ANTONIO CARONIA, Corpi e buchi, in Paolo Gallerani, Sculture e ambienti 1999-2009, Officina Libraria, Milano 2009, pp. 45-48, pubblicato in occasione
della mostra al Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Civile, Campus
Durando, Bovisa, Milano 17 febbraio - 6 marzo 2009. Ripubblicato in Paolo Gallerani, Innesti e snodi, Officina Libraria, Milano 2016, pp. 132-134, catalogo della mostra
alla Fondazione Mudima, Milano 11 febbraio - 11 marzo 2016.
ANTONIO CARONIA
CORPI E BUCHI
Un buco non è semplicemente un vuoto dove
prima c’era un pieno. “I buchi
connettono all'ambiente, in modo controfattuale, l'oggetto che li ospita,”
scrivono Roberto Casati e Achille Varzi (Buchi e altre superficialità,
Garzanti 1996); “essi danno origine a una serie di connessioni relazionali fra
l'oggetto e ciò che può circondarlo. Se si può pensare a un buco, si deve anche
poter pensare che il buco può o no essere riempito, che certe cose si muoverebbero
in modi diversi solo perché il buco è presente o meno, che una cosa sarebbe
inutile se non fosse per il suo buco, o addirittura che una cosa non sarebbe
ciò che è senza il suo buco.” Da sempre la scultura ha a che fare con buchi,
rientranze, cavità, crepe, fessure e simili. E da
parecchi anni Paolo Gallerani costruisce due tipi di oggetti in pietra: negli
uni, che chiama “vigne”, opera una rete complessa di scavi, producendovi un
sistema di buchi e di cavità connessi tra loro in una frastagliatissima e
perturbante topologia; dalla superficie di altri, che chiama in genere “urne”,
fa invece emergere una serie di spunzoni, chiodi, bastoncini, filamenti sottili
ma duri, anch’essi inquietanti, perché trasformano la convessità dell’oggetto
di partenza, in qualche modo negandola. Due strategie
apparentemente opposte (e che a volte si combinano nella stessa opera) e producono però un risultato simile:
sembrano rendere estremamente difficile, anche all’occhio, abitare quelle
superficie, mettono in discussione la chiara distinzione fra interno ed
esterno.
E poi, ogni tanto, nei lavori in pietra
come in quelli in legno (imponenti tronchi anch’essi scavati e ricoperti di
chiodi), troviamo appese una quantità di foto, cartoline, foglietti manoscritti
(dallo stesso Gallerani) o a stampa. Immagine e parola: i due elementi
fondamentali delle pratiche della rappresentazione nella cultura umana. Al di
là del fatto che quelle foto e quelle pagine servono in prima battuta a
informare lo spettatore sui punti di partenza del lavoro dell’artista (punti di
partenza interni ed esterni alla storia dell’arte: ci sono anche fatti di
cronaca, filosofia, poesia), la loro
presenza segnala anche un’altra intenzione, mi pare. Queste pietre traforate,
questi tronchi trafitti come altrettanti santi bartolomei sembrano rivendicare
una decisa (per non dire polemica) autonomia nei confronti dell’immagine.
L’idillica e tradizionale tripartizione delle “belle arti” figurative (pittura,
scultura, architettura) non deve trarre in inganno. Da sempre la pittura (e
così le immagini tecnologiche che ne hanno raccolto l’eredità, come la
fotografia) si è arrogata un posto privilegiato, paradigmatico si direbbe,
nelle pratiche di rappresentazione, come quell’arte che con maggiore evidenza e
“purezza” esprimeva il primato della vista sugli altri sensi, la capacità di
astrarre e costruire forme e imporle alla realtà, in un trionfo della
rappresentazione tanto più convincente quanto più depurava il sensorio umano
dalle pratiche che ancora lo legano al corpo e alla percezione, per estrarne
una modalità sempre più eterea, immateriale e “teorica” (in senso letterale ed
etimologico se ricordiamo che, per i Greci, la teoria è essenzialmente una visione.)
Forse fu Johann Gottfried Herder (Scritti sull’arte plastica, 1769) a
contrapporre per primo la scultura alla pittura, definendo la vista “il più
artificioso e filosofico tra i sensi dell’uomo”, origine di una fruizione
contemplativa e passiva della “bellezza” (in tedesco Schönheit da schauen,
vedere) che appiattisce la realtà.
Da Herder parte tutto un filone critico
nei confronti dell’immagine che, attraverso Nietzsche, arriva sino a Benjamin
e, più recentemente, a Vilém Flusser, e a cui mi sembra di poter ricollegare il
lavoro di Gallerani. È una linea che rivendica l’integralità del corpo e la
densità della materia contro la divisione dei sensi e la “leggerezza”
dell’astrazione, l’orizzontalità contro la verticalità, l’intrecciarsi
plurimo e complesso delle relazioni
contro la semplificazione senza spessore del pensiero lineare. Certo, talvolta
la polemica contro il potere delle immagini si appiattisce anch’essa, e fa del
“corpo” un concetto immediato e indiscusso, in una ricerca dell’“origine” che
sottovaluta il sofferto lavoro linguistico che rende così peculiare e
“culturale” l’esistenza e la vita di un corpo umano. Ridotto a una funzione
mitica e agiografica, il corpo finisce così per incarnare un altro tipo di
“purezza” non meno artificioso di quella che vorrebbe superare. Ma non mi
sembra questo il caso di Gallerani, che appare invece ben cosciente della
complessità del concetto di corpo e degli equivoci delle sue pratiche.
“Non c’è dell’oscuro in noi perché abbiamo un corpo, ma noi abbiamo un
corpo perché c’è dell’oscuro in noi”: con questo viatico di Deleuze che
commenta Leibniz (G. Deleuze, La piega,
Einaudi 1990) Gallerani si schiera contro la semplificazione che vorrebbe il
corpo come origine, e tenta di mostrarci almeno alcuni dei processi attraverso
i quali i corpi – e più in generale le materie – si costituiscono, si
scompongono e si ricompongono nella complessità dell’esperienza. Questo appare particolarmente chiaro nella Quercia dedicata al
massacro di Beslan (l’occupazione di una scuola dell’Ossezia del Nord nel 2004
da parte di un gruppo di integralisti islamici, conclusasi con una strage dopo
l’intervento delle forze speciali russe), o in altri lavori, come la Grande
vigna del 2007, ma è anche all’origine, io credo, dell’utilizzo così esteso e
ossessivo da parte di Gallerani della sua “strategia del traforo”, di questa
pratica dello scavo frastagliato, frattale e cunicolare nella pietra e nel
legno. Essa ci rimanda a una dialettica niente affatto ricomposta e
ricomponibile fra continuo e discreto, a una ricerca delle lacune, delle zone
che disconnettono prima di connettere, a un concezione della realtà come
problema e non come dato. Il buco, nell’opera di Gallerani, segnala quanto sia
illusoria la compattezza non tanto del reale, quanto della nostra
esperienza di esso, e quanto equivoco sia il lavoro di analisi e di sintesi che
il linguaggio opera su quell’esperienza.
Ed
ecco anche perché, credo, Gallerani è rimasto così colpito e affascinato dalla
tecnologia dell’immagine laser che consente di ricostruire un ambiente in
un’immagine digitale tridimensionale a partire da una serie di scatti
fotografici. Questo lavoro, che egli ha fatto fare nell’aula 39 di Wildt a
Brera, restituisce un’immagine molto deformata e obliqua dello spazio
originale, come se l’effetto di immersione che si ottiene con questa particolare
tecnologia di realtà virtuale paghi necessariamente lo scotto di una lettura
infedele e idiosincratica dello spazio stesso. E sempre, nella serie di
immagini parziali che preparano le condizioni per la ricostruzione globale, c’è
una zona oscura centrale, una lacuna, un buco, che è poi il luogo e il segno
del “punto di vista” della macchina. Il segno della nuova soggettività
umano-macchinica che si confronta con il mondo stravolto e reso febbricitante
dallo sviluppo del capitalismo globale della conoscenza, e ciclicamente
precipitato nella crisi (e da essa non redento). È quella stessa soggettività
che si aggira nei buchi e nelle cavità delle vigne e degli alberi di Gallerani,
che si avvolge attorno ai chiodi e ai bastoncini, alla ricerca di un senso che
è costantemente promesso e mai raggiunto, illusoriamente affondato nel trionfo
della vista, messa invece sotto scacco da queste frenetiche e tormentate
topologie.
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