La fantascienza, il futuro, il residuo
dell’immaginario
Introduzione 2012
Di Antonio Caronia,
Giuliano Spagnul
Tutto ciò che si sente e si fa accade
comunque sia «in direzione della
vita» e il più piccolo movimento in
altra direzione è difficile o inquietante.
E così anche quando semplicemente
si cammina; si solleva il punto di gravità,
lo si porta in avanti e lo si lascia cadere;
ma basta un piccolo mutamento, un
lieve timore, o anche soltanto stupore
di quel lasciarsi-cadere-nel-futuro e
non si sta più ritti!
(Robert Musil, L’uomo senza qualità)
La
fantascienza nasce negli anni 1920 sulle riviste pulp americane e muore negli
anni 1980 con il fenomeno del cyberpunk. Sintesi lapidaria della breve vita di
un genere letterario popolare. Vero, non vero, azzardato? Sgombriamo il campo
da inutili discussioni: è un’affermazione né più vera né più falsa di altre,
che pure sono possibili. A noi sembra semplicemente più utile. Se si
retrodatasse la nascita della fantascienza a Swift, o ancora più indietro a
Luciano di Samosata o ad Apuleio,
avremmo solo allargato la
frittata, ci troveremmo di fronte una specie di genere letterario sempre
esistito, che comprende tutto e niente; e in più avremmo dato la stura a una
oziosa sequela di distinguo, questo
progenitore sì, quello no, ecc. Vediamo un’altra alternativa: Scholes e
Rabkin, per esempio, propongono una data più recente, il
1818, anno di pubblicazione di Frankenstein di Mary Shelley. “Possiamo
renderci conto,” scrivono i due critici, “(…) di come Mary Shelley ha cambiato
la sua realtà proiettando nel suo stesso periodo storico una scoperta
scientifica che avrebbe potuto verificarsi un giorno. Introdusse
così un frammento di un possibile futuro nel suo stesso mondo e modificò per
sempre le possibilità della letteratura.” (1) Non c’è dubbio, è una
lettura interessante e plausibile della genesi del genere fantascientifico, ma
è troppo legata a un discorso tutto schiacciato entro il genere stesso. Un
discorso che certo nobilita e affranca, ma proprio per questo tende a
sgrossare, a cancellare tutto quello che non viene ritenuto all’altezza,
immaturo, ingenuo o addirittura ridicolo. La fantascienza che abbiamo
conosciuto noi relegava Verne al mondo dell’infanzia e Asimov alla letteratura
di svago, da treno, in uno stato di semi clandestinità o per circoli di
fanatici adoratori considerati un po’ carenti di materia grigia. Uno svago,
un’evasione, come veniva definita negli ambienti politici, militanti o
semplicemente impegnati, anche dopo la presa di posizione di Sergio Solmi, che
nel 1959 aveva messo sulla bilancia tutto il peso della sua autorevolezza di
studioso “mainstream” curando per la prestigiosa casa editrice Einaudi, con il
giovane Carlo Fruttero, un’antologia di fantascienza, Le meraviglie del
possibile: un’operazione editoriale e culturale che fece epoca..
Il
vero “sdoganamento”, però, avviene nella seconda metà degli anni 1970 ad opera
del nostro collettivo di Un’ambigua utopia, e grazie a un’attenzione e
una disponibilità nuova da parte di un movimento stanco di un grigio
militantismo e aperto a esperienze altre. Il libro che avete fra le mani è uno
dei documenti, forse uno dei più importanti, di quell’operazione. Uscito
nell’Universale economica Feltrinelli nel novembre del 1979, Nei labirinti
della fantascienza fu l’ultima fra le pubblicazioni italiane dello stesso
tipo apparse fra il 1977 e il 1979 a cura dei principali esperti del settore
(Curtoni, Lippi, Montanari, Cremaschi). La fantascienza era arrivata nelle
librerie, in Italia, all’inizio degli anni 1970, e a metà del decennio aveva
conosciuto un piccolo boom: le varie “guide alla fs” erano una ovvia
conseguenza di quel boom. Alla fine del 1980 Nei labirinti della
fantascienza aveva venduto circa 10.000 copie, esaurendo in pratica la
tiratura (e non venendo mai ristampato
prima di questa riedizione). Crediamo si sia trattato del risultato migliore
per un libro di critica della fantascienza in Italia.
Abbiamo
già chiarito in altre sedi che l’esperienza di Un’ambigua utopia non fu
prioritariamente qualcosa di “interno” al mondo della fantascienza: il
collettivo usò la fantascienza come una chiave di lettura della realtà sociale
e uno stimolo (o una riserva di immaginario) per pratiche che erano tutte
interne al movimento di quegli anni. (2) Tutto ciò emerge anche
dall’esame di questo libro, che teneva a distinguersi dalle altre guide
consimili allora in circolazione, presentando un approccio diverso, non
fittiziamente neutrale, ma apertamente partigiano e al servizio di un discorso
per nulla interno al settore. Per questo nella “Avvertenza” che apre il volume
scrivemmo: “[Al pubblico] non offriamo una enciclopedia, o una guida
onnicomprensiva, ma una proposta di lettura della fantascienza, come tutte le
proposte unilaterale, o, se si preferiscono parole più forti, settaria. (…)
Essa fa perno su un’idea di fondo: che la fantascienza sia, fra i generi di
narrativa popolare, quello che strutturalmente si presta più di altri a
riflettere, rielaborare, restituirci, le contraddizioni della nostra vita,
pubblica e privata, le aspirazioni, le tensioni, gli incubi che percorrono il
tessuto sociale e le storie personali di ognuno di noi.”
Certo,
il fine editoriale del libro era quello di fornire un quadro dell’evoluzione
della fantascienza come si presentava negli ultimi anni 1970: al centro del
discorso c’era perciò il processo che aveva portato alcuni autori e alcune
tendenze, fra gli anni 1960 e 1970, a una maggiore consapevolezza e una
maggiore apertura alle influenze del sociale, con un’attenzione più articolata e precisa alla natura del potere,
e una embrionale riflessione sulle forme linguistiche. I nomi erano già allora,
nel 1979, quelli che sarebbero rimasti al centro di questo dibattito sino a
oggi: Philip K. Dick, James G. Ballard, Samuel R. Delany – e il nume tutelare
che aveva acceso due anni prima in quasi tutti noi la scintilla dell’intuizione
di un uso politico della fs, e che aveva suggerito il nome del collettivo
(Ursula Le Guin) cominciava ad affievolirsi e a spostarsi in secondo piano.
Sulla scorta di Baudrillard (che rappresentò per alcuni di noi l’influenza più
rilevante di quegli anni), si individuava il tratto più caratteristico di
questa “nuova fantascienza” in una diversa visione dei rapporti fra “reale” e
“immaginario”. Nell’introduzione “Incarnazioni dell’immaginario” si legge:
Proprio perché la distanza fra immaginario e reale è abolita, proprio
perché siamo immersi in un universo iperreale, la nuova fantascienza può
fornirci strumenti così fini di rappresentazione e di critica della realtà. Non
è più la vecchia dialettica fra utopia e antiutopia, fra letteratura
apologetica (impegnata a descriverci i paradisi della tecnologia, della
produzione, della libera iniziativa, della frontiera, della bontà o del
socialismo) e letteratura di denuncia dei “nuovi inferni”. La scrittura della
nuova fantascienza, piuttosto, è impegnata in operazioni di destrutturazione
del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la
crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto. (3)
Ma si capisce bene che al fondo di questo discorso
ci sono le preoccupazioni sulle potenzialità esplosive della situazione sociale
e insieme sulla evidente tendenza al declino e alla sconfitta dei movimenti,
c’è la richiesta (certo ingenua, e ancora dogmatica, in fondo) che la
fantascienza ci dica una “verità” sulla società che ci era sinora sfuggita,
nella pesantezza e nella rigidità dei marxismi in cui si era invischiata la
nostra formazione, e che avevano dato una così misera prova, alla resa dei
conti. C’è anche l’intuizione – non più di una confusa intuizione, certo – che
in una letteratura si possa trovare meglio che in altri luoghi culturali un
antidoto alla mortifera separazione fra strategia e tattica, fra universalità
(o totalitarismo) della teoria, e concretezza (o miseria) della pratica. E
tanto meglio, forse, se quella letteratura è una letteratura di consumo,
fangosa, poco “nobile”, attraversata da esigenze di comunicazione immediata,
capace anche di giocare con modelli sensazionalistici e “di cassetta”. Il
finale di quell’introduzione, riletto a più di trent’anni di distanza, si
rivela forse ciò di cui allora non potevamo essere consapevoli, e cioè un
appello disperato alle nostre risorse di narrazione e di affabulazione perché ci
preparassero a un passaggio difficile e periglioso, ci traghettassero da una
forma del conflitto sociale che (lo sapevamo confusamente, ma lo sapevamo) era
ormai esaurita, a un’altra, che ancora non sapevamo vedere – e meno che mai
eravamo in grado di prevedere:
Sappiamo, certo, che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei
libri. Ma, se rifiutiamo alla scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice
ancora Foucault, che è dell’utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla
fantascienza un contributo alla comprensione di quello che siamo,
all’elaborazione di altre forme di socialità, di altri codici di comunicazione,
di qualche nuova, modesta teoria locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono
accidentati e, inevitabilmente, ambigui.(4)
La nostra esperienza
– come tutte le esperienze di quegli anni che facevano i conti con quella che
allora si chiamava “crisi della militanza” – è stata spesso etichettata come
“riflusso”. Va bene, accettiamo il termine. E perché no? un’onda deve sempre
poter tornare indietro, all’interno dove è stata generata, per poter ripartire,
per poter produrre altre onde, se mai anche anomale. Anomala è stata già la
nostra partenza, lo slogan che auspicava la distruzione della fantascienza.
Anomalo è forse adesso da parte nostra questo voler far partire un genere
letterario da un cumulo di riviste spazzatura. Ma è un’anomalia che ci permette
di capire una specificità di questo genere letterario che altrimenti andrebbe
persa, o quantomeno annacquata.
L’Ottocento,
secolo delle invenzioni, dell’entusiasmo per un progresso che si pensava
inarrestabile, prodotto di un capitalismo all’apice delle sue potenzialità,
aveva creato come scarto (come resto, per dire meglio), una letteratura
fantastica, avveniristica, che non poteva sopprimere quel tanto di inquietudine
che l’idea del progresso inevitabilmente portava dentro di sé. L’invenzione,
motore del progresso, poteva sempre rivoltarsi contro il suo inventore. La
creatura contro il suo creatore. È un rovescio della medaglia necessario, indispensabile
all’idea stessa di progresso. Michel Foucault attribuisce agli scienziati
protagonisti delle opere di Jules Verne il compito di lottare contro
l’entropia, “incessantemente contro il mondo più probabile – mondo neutro,
bianco, omogeneo, anonimo – il calcolatore (geniale, pazzo, cattivo o
distratto) permette di scoprire un fuoco ardente che assicura lo squilibrio
garantendo il mondo dalla morte.” (5) Il Novecento – e soprattutto
il Novecento vissuto nel nuovo centro del mondo, che dall’Europa si è spostato
in America – non ha più al primo posto l’idea del progresso, ma quello del
benessere; non più la macchina, l’invenzione, ma la merce, il prodotto,
un’inarrestabile produzione di merci necessaria a raggiungere l’obiettivo più
agognato dall’uomo moderno, la felicità, che solo una continua produzione di
benessere a buon mercato avrebbe potuto procurare. L’ottimismo ottocentesco per
il progresso illimitato non poteva eliminare il senso di minaccia, ben visibile
a chi dall’interno dell’acquario proustiano osservava quell’umanità derelitta
che dall’esterno stava attaccata al vetro, esclusa, priva di ogni illusione di
poter partecipare al banchetto, eppure per nulla rassegnata, anzi minacciosa.
Ma anche la novecentesca società consumistica americana aveva il suo incubo.
Essa viveva nella costante minaccia che quella fetta di paradiso che si
prometteva a tutti subito e a poco prezzo, potesse finire, esaurirsi: che il
paradiso non bastasse per tutti, era in realtà un segreto di Pulcinella. La
faccia nascosta dell’America, quella in
fila per il pane davanti a un manifesto della felice famiglia americana media,
immortalata da un celebre scatto di Margaret Bourke White (1937),
è lì a ricordarcelo.
Il progresso
perpetuo, il consumo illimitato. Due utopie che caratterizzano due diverse fasi
in due diversi luoghi di un capitalismo maturo. Paure e minacce che si
caratterizzano in modi e con tempi diversi. L’incubo delle masse, della
rivoluzione, lo spettro del comunismo per l’Europa ottocentesca (una prospettiva che di fatto genererà realtà
opposte nello sviluppo novecentesco); l’incubo della crisi, della fine della
produzione e della crescita, della recessione insomma, per il nascente impero
americano. Anche quest’ultimo, col suo capitalismo avventuriero, dinamico,
libero da lacci e lacciuoli del tipico stato nazionale europeo, produce uno
scarto, un resto, un residuo non ulteriormente lavorato, nel campo
dell’immaginario. Il vorace consumismo del capitalismo avanzato americano rende
nevrotico tutto l’immaginario ad esso più strettamente collegato, quello
inventivo, tecnico, scientifico. Certamente la fantascienza è il prodotto di
una società consumistica, ma più per il suo lato inquietante, possiamo dire
sinistro, se consideriamo il soffio di distruttività che l’idea di consumo
porta con sé. La fantascienza delle riviste pulp, così come il cinema
dell’epoca, nella sua iperbole distruttiva e profondamente anarchica espressa
dal genere slapstick, testimoniano la vera tensione soggiacente al mito
dell’eterno benessere rinnovantesi all’infinito, che si voleva spacciare alla
popolazione più ricca del pianeta. Ma far nascere lì e proprio lì la
fantascienza, indica per noi anche una sostanziale differenza tra due diversi
modi di rapportarsi al futuro. Come osservano ancora Scholes e Rabkin, “la
fantascienza ha potuto cominciare a esistere come forma letteraria solo quando
gli uomini hanno potuto concepire un futuro diverso, e precisamente un futuro
in cui nuove conoscenze, nuove scoperte, nuove avventure, nuovi mutamenti avrebbero
trasformato la vita in modo radicale rispetto ai modelli del passato e del
presente.” (6) I due
critici parlano a questo proposito di un vero e proprio future shock per tutta l’umanità. Per la fantascienza che noi
vogliamo delimitare entro il più angusto confine del xx secolo, invece, non c’è più lo shock di un futuro che
potrebbe avverarsi, ma lo shock di un futuro che avviene, che si avvera ogni
giorno. Se acquistando una macchina, una lavatrice o un altro oggetto del
desiderio, si entra di fatto nel futuro, si vive nel futuro, allora il futuro
si situa nel presente. Il futuro non potrebbe più accadere in questo o
quest’altro modo, ma accade così, in questo modo. Siamo nel futuro, non
dobbiamo più aspettarlo. È un futuro che si vive, che non si annuncia più, che
c’è. E c’è perché lo si può comprare. È anch’esso in definitiva una merce, o
meglio, una qualità della merce stessa. Sta allegato al prodotto, sua
caratteristica intrinseca. La coscienza di questo
“lasciarsi-cadere-nel-futuro”, lo stupore e il timore di vivere il futuro
invece di aspettarlo, creano un’instabilità, non più semplicemente
antientropica, come quello squilibrio di cui parlava Foucault, indispensabile a
non far morire il mondo, a non cristallizzarlo. È un’instabilità di nuovo tipo,
che pone al suo centro, nell’occhio del ciclone, un caleidoscopio che
centrifuga tutti i possibili modi di pensare, conoscere, amare, godere,
impazzire, ecc., degli abitanti della moderna società dei consumi.
Un’instabilità che lotta contro l’arresto, la paralisi. La paralisi che la
coscienza del movimento, di questo muoversi costantemente dal presente al
futuro, inevitabilmente porta con sé. Per muoversi, per spostarsi, occorre non
pensarci, altrimenti non si sta più ritti, come avvertiva Musil. La girandola
di tutti i possibili è efficace, ma può durare fino a che nella società il
senso del futuro respira ancora una certa autonomia dal presente, quando ancora
ci si può stupire. Tutto questo finisce quando il germe contenuto
nell’avverarsi continuo del futuro nel presente sboccia in un presente
perpetuo, in cui il futuro non è più distinguibile. È il presente che stiamo
vivendo adesso, in cui non è più necessario, camminando, spostare il punto di
gravità per lasciarsi cadere in avanti, nel futuro, ma in cui basta lasciarsi
scivolare. Lasciarsi trascinare dal fiume indifferenziato del tempo, di un
tempo totalmente costruito, incanalato, gestito da altri.
Ecco perchè,
se in base a queste considerazioni ci è piaciuto dare alla fantascienza quei
miserevoli natali pulp , ci piace anche considerarla, oggi, definitivamente
morta e sepolta. Non per una nobilitazione in estremo, sulla scorta della
“morte dell’arte” e di discorsi del genere, ma per ribadire il suo legame a
doppio filo con la fame di futuro che l’ha vista nascere. Con l’esaurirsi del
futuro, per effetto del suo amalgamarsi completo col presente, la fantascienza
perde la sua funzione di sentinella, di monolite ai confini dell’infinito, di
termometro della possibilità di futuro. L’idea di futuro è un’idea ormai troppo
radicale, in odore di sovversione, per poter essere tollerata nel mondo
dell’oggi perpetuo. E se il cyberpunk definisce simbolicamente un termine
plausibile del genere fantascienza, un’altra data potrebbe sancire ancor meglio
questa ipotetica fine: il 2 marzo 1982, giorno della morte di Philip K. Dick.
Che cos’è l’opera di Dick se non il rimasticamento e il rigurgito di tutta la
letteratura di fantascienza? Dick, lo scrittore che ambiva ad essere
“scrittore” e che ha dovuto ripiegare suo malgrado (per nostra fortuna) a
guadagnarsi il pane con stupidi racconti di fantascienza. In questo modo ha
rimanipolato tutto il genere senza restituire ad esso nulla, ma creando
un’opera autonoma, capace di un pensiero fecondo generatore di potenzialità ancora
tutte aperte, se non addirittura da esplorare. Dick è insomma l’autore che ha
saputo fare della fantascienza davvero una cassetta degli attrezzi, che lui
stesso ha usato e poi ha lasciato in eredità a tutti noi. Sancire la fine della
fantascienza, per noi, ha lo scopo di rendere viva la sua potenzialità
vivificante, una sorta di spray-ubik per creare realtà, per fare mondi. È
possibile discutere del prodotto filmico Avatar o della pratica dei
trapianti d’organo, senza (consapevolmente o meno) essere immersi in
quell’enorme ragnatela culturale rappresentata dai romanzi, fumetti,
pubblicità, prodotti per la tv, rotocalchi ecc. di fantascienza del secolo
scorso? Quanto hanno inciso e quanto incideranno ancora nella nostra capacità
di fare mondo, nel bene e nel male? Se “solo un individuo le cui trasformazioni
risultassero prevedibili si potrebbe considerare immortale, ” (7) lo stesso si può dire per un prodotto
culturale. La fine apre all’inizio, la morte alla vita. E infine, ancora, quale
“mondo oltre la collina” (8) possiamo oggi desiderare ancora di
immaginare se non quello di una valle che lotta contro il TAV? Giovani
(comunque), percossi ma non rassegnati.
“I ragazzi
continuavano a osservarci. Due prigionieri politici, vecchi ai loro occhi,
sporchi e laceri, sconfitti, che consumavano in silenzio il loro pasto. La
radio a transistor suonava ancora, a volume più alto. Nel vento, potevo
sentirne altre che spuntavano dovunque, in ogni parte del paese. Erano i
ragazzi, pensai, che le accendevano. I ragazzi.” (9)
______________________________________
(1). Robert Scholes,
Eric S. Rabkin, Fantascienza. Storia, scienza, visione, Pratiche, Parma
1979, pag. 15.
(2). Antonio Caronia,
Giuliano Spagnul, “Storia di una cassetta degli attrezzi”, in: Un’ambigua
utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70, a cura di A.
Caronia e G. Spagnul, Mimesis, Milano 2009, vol. I, pp. 7-10.
(3). Antonio Caronia,
“Incarnazioni dell’immaginario,” questo volume, p. **
(4) Ivi, p. **
(5). Michel Foucault,
“La tecnica narrativa di Jules Verne,” in: J. Verne, Il giro del mondo in
ottanta giorni, Einaudi, Torino 1994, pag. XII.
(6). R. Scholes, E.S.
Rabkin, op. cit., pagg. 14-15.
(7). Gilbert Simondon, L’individuazione
alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, trad. e cura di G.
Carrozzini, Mimesis / Centro internazionale insubrico, Milano/Udine 2011, vol.
I, pagg. 321-22.
(8). Alexei e Cory
Panshin, Mondi interiori, Nord, Milano 1978.
(9). Philip K. Dick, Radio
libera Albemuth, Fanucci, Roma 1996, p. 321.
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