venerdì 24 gennaio 2020

Antonio Caronia: Il cacciatore di androidi



Linus dicembre 1982

Piove sempre, in questa Los Angeles del 2019, le facciate degli enormi grattacieli, da cui a intervalli regolari sorridono enormi e improbabili visi di geishe portati in primo piano, riproducono i meandri intricati di un microprocessore, d’altra parte tutta la decorazione labirintica degli interni, l’architettura pesante e barocca degli edifici ricordano stranamente sempre l’elettronica, per quel poco che se ne può vedere quando una fonte di luce obliqua e incassata si rivela improvvisamente. L’acqua e la penombra dominano incontrastati in Blade Runner, l’ultima fatica di Ridley Scott (I duellanti, Alien): l’acqua che scende dal cielo, implacabile e radioattiva, e che penetra scivolando sui muri interni della casa nel corso della lotta finale tra il poliziotto e il capo degli androidi, la penombra che avvolge strade e stanze e che la luce riesce di volta in volta a respingere provvisoriamente, mai a fugare del tutto. Scott e i suoi sceneggiatori hanno eliminato o attenuato alcuni degli elementi che spiegavano questa situazione nel romanzo da cui il film è tratto: ma hanno reso con grande efficacia e quel che più conta con discrezione il clima di oppressione che sovrasta la città descritto già da Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheeps? (“Sognano gli androidi pecore elettriche?”. La prima edizione italiana, uscita col titolo Il cacciatore di androidi più di dieci anni fa, è ormai esaurita, la prossima è annunciata dall’Editrice Nord, con discutibile scelta dei tempi, per la primavera prossima). Do Androids Dream…, pur non potendo essere considerato uno dei capolavori di Dick, resta nondimeno un romanzo interessante. Il tema di fondo è sempre quello del Dick degli anni Sessanta, la confusione fra i diversi piani di realtà, l’androide come copia talmente perfezionata dell’uomo da non potersene più distinguere. Il disagio del protagonista, Rick Deckard, oscuro impiegato di polizia incaricato di “ritirare” dalla circolazione sei androidi pericolosissimi dell’ultimo raffinatissimo modello, il Nexus-6, nasce dalla scoperta progressiva di una segreta affinità tra se stesso e le sue vittime: anche la vita di Deckard si svolge in una dimensione artificiale, segreta spesso ma sempre determinante, con l’”organo degli umori”, computer induttore di stati d’animo che regola il suo stanco rapporto con la moglie, e gli animali “elettrici”, robot zoomorfi che sostituiscono gli animali veri ormai in via di estinzione per effetto della radioattività (la Terra è ormai quasi completamente spopolata, e l’umanità è emigrata nelle colonie planetarie). Alla fine, se Deckard continuerà imperturbabile ad ammazzare androidi, sarà solo per intascare il premio e poter acquistare così un animale vero, dal prezzo altrimenti proibitivo. Scott, eliminando la maggior parte di questi elementi, impone ad Harrison Ford un Deckard molto più “chandleriano” di come Dick lo avesse immaginato, facendone un personaggio tormentato e crepuscolare, secco nei suoi gesti ma roso da un incurabile male di vivere (laddove il Deckard del romanzo, forse meno accattivante, risultava a volte anche patetico). E quindi, naturalmente, niente di male se, da questo punto di vista, Dick è stato disatteso e Scott ha creato una figura quasi interamente nuova: è un’operazione già sperimentata, e con buoni risultati a volte, nei rapporti tra letteratura e cinema (un esempio fra tutti, la “riscrittura” proprio di Raymond Chandler fatta da Robert Altman in Il lungo addio). Dove Scott risulta poco convincente è dove calca la mano, dove tenta di rendere più plausibile la “pericolosità” degli androidi (ribattezzati, con un neologismo che farà sicuramente fortuna, “replicanti”) facendone delle vere e proprie macchine da guerra, il che consente di esibire alcune scene certamente ricche di suspense in cui Ford-Deckard viene ridotto malino; dove introduce una dimensione eccessivamente riflessiva e moraleggiante nell’operare dei replicanti, o dove appiccica al tutto un finale improvvisamente lieto in cui l’amore anticipa una possibilità di convivenza serena fra uomo e androide. L’aspetto più riuscito del film, oltre alla buona interpretazione di Harrison ford (forse imprevedibile per chi lo ricordava solo come l’Indiana Jones de I predatori dell’arca perduta o l’Han Solo della saga di Guerre stellari), è certamente la scenografia e l’ambientazione, la Los Angeles che abbiamo ricordato all’inizio, questa città impenetrabile e triste, in cui asiatici e messicani si sono diffusi a macchia d’olio monopolizzando la lingua e la cucina, oltre alle strade senza neppure una esplicita dimensione di violenza umana, sociale (le uniche scene violente sono quelle della lotta con i replicanti), perché la violenza aleggia, sorda e incomprensibile, nell’architettura delle case, nei movimenti imprevedibili degli abitanti che affollano, come zombie, le strade sature di pioggia.

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