nuova modesta teoria
locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono accidentati e,
inevitabilmente,
ambigui.10
Ma, se facciamo eccezione per il raid a
Stresa, tutte le altre nostre maggiori iniziative si
svolsero al di fuori dell'angusto
mondo della fs: vennero concepite, oltre che nelle stanze delle nostre case, in sedi di movimento
come i centri sociali (come il Centro sociale Isola), vennero organizzate in collaborazione con
altri soggetti collettivi di quel movimento (ancora centri sociali, gruppi di quartiere, altre
riviste che agivano magari in una zona intermedia fra underground e mainstream, radio libere),
vennero realizzate con l'ispirazione, i modi, le grammatiche e gli stili di iniziative di movimento. A
cominciare dalla prima, quella che ci diede, insieme ai primi tre numeri della rivista, l'iniziale
visibilità: la Prima Invasione dei Marziani, che si materializzarono a Milano il 15, 16 e 17 settembre 1978,
ebbe luogo alla cascina “La Fornace” di Via Ludovico Il Moro 127, un centro sociale occupato lungo
i Navigli, alla periferia della città, e fu tutto sommato una classica festa della sinistra di allora,
che culminò con il più classico degli strumenti di comunicazione e di pressione dei movimenti - usato e
strausato ancora oggi: un corteo. Certo, eravamo travestiti da
marziani (ma senza troppo
insistere sull'iconografia classica: i costumi e le maschere puntavano a realizzare esseri alieni dei tipi
più diversi – bellissimi, li realizzò il Centro sociale di Santa Marta, altra classica occupazione di
quegli anni a Milano), gridavamo slogan come "Fuori i marziani dalle galere", suonavamo musica
pazza e cacofonica (era il collettivo Nuove Esperienze di Eresia Musicale). Ma non facemmo altro
che camminare lungo i Navigli, sino a Porta Ticinese, volantinando i passanti e
scandendo parole d'ordine. Come tutti i cortei. L'invasione dei marziani dimostra
che avevamo individuato sin dall'inizio uno spazio specifico per la nostra azione,
che venne definito nell'editoriale del n. 3 la "pratica fantastica del quotidiano". In
quell'articolo, dopo una critica un po' sommaria dei due “modelli” di festa prevalenti nel movimento in quel
periodo (quello dei gruppi della sinistra rivoluzionaria e quello di Re Nudo e dei circoli giovanili)
avanzavamo una proposta, forse confusa, ma che dimostrava la consapevolezza di una dimensione
poco esplorata, appunto, dell'azione politica. Citiamo:
A questa
effimera e pietosa figura, a questo superuomo grottesco e solo, noi
contrapponiamo
il mutante,
cioè colui che collettivamente, insieme ai suoi simili, si adopera per
riscoprire il
fantastico nel
quotidiano e nella realtà. Lentamente ma realmente la sua vita si trasforma
tramite la
gioia di vivere, la capacità di rapportarsi agli altri, il godimento, I'amore e
il gioco.
(…)
Se la festa è
I'unico momento di liberazione, rimane uno strumento congeniale al sistema
produttivo del
capitale. Occorre invece che la festa travalichi i suoi confini riversandosi in
momenti e modi
diversi di liberazione.11
Queste furono le premesse della Prima
Invasione dei Marziani, che naturalmente Un'ambigua
utopia non concepì come realizzazione di un modello già bello e pronto, ma
come I'avvio di un dibattito nel movimento su questa tematica. Se ci credevamo
davvero (e non saprei dire che cosa ognuno di noi si aspettasse dal nostro
appello) restammo delusi. Quel dibattito non ci fu, ovviamente, alla festa, né
in nessuna altra sede, perché non poteva esserci. Era il residuo, nelle nostre
teste, di un modello politico che ci sembrava (o speravamo) di avere
abbandonato, ma che lavorava ancora, sotterraneo e
inconsapevole: priorità alle pratiche, sì, ma incanalate in un bel dibattito! (anche se non c'era
più nessun comitato centrale a tirare le fila). Lo riconoscemmo francamente nel resoconto della
festa pubblicato nel numero successivo12, ma ci rendemmo anche conto (indubbiamente in modo
molto confuso e quasi inconsapevole) che una risposta c'era stata, che il nostro appello non era
caduto nel vuoto. Certo, in una forma diversa da quella che ci aspettavamo: la risposta era
l'interesse che cresceva intorno alle nostre iniziative, sia da parte dei media che di gruppetti e singoli
in varie parti d'Italia. La risposta era che avevamo intravisto (con
molta confusione e molta
ingenuità, lo ripeto) un terreno nuovo di azione politica, e cioè quello dell’immaginario e della cultura,
e una modalità che, nel disfacimento dell'iniziativa politica organizzata tradizionale a sinistra,
offriva qualche possibilità - obliqua, laterale e ”ambigua”, ma non priva di efficacia. Pressioni
interne ed esterne per limitare la nostra azione al mondo della fs ce ne
furono, ma in generale il collettivo non si fece convincere ad abbandonare la
visione più generale da cui era partito, l'ancoraggio alle tematiche e al mondo
dei movimenti radicali di ribellione. Uno degli interventi di maggior peso in
questo senso venne da Mauro Miglieruolo, un giovane autore di fantascienza di
Roma che, salutando con interesse (e anche con entusiasmo) la nascita di un
gruppo di “comunisti, nel senso forte del termine, che hanno voglia di svolgere
un ruolo culturale nella fs”, proponeva però che la nostra azione si
concentrasse all'interno del mondo della fs e degli appassionati, per “contrastare
con tutti i mezzi nelle teste di tutti, i condizionamenti ideologici che il
resto del mondo fantascientifico conduce sfacciatamente, ma per vie interne. Si
tratta in sostanza di rendere un servizio all'intero mondo fantascientifico.”13
Non era affatto un intervento qualunquistico o estraneo alla nostra
ispirazione: Miglieruolo ricorreva ad Althusser per argomentare la sua proposta, e poneva
con una certa chiarezza una serie di questioni sul ruolo del marxismo nel lavoro culturale, ma
proponeva in conclusione come compito centrale di Un'ambigua utopia “la produzione di una teoria sulla fs e lo stimolo per una nuova fs, fuori
dagli schemi rovinosi del realismo
socialista". I punti di riferimento e le argomentazioni erano largamente condivise nel collettivo, ma le
conclusioni non convinsero molti di noi. Non credevamo che il nostro compito principale dovesse
limitarsi allo “stimolo per una nuova fs”. E se la creazione di una teoria della fs poteva anche starci
(ma c'erano già personaggi come Suvin e Pagetti impegnati in quel compito), sarebbe stata solo
il sottoprodotto di un'azione più ampia. Nella proposta di Miglieruolo leggevamo la sopravvivenza
di una vecchia visione dell'autonomia della cultura, di tipo, per così dire,
francofortese, ancora prigioniera di una compartimentazione e di una separazione
fra cultura e politica. Toccò a chi scrive (entrato da poco nel collettivo, in
occasione dell'Invasione dei marziani) esprimere questa posizione e quindi respingere
la proposta, con ragionamenti di questo tipo:
Un progetto di
lavoro culturale nel 1978 ha interesse per dei rivoluzionari, per chi si muove
consapevolmente
dentro un progetto sovversivo dell'attuale assetto sociale, non più perché la
cultura è un'arma
fra tante, perché I'ideologia borghese è quella dominante, o cose del
genere: ma ben
più precisamente perché il movimento
stesso ha scelto la strada della
distruzione della cultura (borghese) come teoria e
controllo del comportamento sociale, e
della costruzione di una nuova cultura come pratica e
diffusione di comportamenti
3. Gergo rivoluzionario e questione del potere
Forse qui bisogna fermarsi un attimo e
rispondere a una domanda che sorge spontanea, anche in chi quell'esperienza
l'ha vissuta dall'interno e intensamente (e che quindi sorgerà a maggior
ragione in chi non l'ha vissuta, e in specie nei più giovani): ma non si rendevano
conto, questi pazzi - ci si potrebbe chiedere - della sconfitta dei movimenti,
non capivano che I'epoca stava rapidamente cambiando di segno, che il capitale
(i capitali) stavano preparando una ristrutturazione vasta e profonda del modo
di produzione, quella che poi si sarebbe chiamata "postfordista"?
Perché persistere in un linguaggio barricadiero ("progetto sovversivo",
"distruzione della cultura" "disgregazione")? Se Illusione
e cecità ci furono, le condividemmo, in larga misura, con tutto ii movimento.
Nel settembre del 1977 il movimento, scrive Franco Berardi (Bifo), "si
sciolse". Ma "Zut/a/traverso dichiarò: la rivoluzione è finita,
abbiamo vinto."15 Il senso di questa criptica affermazione era
il riconoscimento (almeno inziale) del carattere contraddittorio e paradossale
del movimento stesso. Circa dieci anni dopo (e quindi con una riflessione
ulteriore) Bifo si espresse così:
Quel movimento
non era animato dalla volontà di dominare politicamente il corso degli
eventi, ma
piuttosto dal desiderio di mettersi in ascolto dell'epoca che sopravveniva. Lo
stesso gesto che
compie, nello stesso periodo, il movimento punk.
(…)
In un certo
senso, dunque, il movimento del 77 fu costituito su un paradosso, e questo ne
spiega la
duplicità dei toni, creativo, utopico e festoso, ma al tempo stesso disperato,
nichilista,
autodistruttivo.
Da una parte
esso affermò la legittimità etica e la possibilità sociale della ricerca e del
perseguimento
della felicita personale. Dall'altra parte, ma contemporaneamente, esso
percepì
I'ineluttabilità di una catastrofe, la fine dei valori di solidarietà del
movimento
comunista
internazionale, I'emergere di un sistema tecnologico, comunicativo, ambientale,
destinato a
pervertire i processi di trasformazione entro un nuovo modello di costrizioni.16
Il 77, insomma, come momento più alto
del movimento del rifiuto del lavoro,
dell'affermazione della
creatività e della gioia come momenti insieme individuale e collettivo, come pratica dell'utopia; e insieme
come innesco (certo inconsapevole) del processo di ristrutturazione capitalistica che proprio
partendo da quelle pratiche stava portando a un nuovo dispositivo di valorizzazione, alia creazione di
un nuovo proletariato della creatività e dell’intelligenza e alla sua espropriazione. Ma nel 1978, come
nel'79 e nell'80, non era ancora così facile riconoscere con nettezza le conseguenza di quella
duplicità. E così Un'ambigua utopia,
come tante altre situazioni più o meno organizzate, come
tanti altri compagni singoli in quegli anni, oscillò sempre fra il riconoscimento di un cambio di
passo epocale delle condizioni del conflitto sociale e della lotta politica, e l'attaccamento
disperato al mantenimento di una agibilità immediata del conflitto, all'illusione di una possibilità
di incasso immediato dell'ipoteca contenuta in quel "abbiamo vinto" proclamato da A/traverso. Senza
accorgerci che non eravamo noi i beneficiari di quella cambiale, che la rivolta del general intellect si stava interrompendo
a metà del cammino, che il gioco stava
passando di mano.
La fraseologia rivoluzionaria
ed eversiva, negli editoriali di Un'ambigua utopia, nelle dichiarazioni, nei manifesti, non
si limitò solo al 1977/78, continuo nel1979 e nel 1980, sin quasi alla fine di quell'esperienza.
Certamente, il 7 aprile del 1979, con la gigantesca decapitazione di tutta I'Autonomia operaia a opera
del teorema Calogero, con le migliaia di perquisizioni e di fermi giudiziari disinvolti (anche chi
scrive venne toccato, marginalmente, da questa caccia alle streghe), con Toni Negri, Luciano Ferrari
Bravo, Paolo Virno, e centinaia di altri militanti in galera, con la massiccia e invereconda campagna
di stampa per associare l'Autonomia operaia alle Brigate Rosse, ebbe delle
conseguenze. E, per quanto ci riguarda finì quasi inconsapevolmente per
dirottare gran parte dell'attività di Un'ambigua
utopia in direzione di un lavoro culturale, per certi versi, tradizionale.
Ancora una volta, nelle ricostruzioni della nostra storia già citate, questo
processo viene definito come una "rivoluzione" interna, o un
"cambio di direzione" (di cui mi si addebita in gran parte la
paternità), teso a "raggiungere obbiettivi seri in materia di
critica"17, o a "lanciarci nel campo della Cultura
‘alta’"18 abbandonando o ridimensionando tanto l'intervento nel
campo della fs quanto il discorso politico. Ancora una volta, le cose non
andarono affatto così. L'editoriale del primo numero della nuova serie della
rivista, uscito all’inizio del1979 (prima, quindi, dell'attacco poliziesco-giudiziario
del 7 aprile), dimostra chiaramente I'oscillazione a cui prima si accennava. Il
punto di partenza era quello, evidente, della fine del ciclo delle lotte degli
anni Sessanta. "Fine di un'esperienza, rottura, dicevamo. La generazione
del '68 sta consumando, irreversibilmente, I'esperienza della Politica."19
E la situazione politica e sociale
era descritta con un certo realismo: si riconosceva "l'indifferenza
sociale, l'accettazione del dominio quotidiano travestito da rappresentazione
oggettiva, I'adesione al copione dello Spettacolo in cui tutti (...) hanno un
ruolo", e si prendeva atto della "stabilità nuova del regime nascente
democratico pluralistico e partecipato della borghesia italiana"20
(evidentemente incarnato dai governi di solidarietà nazionale). Ma subito dopo,
con una reazione rabbiosa, non si enunciava solo una ribadita estraneità
all'esistente, ma si cercava di ridisegnare un percorso che consentisse, nelle
evidenti difficolta del presente, di non abbandonare del tutto atteggiamenti,
pratiche ed embrionalmente anche programmi, di tipo rivoluzionario - e il
tentativo era quello di agganciarci a un dibattito che allora (pareva) stava investendo
anche il movimento femminista:
La nostra
estraneità a questa società non è in discussione, è forse più forte e profonda
di
quanto fosse
prima: la nostra alterità non è in vendita. Stiamo con chi non si identifica né
con lo Stato né
con |a Società Civile, e se oggi l'esistenza di costoro, di questi strati, è
sotterranea e
clandestina, si svolge in un luogo che non ha niente a che spartire con la
rappresentazione
che imperversa (e quindi neppure con la lotta truccata tra Stato e
Terrorismo),
allora noi viviamo in questo luogo.
In un luogo
come questo il "noi" che abbiamo usato finora può, deve perdere la
sua
asessualità:
nel nostro progetto ci dovrà essere posto, anche, se non soprattutto, per un
"noi"
sessuale,
tragicamente e felicemente, un noi femminile/maschile, bisessuale. Perché il
nostro
è un progetto
più, non meno ambizioso di prima: è quello della liberazione da tutte le
oppressioni, da
quelle esterne non meno che da quelle interne, introiettate, che ci portano per
esempio a
difendere istintivamente il "femminile" o il "maschile"
predominante in ciascuno
di noi.
(…)
Un'ambigua utopia vuole
diventare sempre di più una tribuna delle diversità, dentro quel
percorso
sotterraneo di produzione di rivolte parziali, di ridefinizione di linguaggi e
di
comportamenti
che è l'unica speranza per la rifondazione di un nuovo soggetto che,
liberando se
stesso, liberi tutta I'umanità.21
Quest'ultima affermazione mostra tutti i
limiti e tutte le ambiguità di un processo di
maturazione, e le sopravvivenze
di un marxismo classico e dogmatico. Il "soggetto che, liberando se stesso, liberi tutta I'umanità,
come tutti sappiamo, la formula con cui Marx disegna il compito e il ruolo del proletariato nella
sua filosofia della storia che, rimessa con i piedi per terra quanto si vuole, sempre hegeliana rimane.
Non voglio coinvolgere oltre misura tutto il collettivo in questo percorso, e quindi forse le affermazioni
che seguono andranno riferite unicamente all'estensore materiale di quell'editoriale,
che è poi l'autore di questa rievocazione (tutti gli editoriali, sino all'ultimo - che è quello del n.
7 - sono stati sempre discussi collettivamente, ma sono sempre poi stati scritti da una persona:
così si svolge il lavoro collettivo, e noi non facevamo eccezione).
Come hanno scritto Balestrini e Moroni,
"il movimento del '77 in Italia sintetizza tutte le
differenti facce della cultura
giovanile: I'anima politica di stampo maoista, I'aggressività
guerrigliera si mescolano con il
creativismo di chiara derivazione hippy: e tutto questo finisce per sfociare nella cupa e disperata
rappresentazione del primo emergere del punk."22 Bene: quale fu
la specificità del discorso di Un'ambigua
utopia? Quale fu il timbro del nostro discorso nel panorama così sintetizzato da Balestrini e
Moroni? La nostra provenienza non era né hippy né autonoma. Venivamo in gran parte da
esperienze politiche più "tradizionali" dentro alla sinistra
rivoluzionaria degli anni precedenti: esperienze
di territorio, di sindacato, di movimenti di settore, di gruppi politici (prevalentemente
Avanguardia Operaia, e, per chi scrive, la IV Internazionale, cioè il trockismo). Il fascino che
esercitarono su di noi le pratiche e le forme espressive deI '77 fu fortissimo, e si può dire che al
nostro interno si esprimessero, in varia misura e con determinanti mediazioni individuali, un po'
tutte le "facce della cultura giovanile". Ma il mix culturale-politico
di
Un'ambigua utopia non fu, sino in fondo, né il maodadaismo di A/traverso e di Bifo, né il
neoleninismo dell'Autonomia e di
Toni Negri, né la disperazione del punk. Per quanto mi riguarda, non conoscevo quasi per nulla
Deleuze (avevo provato a leggere L'anti-Edipo,
ma il compito, allora, era superiore alle mie
forze). Ero arrivato a Foucault tramite Delany, che lo cita in Triton, ma devo sinceramente ammettere che
avevo capito pochissimo di quello che avevo letto. I miei riferimenti a lui sparsi nelle
cose che ho scritto sino alla metà degli anni 1980 (a partire da “Incarnazioni dell’immaginario")
dimostrano che tutto quello che ne avevo tratto era il discorso sulla “microfisica del potere” e quello
sulla società disciplinare (e certo in modo riduttivo) - ma non avevo affatto colto, pur avendo
letto Le parole e le cose, tutta la
sua critica demolitoria della nozione di “soggetto” (e questo
spiega le sopravvivenze marx-hegeliane in quell'editoriale). Tutto sommato, l’influenza più forte in
quegli anni la subii da Baudrillard, e questo non è forse un caso, se pensiamo che
Baudrillard, in quel panorama era l'unico che aveva alle spalle una storia “marxista", e che il suo
lavoro, almeno sino allo Scambio
simbolico e la morte, era proprio
una traduzione dell’economia politica
in termini semiotici. Così posso dire che la mediazione che trovai (anche se forse non la cercavo
consapevolmente) fu proprio quella di una specie di semiotica generalizzata come chiave di
lettura degli incipienti processi di
smaterializzazione e di trasformazione del capitalismo in
senso cognitivo. Fine della parentesi autobiografica.
4. Dalla comunicazione-guerriglia alle geometrie della simulazione
Comunque, questo fu lo spirito
con cui organizzammo tutte le nostre iniziative in quegli anni, quelle interne e ancor più quelle
esterne al mondo della fs. Utilizzando costantemente provocazioni, fake, travestimenti . paradossi
(insomma, le tecniche oggi classiche, di derivazione situazionista, della “comunicazione-guerriglia")
per esporre le nostre posizioni. Così partecipammo al convegno della cooperativa scrittori, “Il lavoro
mentale" (27-29 ottobre 1978), contestando con una nostra azione (insieme a Bifo e agli Skiantos)
I'impostazione velleitariamente alternativa, in realtà tutta interna al mondo della cultura degli organizzatori
(Balestrini, Leonetti, Fachinelli): il nostro attacco al Pci fu espresso dal palco di Piacenza con
un intervento di diversi minuti nella lingua di Vega 4, una lingua di suoni
gutturali e retrovocalizzazioni che avevamo già sperimentato all'Invasione dei
marziani. Nel 1979 organizzammo a Milano, autonomamente, la conferenza
"Fantascienza e realtà' Il caso del nucleare" (che si concluse con
I'oratore portato via a braccia da due figure con la maschera del teschio), e
il convegno "Marx/z/iana" sui rapporti tra fantascienza e movimento.
Partecipammo al convegno di Ferrara “L'Einstein perduto", della
cooperativa Charlie Chaplin. Intanto collaboravamo a rubriche di fs a Radio
popolare e sulle pagine di Lotta Continua
e Il quotidiano dei lavoratori. E
nella seconda parte dell’anno ci concentrammo sulla discussione e la stesura
del libro per Feltrinelli. Il 1980 fu l’anno della partecipazione alla
Convention di Stresa, su cui si è già detto. Intanto, però, stavamo preparando
l'apertura di una libreria, "La porta sull’ immaginario", in via
MacMahon a Milano, che ci costò (comprensibilmente) uno sforzo organizzativo e
finanziario fuori dal comune. La libreria aprì nell’autunno del 1980. Non
avevamo finanziamenti di alcun tipo e non ne chiedemmo, se non alle nostre
tasche semivuote (la libreria fu aperta, praticamente, con la liquidazione di
patrizia Brambilla, che fu anche I'anima organizzativa, culturale e lavorativa
di quell’iniziativa). In previsione di questo ci eravamo nel frattempo
trasformati in cooperativa. Il tentativo era quello di dotarci di nuovi
strumenti, più penetranti, per raggiungere sempre nuovi strati di pubblico e
animare il dibattito culturale nella sinistra. Al di là delle nostre debolezze,
come spiegammo nell’introduzione al n. 7
della rivista, uscito all’inizio del 1980, il clima creatosi con l’assassinio
di Moro nel 1978 e la repressione giudiziaria generalizzata dell'anno seguente
non era tra i più favorevoli per iniziative come la nostra.
La rivista si prese dunque una pausa di
riflessione. Dopo il primo numero del 1977, i tre del1978,i due ciascuno negli anni
1979 e 1980, nel 1981 non usci alcun numero. Quell'anno fummo impegnati, oltre che nella gestione
della libreria, solo nella collaborazione a un paio di convegni organizzati da altri (tra cui uno
sull'Apocalisse in cui organizzammo un delirante dibattito con la partecipazione di Satana, che
fini con una specie di giudizio universale e il sequestro per qualche decina di minuti di meta del
pubblico, condannato all’inferno). Per lanciare la libreria facemmo una serie di incontri-conferenze in
una biblioteca di quartiere di Milano (a Piazzale Accursio), invitando fra gli altri Darko Suvin, Paola
Manacorda, Mario Perniola. Ma soprattutto, lavorammo all'iniziativa che avrebbe dovuto
segnare il rilancio di Un'ambigua utopia, della libreria e della rivista. Si trattava di un
convegno francamente ambizioso sul tema della "simulazione". L'argomento ci sembrava
un'estensione abbastanza naturale del legame, che già avevamo individuato negli anni
precedenti, tra la fantascienza e la cosiddetta "intelligenza tecnico-scientifica"
(gergo dell'epoca): visto con gli occhi di oggi, non era altro che
un'anticipazione - forse eccessivamente lungimirante
- di quello che sarebbe scoppiato otto/dieci anni dopo, con le
realtà virtuali e più in generale
la cultura digitale. Discutemmo approfonditamente. L'apertura della libreria aveva accelerato un
movimento di ricambio nel collettivo: diversi membri fondatori se n'erano andati (tra cui Marco
Dubini, Danilo Marzorati, Gerardo Frizzati - quest'ultimo continuo però eroicamente a dare una mano
per i conti della traballante cooperativa), da ultimo anche Bulgarelli e quasi tutti i
grafici/illustratori (Michelangelo Miani e Maurizio Giannoni), ma altre persone si erano avvicinate:
giovani scienziati come Enrico Miotto, e insegnanti come Flavia De Giovanni, Cecilia Ghelli e Fernanda
Tucci. Volevamo che fosse un'iniziativa "irreprensibile" sul piano degli standard culturali
ufficiali, e così la progettammo. Non avevamo cambiato punto di riferimento strategico, ma il
livello del movimento e delle lotte era effettivamente calato, nei due
anni precedenti. Al 7 aprile del 79
era seguito I'anno dopo il licenziamento dei 300 operai FIAT, che di fatto
espelleva dalla fabbrica la reale direzione delle lotte autonome dell'ultima
parte degli anni 1970, e preparava le ristrutturazioni e le prime massicce
espulsioni di forza lavoro degli anni seguenti. E poi, i primi mesi di
attività della libreria avevano dimostrato che I'avvio era più difficoltoso di quanto avessimo
previsto (in termini di frequentatori e di incassi). Ultimo punto, ma non certo il meno importante,
sentivamo che negli anni precedenti avevamo viaggiato su un trend ascendente di popolarità, ma che
il sistema dei media (che ci aveva assicurato la maggiore visibilità) tendeva a
schiacciarci nel mondo della fantascienza, e che questo era un limite
oggettivo, invalicabile senza un colpo di
reni che ci trasferisse a un altro livello, in un altro campo - e non solo nel nostro dibattito interno.
Inutile girarci attorno. Fummo
Patrizia e io i motori di II gatto del
Cheshire (così si chiamò, alla fine, la rassegna), furono
le nostre le preoccupazioni che disegnarono l'architettura dell'iniziativa, furono in
particolare le conoscenze e le letture che io avevo accumulato nei tre anni precedenti che costruirono il
programma (con l'apporto determinante di Cecilia Ghelli e di Flavia De Giovanni). Per le conferenze
di quell'anno avevo preso contatto con Alfabeta
e in particolare con Carlo Formenti, che allora ne
era redattore. Nel settembre del 1981 avevo pubblicato il mio primo articolo su quella rivista23,
e avevo cominciato a girare per convegni e conferenze. A Mantova avevo conosciuto
Jean Baudrillard, di cui due anni prima avevo tradotto il saggio
"Simulacri e fantascienza”24, pubblicato anche su Un'ambigua utopia. Il gatto del Cheshire doveva avere una solida cornice teorica, e
con l'aiuto di Carlo ci sarebbero stati, in video o dal vivo, Alberto Abruzzese,
Franco Bolelli, Omar Calabrese, Christian Descamps, Umberto Eco, Maurizio
Ferraris, Renato Giovannoli, Gilles Lipovetsky. Per la poesia Cecilia Ghelli
avrebbe portato Tomaso Kemeny. Flavia De Giovanni ci mise in contatto con
Antonio Attisani, che avrebbe organizzato una minima ma splendida rassegna teatrale
con Ipadò, La condizione mentale, Santagata/Morganti e Il marchingegno (in
attesa di trasformarsi in Krypton). Daniele Brolli stava lavorando a una performance-video
che mi è rimasta nel cuore, Pasadena Sunrise. Gianni Ingellis ci assicurava un
role playing di Il signore degli anelli
dal vivo. La colonna sonora sarebbe stata curata da Bolelli con Saro Cosentino.
Daniela Brambilla avrebbe organizzato una rassegna su "Arte e
simulazione" davvero ampia, con opere (fra gli altri) di Bonalumi, Carmi,
Cavaliere, Isgrò, La Pietra, Mantica, Paolini, Pardi, Pericoli, Pistoletto,
Varisco. Trattavamo per avere una spettacolare rassegna di ologrammi appena
presentata a Bologna, Laserart. Era una cosa troppo grossa perché la organizzassimo
solo noi. Discutemmo il progetto con Gianni Sassi, e II gatto del Cheshire divento un'iniziativa Un'ambigua utopia/Intrapresa. Nessuno aveva i soldi per farla. Nel
pieno della progettazione decidemmo che avremmo fatto una cosa che non avevamo
mai fatto: chiedere un finanziamento a un ente pubblico, al Comune di Milano.
Era l'unico modo per realizzare la cosa. Gianni Sassi, che ne sapeva un po' più
di noi, era stato tassativo: senza i soldi pubblici, non si poteva fare.
Il bilancio preventivo, nella tarda
primavera 1981, era di 30 milioni di lire (al tasso
nominale, 15.000 euro, diciamo
30.000 reali; era escluso, ovviamente, il nostro lavoro, che non venne mai neppure conteggiato).
Nell'autunno era già arrivato a 40. Al Comune ne chiedemmo 50. Eravamo tutti fortemente dubbiosi
che ci avrebbero dato retta. Non avevamo alcun appoggio politico, nessuna raccomandazione
- semmai, se si fossero dati la briga di fare qualche ricerca, avrebbero scoperto una nostra
collocazione politica poco raccomandabile. Non so dire se Sassi abbia mosso qualche pedina. Non
mi pare. L'assessore alla cultura della giunta milanese di allora era Guido Aghina, un radicale in
quota PSI dal passato movimentista, ma che a noi si presentò con una faccia
abbastanza istituzionale. Istituzionale ma disponibile. L’iniziativa pareva
interessargli. Dopo qualche incontro ci disse: “Posso darvi 30 milioni."
Il nostro bilancio preventivo era già salito a 60. Ma era così: o prendere, o
lasciare. Nonostante I'avvallo e la collaborazione di Sassi (che fece gratis
tutta la grafica, e un bellissimo manifesto con un gatto degli anni quaranta
ubriaco davanti a un juke-box), Intrapresa
non era partner finanziario. Il finanziamento lo prendemmo noi. Anche i contratti
li firmavano noi, e le fatture le pagavamo noi (cioè non le pagavamo, perché i
soldi non c'erano). Così, dal 20 al 23 maggio 1982, negli splendidi chiostri
della Società Umanitaria a Milano, si svolse Il gatto del Cheshire. Rassegna di teorie e pratiche della simulazione.
Stampammo il n. 9 della rivista, col gatto di Sassi in copertina e
replicato all'interno, firmato Alik Cavaliere.
Alla rassegna ne vendemmo sì e no 200 copie. Il numero non andò mai in
distribuzione nelle edicole, e mi
pare neppure nelle librerie. Se non ricordo male, il biglietto era a 5.000
lire. Avemmo circa un migliaio di
visitatori.
Nell'autunno dello stesso anno Novella
Sansoni, Assessore alla cultura della Provincia di Milano, organizzò una serie di
mostre mercato sul libro di fantascienza e qualche rassegna cinematografica nelle biblioteche
della provincia. Il progetto ci venne assegnato. Fra I'ottobre 1982 e il febbraio 1983 organizzammo
cinque o sei di queste iniziative. Nel frattempo aspettavamo ancora il finanziamento del
Comune (che arrivo, mi pare, nell'estate 1983). La libreria chiuse all'inizio del 1983, e con essa
la parabola di Un'ambigua utopia. La
Milano da bere si era già saldamente installata, nelle strade e nelle coscienze.
1Ursula K. Le Guin, Quelli
di Anarres (I reietti dell'altro
pianeta), trad. it. di R. Valla Nord, Milano 1994, ed. or. 1974, prima ed.
it. 1976.
2 Non è un autoelogio: rimando ai giudizi su di noi di
Valerio Evangelisti, Primo Moroni e Bruna Miorelli, come sono
stati riportati
da Giuliano Spagnul in "Un'ambigua utopia" (Un'ambigva utopia. Fantascienza, ribellione e
radicalità negli anni 70, a cura di A. Caronia e G. Spagnul, Mimesis, Milano 2009, vol. II,
Appendice p. 20).
3 V. Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro 1968-77. Lo grande ondata
rivoluzionaria e creativa, politica ed
esistenziale,
nuova ed. a cura di Sergio Bianchi, Feltrinelli, Milano 1997 (l^ ed. Sugarco
1988), pp. 574-581.
4 Un'ambigua
utopia, cit., vol. II, Appendice.
5 “Un’ambigua utopia” n. 1 dic. 1977, p. 3, in Un’ambigua utopia, cit., vol. I.
6 Quelli di Napoli si chiamarono poi, col titolo della
loro rivista, Pianeta rosso: ma
ancora nel 5° numero di “Un’ambigua utopia” (gennaio/febbraio 1979) si firmavano “Collettivo
napoletano di Un’ambigua utopia”.
7 Una cronaca beffarda, presentata attraverso la lente
deformante dell'ossessione del terrorismo, e nella forma
paradossale di
un falso numero di Repubblica (secondo il modello del Male) si trova nel n. 8 della rivista, pp. 3 I -34
(Un'ambigua utopia, cit., vol. II).
8 Nei labirinti della fantascienza. Guida critica a
cura del collettivo “Un'ambigua utopia", Feltrinelli, Milano 1979,
pp. 5-6.
9 A. Caronia, "Incarnazioni dell’immaginario"
in Nei labirinti della fantascienza,
cit., p.29.
l0 lvi, p. 30. Per il riferimento a Foucault, e i limiti
della sua influenza su Un'ambigua utopia,
v. più avanti.
11 "Editoriale P.P.P.P.P. (Politico, Psicotico,
Programmatico, Partitico, Pitrentottista)": "Un'ambigua utopia" n. 3, estate
1978,p. 4,in Un'ambigua utopia, cit., vol. I
12 "Fuori i marziani dalle galere":
"Un'ambigua utopia" n. 4, novembre/dicembre 1978, p. 3, in Un'ambigua utopia,
cit., vol. I.
13 M.A. Miglieruolo, "Anche tu tra quegli
animali?", "Un'ambigua utopia" n. 4, novembre/dicembre 1978, p.
9, in
Un'ambigua utopia, cit., vol. I.
14 A. Caronia, "Noi diciamo che questo è un
progetto.. .", "Un'ambigua utopia" n- 4, novembre/dicembre 1
978, p.11,
in Un'ambigua utopia, cit., vol. I (il
corsivo è nel testo).
15 Franco Berardi (Bifo) Dell'innocenza. Interpretazione del settantasette, Agalev edizioni,
Bologna 1989, p. 8.
16 lvi,pp.9-10.
17 P. Fiorili, "Vita d'ambiguo", in Un'ambigua utopia, cit., vol. II,
Appendice, p. 9.
18 Ivi, p.10.
19 "Quando cambierà", "Un'ambigua utopia.
Rivista bimestrale di critica marx/z/ziana”, a. III n. 1, gennaio-febbraio
1979,p. 1, in Un'ambigua utopia, cit., vol. II.
20 Ivi, p.2.
21 lbid.
22 L'orda d'oro,
cit., p. 629
23 A.Caronia, "E naturale che sia
artificiaIe", Alfabeta n. 28,
settembre 1981, ora in: A. Caronia, Universi quasi paralleli, Cut-up edizioni,
Roma 2009, pp.24-32.
24 J.Baudrrllard, "Simulacri e fantascienza”, in La fantascienza e Ia critica. Testi del
Convegno internazionale di
Palermo, Introduzione e cura
di Luigi Russo, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 52-57.
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