Linus
settembre 1982
L’autoriferimento imperversa: in filosofia, nel
cinema, nella narrativa. Ogni film parla di mille altri film, ogni libro di
mille altri libri. C’è chi dice che è sempre stato così, ma forse in epoche
precedenti era più che altro un problema di linguaggio: riferirsi a forme
linguistiche analoghe era un modo per marcare la propria appartenenza ad un
genere espressivo (per esempio un genere letterario) e poter fare così un
discorso sul mondo, sulla realtà. Oggi questo è per lo meno problematico. I
libri, i film, i fumetti sembrano esaurire il proprio discorso nell’ambito di
una fitta rete di citazioni e di rimandi, senza riuscire a dire nulla sul mondo
e sulla realtà, a volte senza neppure volerci provare. E l’autoriferimento ha
naturalmente invaso anche la fantascienza. L’ultimo romanzo di Heinlein apparso
in Italia (Il numero della bestia,
Sonzogno 1981, L. 14.000) è un remake (gradevole o sgradevole, a seconda dei
punti di vista) di tutta la fantascienza avventurosa degli anni Venti e Trenta,
debitamente citata nel testo in modo esplicito e, si direbbe, ostentato, dal
ciclo marziano di E. R. Burroughs, che fornisce addirittura nomi e
caratteristiche dei protagonisti, allo Skylark di “Doc” Smith al Gray Lensam e
così via. Quello che nel romanzo di Heinlein è, appunto, esplicito, ostentato e
teorizzato (in modo che non abbiamo solo un’opera di fantascienza che si
riferisce alla fantascienza, ma in cui la fantascienza è la vera e sola
protagonista), è mascherato e coperto nel romanzo di Norman Spinrad A World Between (Tra due fuochi, Nord, 1982, L. 6.000): ma la sostanza, mi sembra,
non cambia. A World Between riprende
il filone della fantascienza utopista o post-utopista, quello delle società
ideali, dei loro pregi e dei loro difetti, per capirci, e lo fa rispondendo, in
qualche modo, alla fantascienza delle donne, più alla Joanna Russ di The Female Man, a quanto sembra, che
alla Ursula Le Guin di The Dispossesed (I reietti dell’altro pianeta,
recentemente ristampato dalla Nord). La domanda che si pone Spinrad è infatti:
è possibile che uomini e donne trovino un equilibrio fra pubblico e privato,
fra amore e politica, tale da reggere alle inevitabili tensioni tra i sessi? La
domanda è posta e risolta con una sapienza narrativa gradevole, anche se un po’
scontata. Sul mondo di Pacifica un equilibrio del genere già esiste, all’inizio
del libro, ma è venato da impercettibili crepe, che si allargano
drammaticamente quando il pianeta diventa teatro dello scontro tra le
femocratiche, espressione di tendenze femministe oltranziste, e la Scienza
Trascendentale, una élite interplanetaria di super-scienziati che incarna ideali
faustiani con qualche sfumatura nazista e abbondante ispirazione tecnocratica.
Questa guerra polarizza anche su Pacifica lo scontro tra i sessi, mettendo in
luce le debolezze di quell’esperienza di integrazione e minacciandone il proseguimento.
Alla fine però trionfa l’intesa sessuale e politica tra il presidente di
Pacifica, che è una donna, e il suo ministro dei Media nonché marito e amante:
le opposte fazioni vengono raggirate e neutralizzate, e i pacificani possono
utilizzare sia le conoscenze della Scienza Trascendentale depurate dell’ideologia
che le accompagna, sia alcuni spunti delle femocratiche, senza tuttavia tradire
il loro modello. Spinrad non riesce a ripetere l’esperienza del suo primo
romanzo, Jack Barron e l’eternità
(Fanucci, 1973, L. 7.000), né sembra capace di trasformare, come la Le Guin, l’ideologia
in meccanismo narrativo. Giudicato sul terreno delle prese di posizione, A World Between è un libro stucchevole
e noioso, che esprime un’ideologia passatista e nostalgica (tornare a “prima
della crisi”, “parlare sottovoce, al cuore” invece di urlare e scannarsi in
nome del fanatismo): nonostante esprima tematiche più vicine a noi, rimane
inferiore, come resa complessiva, sia all’introspezione dei Dispossesed che alla rabbia e all’ironia
di The Female Man. Ma forse non è
così che va letto: nelle sue parti più riuscite, che sono, come già in Jack Barron, quelle che descrivono la
rete dei media di Pacifica, l’esaltazione kennediana della “democrazia
elettronica” lascia il posto a una descrizione più fredda ed efficace della comunicazione
elettronica. E la Scienza Trascendentale che altro è, anche questa volta, se
non l’intero armamentario delle scienza della fantascienza? La sconfitta dei
trascendentali, allora, può forse significare, anche per Spinrad, una coscienza
della fine della fantascienza, di questo “buon, vecchio immaginario” che ci ha
nutrito per tanto tempo e oggi ci lascia, parlando di se stesso per l’ultima
volta.
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