Molta dell’attività intellettuale di Antonio Caronia
è stata spesa nella difficile arte dell’insegnamento1 e in rete, per
fortuna, si possono trovare gran parte degli audio delle sue lezioni all’Accademia
di Belle Arti di Brera.2 Da
parte di amici, colleghi e studenti si è spesso auspicata la possibilità di una
loro trascrizione e traduzione in un apposito libro per poi inevitabilmente
constatarne una loro quasi completa intraducibilità dovuta al modo di argomentare,
alle numerose digressioni e in definitiva all’impossibilità di costruirne un
testo coerente e fedele al contempo senza la necessaria supervisione
dell’autore stesso. Nel tentativo di
lavorare su una singola lezione (e solo sulla prima parte) mi sono trovato
spesso di fronte alla tentazione di rinunciare. Andando avanti nella
trascrizione mi sono chiesto in quale misura fosse possibile districarsi tra
tante interruzioni, salti, esitazioni fino a che, arrivati a un certo punto il
racconto si scioglie, si alza di tono e diventa più sicuro. È il punto,
evidentemente, a cui, Antonio, voleva, sperava di arrivare. Più che una tesi
predefinita, da scodellare qui, si tratta di una tesi che si fa nell’arco del
discorso, che si verifica nel suo farsi racconto. Un modo diverso, forse poco
ortodosso, di insegnare. Ai suoi ex-studenti
e a chi si accinge ad ascoltarlo negli audio il giudizio su quanto sia
stato, e lo sia ancora, utile, interessante o meno. Per quanto mi riguarda, in
questo tentativo di lavorare sullo scritto, ho capito che era necessario a mia
volta essere poco ortodosso e allora invece di una pedissequa trascrizione, del
resto impossibile, ho deciso di assumermi la responsabilità di tagliare,
incollare, modificare cercando di tradire comunque il meno possibile ma al
contempo di rendere al meglio la coerenza del suo discorso. In ogni caso a far
fede su quanto detto nella realtà da Antonio Caronia rimane l’audio originale a
cui è doveroso rimandare: https://archive.org/details/LezioniComunicazioneBreraCaronia2012/5Lezione_23_01_2012-1.wav Nella parte finale mi sono permesso di
interloquire e anche di contestare le conclusioni a cui pervengono sia Antonio
che gli autori del libro in oggetto. Non potendo più Antonio rispondermi
confido in chi vorrà, su un tema così importante, intervenire con critiche o
ulteriori apporti.
Giuliano Spagnul
Nota 1: sull’idea che Antonio aveva
dell’insegnamento vedi: http://un-ambigua-utopia.blogspot.it/2015/07/nuvole-marziane-di-antonio-caronia-il.html
Nota 2: Purtroppo non ci sono quelle tenute alla
NABA ad eccezione del seminario su Foucault
https://archive.org/details/MichelFoucault_PerUnaGenealogiaDelSoggetto
Per chiudere le varie discussioni sul
linguaggio ci occupiamo oggi di una questione che vedremo non è così bizzarra e
strana come la pongono Antonino Pennisi e Alessandra Falzone nel loro libro Il prezzo del linguaggio uscito lo
scorso anno (2010) dal Mulino in Italia. Questo libro riprende, come altri
libri pubblicati in questo periodo, un dibattito che va molto in profondità
sulla genesi del linguaggio, sulla base biologica del linguaggio e anche sulle
conseguenze del carattere linguistico degli esseri umani per gli esseri umani
stessi, per noi insomma, per la specie homo sapiens. I due autori insegnano
filosofia del linguaggio e psicobiologia del linguaggio all’università di
Messina. Il loro libro mi sembra, apparentemente, il più sconvolgente dal punto
di vista delle implicazioni. Noi siamo
una specie animale su questo pianeta, se parliamo è evidente che parliamo in
virtù di una certa attrezzatura biologica che ci consente di parlare, quindi
che ci consente di emettere dei suoni sufficientemente articolati,
differenziati e distinguibili da poter funzionare come base di un sistema di
espressione e di comunicazione. Questa è una caratteristica particolare
sicuramente specifica degli esseri umani, siamo l’unica specie animale che
parla, ma perché parliamo? Da dove viene? Qual è l’origine di questo
linguaggio? È evidente che dev’essere un prodotto dell’evoluzione naturale come
in ogni specie animale in questo pianeta. I principi fondamentali sui quali si
basa l’evoluzione, formulata per la prima volta da Charles Darwin nel 1861,
quando è uscita “L’origine della specie”, sono che i cambiamenti e le
trasformazioni nelle specie animali avvengono per una serie di mutazioni
casuali in alcuni individui nelle singole specie, e poi la pressione
dell’ambiente fa si che fra queste mutazioni quelle che si dimostrano, a
posteriori (non a priori) naturalmente, più adatte si trasmettono da una generazione all’altra.
Perché? Perché se queste mutazioni creano negli individui che ne sono affetti
una maggiore possibilità di procurarsi del cibo, e una maggior possibilità di
accoppiarsi tra esseri di sesso diverso della stessa specie, questi individui
portatori di queste mutazioni saranno avvantaggiati rispetto a quelli che ne
sono privi nella “lotta” per la sopravvivenza. Non è una lotta cosciente, però
se queste persone mangiano meglio degli altri e si riproducono più degli altri
evidentemente hanno più possibilità di altri di trasmettere alla propria
progenie le stesse mutazioni di cui il loro corredo genetico è provvisto. Tutto
lì. Ad un certo punto succede che quando queste mutazioni si accumulano e diventano
tali da configurare un individuo anche di poco diverso dai suoi conspecifici, (cioè
da quelli che fanno parte della sua specie) ecco che abbiamo il meccanismo per
cui nascono delle nuove specie. Questo meccanismo, questo dispositivo (questa è
la selezione naturale) avviene, ribadiamolo, per mutazioni casuali e pressioni
ambientali. I tempi che occorrono perché si sviluppi un tale dispositivo e si vedano gli effetti
sono, evidentemente lunghissimi. Le
specie nascono per effetti di processi che durano milioni di anni, da pochi
milioni a decine di milioni di anni. Ora, quali sono gli organi del linguaggio
e che cos’è che consente agli uomini di parlare? Sono due cose: sono una
particolare conformazione di quelli che si chiamano organi vocali, cioè degli strumenti
di produzione del suono che consentono a noi umani di produrre una gamma di
suoni più varia, più vasta di quella dei nostri più prossimi parenti. Quindi come punto di partenza c’è una
configurazione molto specifica degli organi vocali del nostro corpo; questa
configurazione specifica consta di 3 elementi fondamentali (forse sono di più,
ma io ne vedo tre) il primo è l’abbassamento della laringe rispetto alla
faringe, cioè l’abbassamento dell’ingresso del canale respiratorio rispetto
all’ ingresso dell’apparato digerente che si trovano tutti e due nella parte
inferiore della testa, fra la testa e il collo. Ora normalmente in tutti i
primati (o in quasi tutti) la laringe è più alta rispetto alla faringe ed è più
arretrata. La prima condizione che consente noi di parlare è proprio che la
laringe sia più bassa, questo amplia un po’ di più la cavità orale, cioè la
cavità dalla quale si formano i suoni. I suoni si formano con un’emissione
dell’aria, all’interno vengono fatti risuonare nella cavità orale poi vengono
emessi, espulsi tramite la bocca. Il secondo elemento sono le corde vocali,
cioè questa specie di ispessimenti del tratto sottofaringeo che con la loro
vibrazione sono (anche se non gli unici) i principale responsabili del suono.
Ci sono queste due protuberanze molto forti, che non hanno gli altri primati e
vibrano con l’aria che gli passa in mezzo. E terzo una più ampia gamma di
muscolatura facciale. Il maggior numero di muscoli facciali che noi abbiamo,
sempre rispetto ai nostri parenti più prossimi, gli altri primati superiori
(che un tempo si chiamavano scimmie antropomorfe, cioè gorilla, scimpanzé,
oranghi). Noi abbiamo una muscolatura facciale più ricca che ci consente di
fare più movimenti. Questo implica una maggiore espressività , ma soprattutto una possibilità di conformare la forma
interna della cavità orale più fine di quella degli altri primati. Tutto questo
però non sarebbe sufficiente da solo. Se io parlo con il mio cane o col mio
gatto, nonostante che tutti i proprietari di cani e gatti siano convinti del
contrario, in realtà loro non capiscono nulla del significato di quel che dico.
Capiscono l’intenzione, capiscono dal loro punto di vista quello che possono
capire ma non capiscono il linguaggio. Perché non lo capiscono? Perché la seconda
grande e forse più importante componente
del linguaggio sta nel cervello, non sta negli organi vocali. Sta nel
fatto che noi abbiamo uno sviluppo della
neocorteccia, cioè dello strato più esteriore delle cellule cerebrali, che
anche gli altri primati possiedono in parte, ma non così sviluppata. Noi abbiamo dal doppio al
triplo della capacità cranica di uno scimpanzé.
Abbiamo molto più spazio dentro al cranio e questo semplice fatto
implica che la neocorteccia (la zona più esterna) è molto più sviluppata e
dentro di essa si sono create delle zone dedicate che ricevono gli impulsi
sonori, tramite le orecchie che sono dei rivelatori di suoni molto fini,
riescono a percepire ampiezze, frequenze dei vari suoni e poi nel cervello, che
è una centralina, o più centraline (perché ci sono molte aree del linguaggio,
destinate alla comprensione del suono) vengono decodificati da questo, che
entro certi limiti potremmo definire un software cerebrale. Un modo di
funzionamento delle cellule, dei neuroni attraverso i quali noi riconosciamo i
suoni, quindi siamo in grado di leggere
esattamente le sequenze dei suoni, se io ho detto
e-sat-ta-men-te-le-se-quen-ze-di-suo-ni, il cervello ha decodificato che c’è una ‘e’ poi una ‘s’
poi una ‘a’ ecc. ma questo ancora non vuol dire nulla, perché accanto a queste
zone cerebrali ce ne sono altre che danno significato a queste parole, che
riconoscono che cosa significa per noi esseri umani la sequenza di suoni e-sat-ta-men-te;
esattamente per il gatto di casa mia o per un scimpanzé non significa niente.
Per te significa qualcosa perché è una parola che hai già sentito o che puoi
riconoscere perché sai cosa vuol dire esatto; il suffisso mente attaccato a un
aggettivo forma una cosa chiamata avverbio e anche se non hai mai studiato
grammatica nella tua vita sai lo stesso che cosa vuol dire. E tutto questo da
dove deriva? Deriva da un accordo più o meno spontaneo tra i membri di una
certa specie per cui questa sequenza di suoni vogliono dire una cosa e non
un’altra. È un sistema molto duttile che si è formato col tempo, che si è
formato all’interno della lunga strada dell’evoluzione. Quindi il linguaggio è
uno tra i tanti strumenti che organizzano l’attività di un essere biologico, la
specie homo sapiens. Una strumentazione unica nel regno animale ma non tanto
unica al punto di non poter essere messa in relazione con una serie di altre
strumentazioni che hanno altre specie animali, in particolare quelle a noi più
vicine. È chiaro che l’insieme dei suoni emessi dai gorilla, da tutti i primati
e più in generale da quasi tutti i mammiferi per comunicare delle informazioni
ai propri simili, o per esprimere delle emozioni è simile al linguaggio, ha le
stesse basi, ha delle basi fisiologiche simili. Solo che questi altri animali
non avendo la laringe abbassata, non avendo la cavità orale come la nostra, non
avendo le corde vocali non sono in grado di produrre una varietà articolata di
suoni come siamo in grado noi. Ma hanno comunque la loro, quindi c’è una certa
continuità tra quei sistemi di comunicazione e di espressione animali col
linguaggio ma naturalmente c’è un salto di qualità. Cioè la doppia
articolazione, cioè il fatto che gli esseri umani non usano attribuire, se non
in casi molto specifici, dei significati ai singoli suoni ma attribuiscono
significato solo alle sequenze, solo a due o più suoni messi in fila, e questo
moltiplica, esplode, cioè fa passare da poche decine a virtualmente infinite o
comunque centinaia di migliaia, milioni, le possibilità di significati che
possono essere espressi coi suoni. È una cosa semplice ed è effetto di una
evoluzione biologica. Quindi il carattere biologico del linguaggio non può
essere messo in discussione. Liberiamoci di una cosa, il carattere biologico
del linguaggio implica che il linguaggio, il linguaggio in quanto tale, cioè la
possibilità di parlare, è una caratteristica biologica degli esseri umani, non
culturale. È la base della cultura naturalmente, ma non è esso stesso un
prodotto della cultura. Tutto il resto è un prodotto della cultura ma non la
facoltà del linguaggio. La facoltà del linguaggio è biologica e quindi in
quanto biologica è ovviamente universale per la specie. Non esiste essere umano
che non sia dotato della facoltà del linguaggio. Il fatto che il linguaggio sia
una caratteristica biologica e quindi universale, implica che il linguaggio abbia
delle caratteristiche minime, universali, descrivibili; che sia una base nella
struttura del linguaggio, non nei prerequisiti biologici. Tutto quello che noi
possiamo dire sul carattere biologico del linguaggio è che la nostra biologia
ci consente di nascere tutti con la facoltà di parlare. La seconda cosa che
possiamo chiedere, una volta che abbiamo stabilito che il linguaggio ha una
base biologica, che è la nostra dotazione biologica, sulla base di questo
potremmo finalmente smetterla di continuare a contrapporre la cultura alla
natura. Noi siamo esseri culturali, sì, certo abbiamo una particolare strategia
di adattamento all’ambiente terrestre che si chiama cultura, che si chiama linguaggio.
La cultura è la nostra biologia, potremmo dire con uno slogan. Non è che la
cultura è una dimensione extra. La cultura è il nostro modo specifico, di
specie animale di rapportarci all’ambiente. Siccome siamo animali linguistici,
siamo gli unici che abbiamo questo strumento, possiamo dire: il linguaggio
genera cultura. Ma se il linguaggio ha delle basi biologiche anche la cultura
ha delle basi biologiche. Avrà avuto ragione Levy-Strauss e gli antropologi
strutturalisti a pensare che esistessero delle strutture universali della
cultura? Non è detto, forse no, anzi probabilmente no. Il massimo che noi
possiamo dire è che siamo geneticamente e biologicamente predisposti al
linguaggio e quindi anche alla cultura. Le strutture, le forme particolari che
queste culture, come i linguaggi, hanno ricevuto storicamente, nei duecentomila
anni di vita dell’homo sapiens, non impediscono , dato che hanno una base
biologica comune, di comprendersi l’una con l’altra. Le persone che parlano
lingue diverse si possono capire perché le lingue si possono imparare. Però una
volta stabilito che il linguaggio è un organo biologico e il fatto che il
linguaggio caratterizzi l’essere umano come specie su questo pianeta implica, come sostiene il libro dei nostri due autori,
che il linguaggio è stato uno strumento, quantomeno uno dei più importanti, che
hanno assicurato la sopravvivenza della specie. Una specie che parla e che sopravvive
da duecentomila anni (sono pochi duecentocinquantamila anni, siamo appena nati
come specie sulla scala biologica, però ci siamo, siamo nati). È possibile
pensare che il linguaggio non centri niente con la nostra sopravvivenza? Il
linguaggio come la nostra posizione eretta, come le nostre caratteristiche
fisiche, come tutto l’insieme di ciò che fa di noi degli esseri umani devono
essere tutti elementi che hanno contribuito alla sopravvivenza di questa
specie. Tradizionalmente gli esseri umani hanno equivocato su cosa serva il
linguaggio, sul perché noi parliamo. Attenzione alla domanda perché, è ambigua; si
possono dare risposte diverse a seconda che siamo dentro un quadro di risposte
di tipo finalistico, teleologico, un progetto nel mondo. Il mio ‘perché
parliamo’ equivale a: qual è stata la funzione principale del linguaggio, cioè
perché il linguaggio è stato un fattore di sopravvivenza, di miglioramento
della specie umana. Ogni discorso che sia all’interno di una teoria evoluzionistica,
e quindi non creazionista (priva di finalizzazione), in cui tutto avviene per
caso fa sì che soltanto l’essere umano a posteriori, in quanto essere
linguistico, cerchi i perché, le
spiegazioni. Nessun altro animale lo fa, perché non conosciamo nessun altro
animale che abbia un sistema simbolico così sviluppato come il linguaggio. In
genere la risposta più comune alla domanda sul linguaggio, a cosa serva, è
stata (quella che ci hanno insegnato fin da piccoli) che il linguaggio serve
principalmente, prevalentemente per comunicare all’interno della specie umana,
che è esattamente l’uso che sto facendo io adesso, vi sto comunicando una serie
di contenuti, voi li state trascrivendo. Ora è chiaro che questo è sì uno degli
aspetti del linguaggio, (com’è ovvio che serva anche all’espressione). È uno
strumento molto ricco e potente di espressione delle nostre emozioni e dei nostri
sentimenti. Queste sono grossomodo le due principali risposte che sono state
date: una funzione comunicativa e una espressiva. Nessuna delle due è sbagliata
di per sé, ma da un punto di vista evoluzionistico non ci dice la cosa
fondamentale; io mi posso chiedere che cosa uno strumento così raffinato di
comunicazione intraspecifica (all’interno della specie) quali vantaggi
evolutivi ha dato a me essere umano. Un mezzo di comunicazione intraspecifico
così raffinato, eccessivo >ridondante, interviene una studentessa<
brava! RIDONDANTE. È eccessivo, è molto di più di quel che ci possa servire.
Una comunicazione intraspecifica c’è fra tutte le specie animali, nessuna
esclusa. Ma il nostro sistema di comunicazione è sovrabbondante, ridondante,
eccessivo. Non parliamo poi dell’espressività. Ma da quando in qua l’evoluzione
naturale ha tenuto in conto l’espressività, ha creato una specie perché è
espressiva? La conclusione, l’unica possibile se vogliamo rimanere all’interno
di un quadro evoluzionistico concreto è
che tutte e due queste caratteristiche ci sono ma amplificano la caratteristica
di fondo del linguaggio, cioè che il linguaggio è uno strumento cognitivo. È
uno strumento ricchissimo di cognizione del mondo, di cognizione dell’ambiente
e quindi del rapporto con l’ambiente. Caratterizza un rapporto con l’ambiente,
e questa è la nostra specificità. Se uno si chiede che cosa caratterizza un
essere umano rispetto a tutte le altre specie animali una l’abbiamo detta ed è
il linguaggio, e l’altra è che l’homo sapiens è l’unica specie su questo
pianeta che non ha una nicchia ecologica. Tutte le specie hanno un rapporto
determinato con alcuni ambienti naturali e sopravvivono e si sviluppano
soltanto in quelli. Ogni specie animale su questo pianeta è collegata a una particolare
zona, ambiente. Tutte le specie animali si adattano all’ambiente nel senso che
sviluppano le caratteristiche che gli servono per sopravvivere in
quell’ambiente, che sono molto specifiche. Noi esseri umani ci siamo, in alcune
decine di migliaia di anni, espansi su tutta l’area del pianeta; zone
tropicali, temperate, artiche, dappertutto. Ora sarebbe strano se le due
caratteristiche che ci diversificano dalle altre specie animali fossero
totalmente scollegate. Ci sarà un collegamento quindi fra la facoltà di
linguaggio e l’universalità ambientale degli esseri umani. Perché il linguaggio
implica uno sviluppo della tecnica che va molto al di là della primitivissima
tecnica che non è esclusivo patrimonio dell’homo sapiens. Le pietre le
scheggiavano anche gli australopitechi un milione e mezzo di anni fa; non siamo
gli unici che scheggiavamo pietre, è una cosa che ci è venuta dai nostri cugini
più prossimi, da quelli delle altre specie di ominidi più simili all’uomo che
allo scimpanzé, che però forse non parlavano, anche se non possiamo saperlo. Il
Neanderthal forse sì, ma anche gli altri forse avevano qualcosa di molto simile
al linguaggio. Allora primo: il linguaggio è stato ciò che ha permesso
il passaggio di una tecnica da una generazione all’altra. La tecnica non è
qualcosa che abbiamo innata, è una facoltà che si è sviluppata ad un certo
punto. Secondo: il linguaggio ha reso possibile una maggior cooperazione
tra i membri dei piccoli gruppi. Certo questo succede anche in altri animali,
ad esempio i lupi, ma negli esseri umani c’è stata la possibilità di migliorare
la collaborazione intraspecifica e inoltre la possibilità di addomesticare
altre specie. Il cane è un lupo, prima di homo sapiens non esisteva. Canis è un
lupus particolare, modificato. È il discendente di alcuni lupi che a poco a
poco si sono avvicinati a dei gruppi umani, hanno visto che questi gruppi umani
assicuravano loro l’accesso al cibo, in un modo più facile, meno faticoso.
Avanzi, pezzi di carcasse, l’uomo le buttava via o addirittura glieli offriva;
questo è stato il processo attraverso il quale, ad un certo punto, alcuni di
questi lupi hanno fatto una scelta di vicinanza all’uomo per aver un maggiore
accesso al cibo e quindi alla riproduzione rispetto agli altri lupi selvatici dando
vita così a una nuova specie. Questa collaborazione intraspecifica è un fatto
strano, particolare; non c’è nessun altro mammifero che fa un’operazione del
genere. E anche in questo pensiamo che il linguaggio non centri nulla? Il
linguaggio vuol dire la capacità di nominare, il linguaggio ti da una capacità
non solo di comunicazione e di espressione ma di concettualizzazione. È stato
soltanto perché l’uomo ha il linguaggio che qualcuno è stato in grado di
prevedere quali conseguenze poteva avere un certo comportamento, quello di
buttare dei bocconi di cibo ai lupi invece di cacciarli via. Questa è la
dimensione anticipativa, progettuale, che soltanto il linguaggio ci può dare.
Nessun altro animale progetta. I castori non progettano di costruire le dighe,
è un loro impulso vitale, non possono fare altro; è un meccanismo automatico,
istintivo. Nell’essere umano la presenza del linguaggio crea un comportamento
che va un pochino al di là dell’istinto perché consente di prevedere. È
soltanto parlando che io posso inventare e allora il linguaggio ci darebbe questa capacità di
progettare se non fosse così ridondante? È la ridondanza del linguaggio che ci
consente di progettare e non semplicemente di costruire un doppio di quello che
c’è già. Ci consente anche di parlare di ciò che non c’è ancora o di ciò che
non ci sarà mai, di ciò che ci inventiamo noi con la nostra testa, di ciò che
immaginiamo; ma tra le tante cose che ci immaginiamo qualcuna poi si può
verificare. Allora questo vuol dire (e adesso arriviamo… perché sembra tutto
bello ma c’è un risvolto negativo) che il linguaggio è stato, probabilmente, la
proprietà caratteristica degli esseri umani che ci ha consentito di non essere
più dipendenti da un ambiente ma di espanderci su tutto il pianeta, con le caratteristiche
positive e negative che ciò implica, perché facendo questo abbiamo fatto anche
una serie di guai. Abbiamo modificato o pensato di modificare il clima, abbiamo
modificato fortemente l’ambiente perché abbiamo costruito villaggi e città e
tutte queste cose le abbiamo fatte solo perché parliamo. È il linguaggio la
molla di tutte queste altre attività che sono, tutte, collegate con la nostra
facoltà di immaginare e quindi di pensare. Non è possibile pensare senza
immaginare. Tutte le ipotesi che possiamo fare sul pensiero, la coscienza… la
coscienza può anche non esserci, può essere una nostra invenzione, può essere
che noi non siamo affatto coscienti come supponiamo (la coscienza come
dimensione interiore) può essere che sia soltanto una produzione linguistica,
ma della produzione linguistica non possiamo dubitare, perché parliamo. Il modo
in cui possiamo esprimere la nostra coscienza è il linguaggio. Il linguaggio è
stato uno strumento di rapporto con l’ambiente diverso da quello delle altre
specie animali ed è quello che ci ha consentito di sfuggire al confinamento in
cui vivono tutte le altre specie animali. Un ambiente, una specie; una nicchia
ecologica, una specie; questa corrispondenza nel caso di homo sapiens non c’è,
la nostra nicchia ecologica è il pianeta, è la terra, ci siamo espansi ovunque.
Fermiamoci qua un attimo, andiamo a vedere un’altra cosa, l’organizzazione
delle specie animali in generi: la grande famiglia, poi c’è il genere, poi la
specie. Uno può dire che sono classificazioni inventate dall’uomo, però ci sono
tutta una serie di specie animali che hanno delle parentele tra loro quindi è
del tutto normale che le specie che sono più apparentate tra loro le mettiamo
insieme e facciamo i generi.
Questa è una cartina che ci fa vedere l’evoluzione
degli ominidi. Gli ominidi ad un certo punto si separano dalle polgine, che
sono gli oranghi, praticamente sei milioni di anni fa, dopo un po’ si separano
dai gorilla, dopo ancora si separano dagli scimpanzé. L’ultima separazione è
tra pan e homo, cioè tra scimpanzé e homo. Questi sono i generi: pongo,
gorilla, pan e homo. Delle specie homo, di estinte (hanno la crocetta vicino)
ce ne sono già parecchie. Quindi noi abbiamo nella famiglia degli ominidi
quattro generi, il genere pongo (gli oranghi) ha due specie, nei gorilla ci
sono altre due specie, anche nei pan ce ne sono due, di homo c’è solo homo
sapiens. È normale che ci siano così poche specie per generi? Due, due, due,
una?. No! Dicono gli studiosi che non è affatto normale. Il caso di generi nel
regno animale dotati solo di due specie è rarissimo, rappresenta poco più
dell’1% delle specie conosciute; è un’eccezione non è una regola. Addirittura
non esiste nessun’altra specie animale come homo sapiens in cui ci sia un
genere con una sola specie. Statisticamente gli studiosi di scienze
naturali ci dicono che tutte le specie che stanno in una situazione simile,
cioè tutti i generi che hanno poche specie, sono prossimi all’estinzione. Il
perché è molto semplice: perché la variabilità genetica si è ristretta e questo
non facilita la nascita di specie nuove. Le specie nuove non sono nient’altro
che degli individui delle specie vecchie che hanno accumulato un numero di
mutazioni tali, favorevoli per loro, evidentemente, che gli hanno permesso di sopravvivere.
Sono mutazioni casuali, ad un certo punto queste mutazioni sono diventate
talmente tante che hanno alterato il DNA in modo tale da rendere questo nuovo
individuo molto diverso, qualitativamente, da quello che c’era prima. È nata
così una nuova specie. Come può succedere questo? È collegato a un meccanismo
geografico, sino a che una popolazione è in un territorio abbastanza vasto
questo accumulo di mutazioni, questa varietà di geni diversi, all’interno di
una popolazione relativamente grande si perde un po’, non c’è il modo di
concentrarli, perché ce n’è uno qui, uno là, quindi non è detto che
automaticamente il fatto che queste mutazioni siano più favorevoli di altre
alla sopravvivenza creino delle condizioni per cui questi caratteri vengano regolarmente
trasmessi alle generazioni successive. Quindi perché si verifichi una
congiuntura favorevole alla trasmissione delle mutazioni occorre che per una
serie di motivi particolari, un terremoto o altro, ci sia una più o meno
ristretta area geografica in cui questi individui si trovino confinati. Se
all’interno di questa area specifica in questo piccolo gruppo si trova un numero sufficiente, non necessariamente
maggioritario, di individui portatori di queste mutazioni favorevoli, questi
avranno una possibilità di trasmettere il proprio DNA molto maggiore che non in
un gruppo più largo, perché è più probabile che si incrocino con individui che
hanno anch’essi quella mutazione. In un gruppo più vasto quella stessa
mutazione tende più facilmente a perdersi. Quindi una delle condizioni per la
speciazione (questo è il processo per la speciazione) uno dei meccanismi per la
formazione di una nuova specie è che i candidati possibili alla formazione di
nuove specie siano in una situazione di confinamento geografico. Se non c’è
questo è del tutto improbabile il formarsi di nuove specie. Adesso basta fare
un passo… homo sapiens essendosi sparso ovunque non avrà più speciazione. Homo
sapiens è l’ultima specie del genere homo, non ce ne saranno più dopo. Ci sarà
sicuramente dentro homo sapiens qualcuno che avrà qualche mutazione, casuale ma
più favorevole, ma è destinata a perdersi. Non ci sono più nella specie umana
attuale le condizioni per dare origine a una nuova specie. >Una studentessa domanda: ce n’è
bisogno?< No, non sappiamo se ce n’è bisogno o no, però di fatto
possiamo dire che homo sapiens è con gran probabilità il terminale. Ora noi
sappiamo che tutte le specie nascono e muoiono, certamente non possiamo sapere
quando homo sapiens si estinguerà, questo non lo può dire nessuno e non c’è
scritto su questo libro. Ma essere condannati all’estinzione significa dal
nostro punto di vista esaurirsi prima o poi come specie senza dare origine a
specie nuove. I dinosauri si sono estinti ma hanno dato vita agli uccelli, a un
sacco di specie successive. Noi di fatto siamo una specie terminale, non
abbiamo storia futura mentre le specie in condizioni diverse da queste hanno
comunque messo in moto un meccanismo per cui potranno dare origine a una nuova
specie.
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Qui siamo al termine della lezione di
Caronia, mancano solo alcuni minuti, una coda in cui ritorna sull’equiparazione
tra indifferenza da parte di homo sapiens all’ambiente in cui vive e la sua
capacità di astrazione; che si possono riascoltare dal punto: (1 ora e 29 minuti)
della registrazione. Le conclusioni di questa lezione non sono esattamente
quelle di Pennisi e Falzone. Nel loro libro, i due autori pongono l’accento
soprattutto sull’impossibilità per homo sapiens di convertire la “natura ‘tecnomorfa’ del linguaggio” che
aspira “al dominio esclusivamente
progettuale e razionale della scienza umana” nel suo contrario, in “una lenta reversione afasica”. Se il
linguaggio ci ha portati ad essere una specie unica, non più in grado di creare
nuove specie, “superare l’incipiente
estinzione (…) potrebbe solo significare vanificare la nostra stessa natura
umana: soffocarla per sempre”. In ultima analisi “la speranza di vita sostituita dalla speranza di morte, l’istinto di
espandersi da quello di contrarsi, l’adattamento dovrebbe convertirsi in stasi”,
concludendo con l’amara constatazione che per quanto possibile tutto questo
rimarrebbe comunque poco augurabile. Antonio Caronia pur mantenendo valida la
tesi centrale del libro (la minaccia di estinzione dovuta all’essere diventati
una monospecie) trova una possibile via d’uscita in un, ancora non immaginabile
ma assolutamente indispensabile, ritorno ai “piedi ben piantati per terra”,
alla vita, a una sua materialità che faccia da contrappeso alla capacità di
astrazione, in ultima analisi al corpo.
Non certo una via d’uscita definitiva, solo un modo di spostare un po’
più in là la sentenza di estinzione a cui, per ragioni biologiche, i generi
monospecie sono condannati. L’introduzione al libro di Telmo Pievani non riesce
a dare uno spiraglio di luce se non affidandosi alla speranza che queste
visioni pessimistiche, ma veritiere, possano tramutarsi “in un riscatto di emancipazione”. Ma pone poi anche una domanda che
dovrebbe, a ben vedere, rimettere in discussione tutta l’analisi infausta che
sta alla base di questa evoluzione che per l’essere umano senziente si
trasforma inevitabilmente in estinzione: “che
cosa ci facciamo ancora qui?”. Purtroppo continua osservando che
comunque “non è questo il punto” e il fatto che occorra “indagare ulteriormente sulle ragioni per cui l’evoluzione avrebbe
finora ‘tollerato’ un tratto così altamente controadattivo come il linguaggio” viene
lasciato cadere. Ma il punto invece è proprio questo ed è proprio lo svolgersi
delle tesi, così efficacemente argomentate da parte di Pennisi e Falzone e in
un altro campo dai lavori di Caronia (sul cyborg e il postumano ad esempio)
sull’equiparazione tra natura e cultura che si sono sempre voluti staccati e
contrapposti. Proprio in questo rimane inspiegabile come entrambi, (i due
autori e Caronia) non facciano quell’ulteriore passo avanti che, nella sua
spontaneità, la studentessa di Brera ha colto molto efficacemente: “ce n’è
bisogno?”. Ha bisogno l’essere umano di creare nuove specie. Se natura e
cultura coincidono non significa questo che, forse, per la specie homo sapiens
il processo di speciazione non passi più per la mutazione biologica ma bensì
per quella culturale? Dire che, come sostiene Caronia, “il linguaggio ci
consente di fare molte più cose di quelle che sono immediatamente utili” non
accomuna questo alla capacità della natura di fare più mutazioni biologiche di
quelle che sono immediatamente utili? Non è in fondo lo stesso tipo di ‘ridondanza’
e di strategia? Lo spettro paventato da Pennisi e Falzone che nella dedica del
libro ai loro figli auspicano che questi “nelle
loro giovani vite non siano sfiorati nemmeno per un momento dall’impressione
che quello che scriviamo in questo libro possa davvero avverarsi” è reale.
Non sarà la sola razionalizzazione a salvarci, perché la nostra vita non è
alimentata solo da questa, è la sua ridondanza, il suo di più da ciò che è
logico e razionale che spinge l’evoluzione di homo sapiens. Se homo sapiens ha
una speranza questa sta inscritta nella sua capacità di mutare culturalmente.
Una mutazione biologica che è diventata culturale ma che per questo non si è
staccata dalla natura, dalla sua essenza biologica, corporea. Stiamo sempre con
i piedi per terra indipendentemente dai nostri più arditi sogni, leciti o meno
leciti che siano. Se l’umano si estinguerà sarà solo per il caso infausto di
uno scontro con un asteroide o perché non abbiamo più saputo gestire una
complessità di vita, che si è evoluta probabilmente troppo in fretta. L’idea di
una possibile estinzione dovuta a ragioni biologiche prese a prestito da altre
specie animali non dotate dello strumento linguistico, che fa della nostra
specie un unicum, è una falsa paura dovuta, paradossalmente, a un ripiegamento
su una concezione ancora subalterna alla classica visione dualistica della
separazione tra natura e cultura.
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