giovedì 12 ottobre 2017

Antonio Caronia. Corpi e buchi, in Paolo Gallerani, Sculture e ambienti 1999-2009

ANTONIO CARONIA, Corpi e buchi, in Paolo Gallerani, Sculture e ambienti 1999-2009, Officina Libraria, Milano 2009, pp. 45-48, pubblicato in occasione della mostra al Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Civile, Campus Durando, Bovisa, Milano 17 febbraio - 6 marzo 2009. Ripubblicato in Paolo Gallerani, Innesti e snodi, Officina Libraria, Milano 2016, pp. 132-134, catalogo della mostra alla Fondazione Mudima, Milano 11 febbraio - 11 marzo 2016.


ANTONIO CARONIA
CORPI E BUCHI

 
Vigna Recinto, 2001 - Pietra di Vicenza, cm. 53 x 46 x 37

 Traforare la materia non la alleggerisce affatto, al contrario. Non so se questa sia un’illusione della scultura nella sua plurimillenaria contesa con la pittura, o se sia invece un altro raffinato modo degli scultori per sentirsi ancora più padroni della materia: ma non c’è niente di più pesante di un buco. Metafisicamente, intendo.

Un buco non è semplicemente un vuoto dove prima c’era un pieno. “I buchi connettono all'ambiente, in modo controfattuale, l'oggetto che li ospita,” scrivono Roberto Casati e Achille Varzi (Buchi e altre superficialità, Garzanti 1996); “essi danno origine a una serie di connessioni relazionali fra l'oggetto e ciò che può circondarlo. Se si può pensare a un buco, si deve anche poter pensare che il buco può o no essere riempito, che certe cose si muoverebbero in modi diversi solo perché il buco è presente o meno, che una cosa sarebbe inutile se non fosse per il suo buco, o addirittura che una cosa non sarebbe ciò che è senza il suo buco.” Da sempre la scultura ha a che fare con buchi, rientranze, cavità, crepe, fessure e simili. E da parecchi anni Paolo Gallerani costruisce due tipi di oggetti in pietra: negli uni, che chiama “vigne”, opera una rete complessa di scavi, producendovi un sistema di buchi e di cavità connessi tra loro in una frastagliatissima e perturbante topologia; dalla superficie di altri, che chiama in genere “urne”, fa invece emergere una serie di spunzoni, chiodi, bastoncini, filamenti sottili ma duri, anch’essi inquietanti, perché trasformano la convessità dell’oggetto di partenza, in qualche modo negandola. Due strategie apparentemente opposte (e che a volte si combinano nella stessa opera)  e producono però un risultato simile: sembrano rendere estremamente difficile, anche all’occhio, abitare quelle superficie, mettono in discussione la chiara distinzione fra interno ed esterno.
E poi, ogni tanto, nei lavori in pietra come in quelli in legno (imponenti tronchi anch’essi scavati e ricoperti di chiodi), troviamo appese una quantità di foto, cartoline, foglietti manoscritti (dallo stesso Gallerani) o a stampa. Immagine e parola: i due elementi fondamentali delle pratiche della rappresentazione nella cultura umana. Al di là del fatto che quelle foto e quelle pagine servono in prima battuta a informare lo spettatore sui punti di partenza del lavoro dell’artista (punti di partenza interni ed esterni alla storia dell’arte: ci sono anche fatti di cronaca, filosofia, poesia), la  loro presenza segnala anche un’altra intenzione, mi pare. Queste pietre traforate, questi tronchi trafitti come altrettanti santi bartolomei sembrano rivendicare una decisa (per non dire polemica) autonomia nei confronti dell’immagine. L’idillica e tradizionale tripartizione delle “belle arti” figurative (pittura, scultura, architettura) non deve trarre in inganno. Da sempre la pittura (e così le immagini tecnologiche che ne hanno raccolto l’eredità, come la fotografia) si è arrogata un posto privilegiato, paradigmatico si direbbe, nelle pratiche di rappresentazione, come quell’arte che con maggiore evidenza e “purezza” esprimeva il primato della vista sugli altri sensi, la capacità di astrarre e costruire forme e imporle alla realtà, in un trionfo della rappresentazione tanto più convincente quanto più depurava il sensorio umano dalle pratiche che ancora lo legano al corpo e alla percezione, per estrarne una modalità sempre più eterea, immateriale e “teorica” (in senso letterale ed etimologico se ricordiamo che, per i Greci, la teoria è essenzialmente una visione.) Forse fu Johann Gottfried Herder (Scritti sull’arte plastica, 1769) a contrapporre per primo la scultura alla pittura, definendo la vista “il più artificioso e filosofico tra i sensi dell’uomo”, origine di una fruizione contemplativa e passiva della “bellezza” (in tedesco Schönheit da schauen, vedere) che appiattisce la realtà.
Da Herder parte tutto un filone critico nei confronti dell’immagine che, attraverso Nietzsche, arriva sino a Benjamin e, più recentemente, a Vilém Flusser, e a cui mi sembra di poter ricollegare il lavoro di Gallerani. È una linea che rivendica l’integralità del corpo e la densità della materia contro la divisione dei sensi e la “leggerezza” dell’astrazione, l’orizzontalità contro la verticalità, l’intrecciarsi plurimo  e complesso delle relazioni contro la semplificazione senza spessore del pensiero lineare. Certo, talvolta la polemica contro il potere delle immagini si appiattisce anch’essa, e fa del “corpo” un concetto immediato e indiscusso, in una ricerca dell’“origine” che sottovaluta il sofferto lavoro linguistico che rende così peculiare e “culturale” l’esistenza e la vita di un corpo umano. Ridotto a una funzione mitica e agiografica, il corpo finisce così per incarnare un altro tipo di “purezza” non meno artificioso di quella che vorrebbe superare. Ma non mi sembra questo il caso di Gallerani, che appare invece ben cosciente della complessità del concetto di corpo e degli equivoci delle sue pratiche.
Non c’è dell’oscuro in noi perché abbiamo un corpo, ma noi abbiamo un corpo perché c’è dell’oscuro in noi”: con questo viatico di Deleuze che commenta Leibniz (G. Deleuze, La piega, Einaudi 1990) Gallerani si schiera contro la semplificazione che vorrebbe il corpo come origine, e tenta di mostrarci almeno alcuni dei processi attraverso i quali i corpi – e più in generale le materie – si costituiscono, si scompongono e si ricompongono nella complessità dell’esperienza[1]. Questo appare particolarmente chiaro nella Quercia dedicata al massacro di Beslan (l’occupazione di una scuola dell’Ossezia del Nord nel 2004 da parte di un gruppo di integralisti islamici, conclusasi con una strage dopo l’intervento delle forze speciali russe), o in altri lavori, come la Grande vigna del 2007, ma è anche all’origine, io credo, dell’utilizzo così esteso e ossessivo da parte di Gallerani della sua “strategia del traforo”, di questa pratica dello scavo frastagliato, frattale e cunicolare nella pietra e nel legno. Essa ci rimanda a una dialettica niente affatto ricomposta e ricomponibile fra continuo e discreto, a una ricerca delle lacune, delle zone che disconnettono prima di connettere, a un concezione della realtà come problema e non come dato. Il buco, nell’opera di Gallerani, segnala quanto sia illusoria la compattezza non tanto del reale, quanto della nostra esperienza di esso, e quanto equivoco sia il lavoro di analisi e di sintesi che il linguaggio opera su quell’esperienza.
Ed ecco anche perché, credo, Gallerani è rimasto così colpito e affascinato dalla tecnologia dell’immagine laser che consente di ricostruire un ambiente in un’immagine digitale tridimensionale a partire da una serie di scatti fotografici. Questo lavoro, che egli ha fatto fare nell’aula 39 di Wildt a Brera, restituisce un’immagine molto deformata e obliqua dello spazio originale, come se l’effetto di immersione che si ottiene con questa particolare tecnologia di realtà virtuale paghi necessariamente lo scotto di una lettura infedele e idiosincratica dello spazio stesso. E sempre, nella serie di immagini parziali che preparano le condizioni per la ricostruzione globale, c’è una zona oscura centrale, una lacuna, un buco, che è poi il luogo e il segno del “punto di vista” della macchina. Il segno della nuova soggettività umano-macchinica che si confronta con il mondo stravolto e reso febbricitante dallo sviluppo del capitalismo globale della conoscenza, e ciclicamente precipitato nella crisi (e da essa non redento). È quella stessa soggettività che si aggira nei buchi e nelle cavità delle vigne e degli alberi di Gallerani, che si avvolge attorno ai chiodi e ai bastoncini, alla ricerca di un senso che è costantemente promesso e mai raggiunto, illusoriamente affondato nel trionfo della vista, messa invece sotto scacco da queste frenetiche e tormentate topologie.


[1] Ndr. Il riferimento è ai sei fogli del Volume di Delfi, 2008. Sul primo e sesto foglio è trascritto il frammento di Gilles Deleuze in  La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 1990, p.139: “Io devo avere un corpo: è una necessità morale, un’’esigenza’. E per prima cosa devo avere un corpo perché c’è qualcosa di oscuro in me [...]”. 


Vigna Testa o Vigna di Brodskij, 2001
Pietra di Vicenza e pigmenti, cm. 62 x ø 34,
a destra Testa alchemica, 2001. Pietra e legno, cm. 77 x 56,7 x 28

Urne Nere, 2002 - 2007, .
Terracotta, cera, nerofumo, legno, pietra, ferro, immagini, cm. 49 x ø 45,5 e cm. ø 42 x 35

Triglifi, 2004, particolare
Legno di quercia, eucalipto, abete, vite e altre essenze, ferro, pigmenti, materiali eterogenei, immagini,
dimensioni variabili, base cm. 145 x 560 x 320

Volume di Delfi, 2008
Inchiostri e pigmenti su carta, cm. 137 x 70, particolare del sesto foglio con trascrizione del frammento di
Gilles Deleuze in La piega. Leibniz e il barocco (1988), Einaudi, Torino 1990, p. 139: "Io devo avere un corpo:
è unanecessità morale, un''esigenza'. E per prima cosa devo avere un corpo perché c'è qualcosa di oscuro in me.
Già questo primo argomento mostra la grande originalità di Leibniz. Egli non dice che solo il corpo spiega
quanto c'è di oscuro nello spirito. Al contrario, lo spirito è oscuro, il fondo dello spirito è oscuro, ed è proprio
questa natura scura che spiega ed esige il corpo. / ... Non c'è dell'oscuro in noi perché abbiamo un corpo,
ma noi abbiamo un corpo perché c'è dell'oscuro in noi: all'induzione fisica cartesiana, Leibniz sostituisce
una deduzione morale del corpo".

Quercia di Beslan, 2005 - 2007
Legno di quercia e altre essenze, acciaio, ottone, pigmenti, materiali eterogenei, immagini,
cm. 170 x 450 x 130.

Tavola di Beslan, 2004
Novantasei fotografie, stampe digitali a getto d'inchiostro, cm. 21 x 29,7 ognuna,
installazione mostra Le macchine Armate, Casa della Memoria, Milano 2016-17
BESLAN 2004. E' la raccolta di tutte le fotografie  pubblicate su 'La Repubblica' e
'Il Corriere della Sera' da giovedì 2 settembre a venerdì 9 settembre 2004. La poesia
 di Evtushenko, La scuola di Beslan, compare su 'La Repubblica' il 9 settembre
accompagnata dal testo Il perdono è impossibile.
- Il 1° settembre 2004, a Beslan in Ossezia, un commando di terroristi ceceni assalta
la scuola n° 1 nel primo giorno di lezione del nuovo anno. Milleduecento ostaggi,
bambini e donne, sono tenuti prigionieri nella palestra minata con esplosivo. Il 3
settembre le Forze Speciali russe fanno irruzione. Sono uccisi 186 bambini, i morti
 sono 400. L'irruzione avviene in modo 'disordinato e dilettantesco (La Repubblica
2.12.2005, i. n.) tanto che il Cremlino riceverà accuse per complicità nel sequestro
 e nei catastrofici soccorsi' (La Repubblica 2.9.2005, gp. v. Giampiero Vietti)

La Vigna Armata, 2007, particolare

La Vigna Armata, 2007
Pietra di Vicenza, legno di rovere e altre essenze, ferro, pigmenti, materiali eterogenei, immagini,
configurazione a misura variabile, nucleo cm.. 356 x 360 x 210.


Piccolo Carro - Macchina per manifestazioni, dal 2011 a oggi.
Carro, pietra di Vicenza, ferro, legno, pigmenti, materiali eterogenei, immagini, sistemi multimediali,
cm. 175,5 x 143,5 x 91

Laserscan. Triglifi, Quercia di Beslan, installazione Aula 39, 2005. Multimage, View MI 1 30.

Laserscan. Quercia di Beslan, Triglifi, installazione Aula 39, 2005. ModelSpace 0, View 0177.

Laserscan, Studio per città organica - Triglifi, installazione Aula 39, 2005.
ModelSpace 0, View 0174

Triglifi, sul fondo, Quercia di Beslan, Installazione Aula 47, 2007

Triglifi, 2004, particolare

NIKE, dal 2011
Carro in due elementi, FUSTO e TESTATA. Lega in alluminio e magnesio, vernici,
acciaio, ferro, materiali plastici, gomma, legno, materiali eterogenei, immagini,
sistema idraulico-oleodinamico, sistemi di sicurezza automatici. FUSTO, dimensioni
variabili, max h. cm. 275 x 700 x 220. TESTATA, cm. 98 x 225 x 108. La lunghezza
massima dei due elementi posti in orizzontale è di dieci metri.
- NIKE è un missile antimissile americano che ha fatto parte del sistema di difesa NATO.
E' acquistato come rottame di lega di alluminio e magnesio nel settembre 2011, nella
stagione immediatamente precedente la crisi in medio oriente sulla possibile esplosione
del conflitto Israele-Iran, in relazione al programma nucleare iraniano, che da novembre
raggiunge la massima tensione.

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