Linus - maggio 1980
Uno dei cambiamenti più significativi che si è
prodotto nella fantascienza da dieci/quindici anni a questa parte (qua in
Italia ce ne stiamo accorgendo più di recente, perché il ritmo di traduzione
delle opere più interessanti è molto lento) è quello che si potrebbe chiamare
la rivincita del personaggio. Ursula Le Guin riprende il personaggio tipico del
romanzo ottocentesco, il protagonista del “romanzo di sviluppo” o di
educazione, ed è forse l’esperimento meno interessante; altri, come Delany,
tengono conto di tutto quanto è successo nel romanzo “ufficiale” in questo
secolo, e mettono in scena personaggi post-joyciani, lacerati, sballottati,
alla ricerca confusa di ragioni di sopravvivenza, dotati solo di brandelli di
soggettività. Il primo passo avanti, rispetto ai cow-boy galattici tutto
muscoli o agli scienziati pazzi degli anni ’30, e ai cervelloni della finanza e
della scienza anni ’40, l’aveva fatto la fantascienza che poi si sarebbe
chiamata “sociologica”, quella della rivista Galaxy negli anni ’50. Ma i personaggi di Pohl e Sheckley, uomini
della strada, americani medi alle prese con problemi più grandi di loro che
quasi mai risolvevano brillantemente, erano poco più che marionette, pretesti
narrativi puri e semplici, assolutamente intercambiabili. La “rivoluzione del
personaggio”, che andò di pari passo con la rivoluzione del linguaggio, e di
gran parte del modo di concepire e di fare la fantascienza, si ebbe solo con
gli scrittori che cominciarono ad operare verso la fine degli anni ’60, con
quella che allora venne chiamata New
Wave e i suoi successivi sviluppi. Eccezioni, però, ce n’erano state anche
negli anni ’50. E una in particolare, che si chiama Alfred Bester, appare ad
ogni successiva rilettura più interessante. Sarebbe bello che la recente
ristampa del suo primo romanzo, L’uomo
disintegrato (Classici Fantascienza n. 34, Mondadori, L. 1.500), servisse a
far parlare di più di questo autore, che ha iniziato negli anni ’50, come hanno
notato Scholes e Rabkin, molto di quello che sta succedendo oggi nella
fantascienza (l’osservazione valga anche da autocritica, visto che neppure noi,
nella nostra guida Nei labirinti della
fantascienza, gli abbiamo dato molto spazio. Ma siamo qua per riparare).
Ciò che rende Bester così interessante, e oggi forse più ancora che negli anni
’50, è presto detto: è la sua capacità di stare dentro alle convenzioni della
fantascienza, senza restarne prigioniero, che è poi, se non ricordo male,
quanto raccomandava Raymond Chandler a proposito del giallo. Sia L’uomo disintegrato (1953) che i
successivi Destinazione stelle (1956;
Cosmo Oro, Editrice Nord, 1976, L. 3.500) e Connessione Computer (1975; Narrativa d’anticipazione, Editrice
Nord, 1977, L. 3.000), unici romanzi scritti da Bester, sfuggono a una lettura
in termini di semplici romanzi di avventura. Visti così, apparirebbero come è
apparso Destinazione stelle al non
troppo acuto Jacques Sadoul: un confuso affastellarsi di scene e “artificiose”
sequenze di fatti. Il fatto è che il Ben Reich di L’uomo disintegrato o il Gully Foyle di Destinazione stelle, come d’altronde i loro antagonisti, combinano
casini, complicano le cose, non fanno quello che ci si aspetterebbe da
(rispettivamente) un assassino che tenta di occultare un delitto e dei
poliziotti con poteri di percezione extrasensoriale, e un macchinista ostinato
e furibondo che cerca di vendicarsi per essere stato abbandonato nello spazio.
Ben Reich e Gully Foyle sono, a dispetto delle apparenze, antenati del Bron
Helstrom in Triton di Delany, cioè
esponenti della categoria di coloro che “non sanno quello che vogliono”: non
“personaggi” come lo sono quelli di Ursula Le Guin, alla ricerca dell’identità
e della conciliazione, anche con tutte le loro contraddizioni, ma personaggi
mutilati, furibondi, che riempiono la loro vita con uno scopo autimposto e maniacale
(che non realizzano che a metà, mentre “incidentalmente” scoprono o fanno
qualcosa di molto più grande: ma i finali, in genere sono sempre molto
deludenti in Bester). Non è sicuramente un caso che Alfred Bester (il quale tra
l’altro, si è occupato di molti altri media,
dai fumetti alle sceneggiature televisive) sia stato uno dei primi autori nella
fantascienza ad utilizzare idee e spunti della psicanalisi, e che il sogno occupi
così gran parte della sua produzione, specialmente nei racconti. Due fra le
scene più belle nei romanzi di cui si è parlato finora sono quelle in cui si
mette in scena la dissoluzione della logica del mondo “reale”: in L’uomo disintegrato quella in cui Ben
Reich vede svanire, a poco a poco, letteralmente, tutto il mondo intorno a sé
per ritrovarsi solo in una regione di puro “spazio”; in Destinazione stelle il finale in cui Gully Foyle, nella cattedrale
bruciante, viene colpito dalla sinestesi e il suo cervello riceve le sensazioni
dei suoi sensi scambiate tra loro. Sono, soprattutto il secondo, non tanto
pezzi di “bravura” quanto allusioni ad un uso del linguaggio svincolato dal
limite della matafora, che esprima quella mescolanza di reale e immaginario che
è caratteristica di tanta parte della fantascienza più recente, da Lafferty a
Disch a Delany. Per chi vuole un primo contatto con i temi e il mondo di
Bester, anche dal punto di vista dei gustosissimi impasti di lingue, dialetti,
citazioni accuratamente nascoste, in forma più immediata e meno elaborata che
nei romanzi, sono del resto disponibili in gran parte i suoi racconti, nel
volume Stella della sera (Narrativa
d’anticipazione, Ed. Nord, 1978, L. 4.500).
Alfred Bester |
https://impropop.blogspot.com/2020/03/fantascienza-e-ambigue-comuni.html
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