martedì 6 gennaio 2015

Nei labirinti della fantascienza. Introduzione 2012



La fantascienza, il futuro, il residuo dell’immaginario
Introduzione 2012
Di Antonio Caronia, Giuliano Spagnul

Tutto ciò che si sente e si fa accade
comunque sia «in direzione della
vita» e il più piccolo movimento in
altra direzione è difficile o inquietante.
E così anche quando semplicemente
si cammina; si solleva il punto di gravità,
lo si porta in avanti e lo si lascia cadere;
ma basta un piccolo mutamento, un
lieve timore, o anche soltanto stupore
di quel lasciarsi-cadere-nel-futuro e
non si sta più ritti!

(Robert Musil, L’uomo senza qualità)

La fantascienza nasce negli anni 1920 sulle riviste pulp americane e muore negli anni 1980 con il fenomeno del cyberpunk. Sintesi lapidaria della breve vita di un genere letterario popolare. Vero, non vero, azzardato? Sgombriamo il campo da inutili discussioni: è un’affermazione né più vera né più falsa di altre, che pure sono possibili. A noi sembra semplicemente più utile. Se si retrodatasse la nascita della fantascienza a Swift, o ancora più indietro a Luciano di Samosata o ad Apuleio,  avremmo solo allargato la  frittata, ci troveremmo di fronte una specie di genere letterario sempre esistito, che comprende tutto e niente; e in più avremmo dato la stura a una oziosa sequela di  distinguo, questo progenitore sì, quello no, ecc. Vediamo un’altra alternativa: Scholes e Rabkin,  per  esempio, propongono una data più recente, il 1818, anno di pubblicazione di Frankenstein di Mary Shelley. “Possiamo renderci conto,” scrivono i due critici, “(…) di come Mary Shelley ha cambiato la sua realtà proiettando nel suo stesso periodo storico una scoperta scientifica che avrebbe potuto verificarsi un giorno. Introdusse così un frammento di un possibile futuro nel suo stesso mondo e modificò per sempre le possibilità della letteratura.” (1) Non c’è dubbio, è una lettura interessante e plausibile della genesi del genere fantascientifico, ma è troppo legata a un discorso tutto schiacciato entro il genere stesso. Un discorso che certo nobilita e affranca, ma proprio per questo tende a sgrossare, a cancellare tutto quello che non viene ritenuto all’altezza, immaturo, ingenuo o addirittura ridicolo. La fantascienza che abbiamo conosciuto noi relegava Verne al mondo dell’infanzia e Asimov alla letteratura di svago, da treno, in uno stato di semi clandestinità o per circoli di fanatici adoratori considerati un po’ carenti di materia grigia. Uno svago, un’evasione, come veniva definita negli ambienti politici, militanti o semplicemente impegnati, anche dopo la presa di posizione di Sergio Solmi, che nel 1959 aveva messo sulla bilancia tutto il peso della sua autorevolezza di studioso “mainstream” curando per la prestigiosa casa editrice Einaudi, con il giovane Carlo Fruttero, un’antologia di fantascienza, Le meraviglie del possibile: un’operazione editoriale e culturale che fece epoca..
Il vero “sdoganamento”, però, avviene nella seconda metà degli anni 1970 ad opera del nostro collettivo di Un’ambigua utopia, e grazie a un’attenzione e una disponibilità nuova da parte di un movimento stanco di un grigio militantismo e aperto a esperienze altre. Il libro che avete fra le mani è uno dei documenti, forse uno dei più importanti, di quell’operazione. Uscito nell’Universale economica Feltrinelli nel novembre del 1979, Nei labirinti della fantascienza fu l’ultima fra le pubblicazioni italiane dello stesso tipo apparse fra il 1977 e il 1979 a cura dei principali esperti del settore (Curtoni, Lippi, Montanari, Cremaschi). La fantascienza era arrivata nelle librerie, in Italia, all’inizio degli anni 1970, e a metà del decennio aveva conosciuto un piccolo boom: le varie “guide alla fs” erano una ovvia conseguenza di quel boom. Alla fine del 1980 Nei labirinti della fantascienza aveva venduto circa 10.000 copie, esaurendo in pratica la tiratura (e non venendo mai  ristampato prima di questa riedizione). Crediamo si sia trattato del risultato migliore per un libro di critica della fantascienza in Italia.
Abbiamo già chiarito in altre sedi che l’esperienza di Un’ambigua utopia non fu prioritariamente qualcosa di “interno” al mondo della fantascienza: il collettivo usò la fantascienza come una chiave di lettura della realtà sociale e uno stimolo (o una riserva di immaginario) per pratiche che erano tutte interne al movimento di quegli anni. (2) Tutto ciò emerge anche dall’esame di questo libro, che teneva a distinguersi dalle altre guide consimili allora in circolazione, presentando un approccio diverso, non fittiziamente neutrale, ma apertamente partigiano e al servizio di un discorso per nulla interno al settore. Per questo nella “Avvertenza” che apre il volume scrivemmo: “[Al pubblico] non offriamo una enciclopedia, o una guida onnicomprensiva, ma una proposta di lettura della fantascienza, come tutte le proposte unilaterale, o, se si preferiscono parole più forti, settaria. (…) Essa fa perno su un’idea di fondo: che la fantascienza sia, fra i generi di narrativa popolare, quello che strutturalmente si presta più di altri a riflettere, rielaborare, restituirci, le contraddizioni della nostra vita, pubblica e privata, le aspirazioni, le tensioni, gli incubi che percorrono il tessuto sociale e le storie personali di ognuno di noi.”
Certo, il fine editoriale del libro era quello di fornire un quadro dell’evoluzione della fantascienza come si presentava negli ultimi anni 1970: al centro del discorso c’era perciò il processo che aveva portato alcuni autori e alcune tendenze, fra gli anni 1960 e 1970, a una maggiore consapevolezza e una maggiore apertura alle influenze del sociale, con un’attenzione più  articolata e precisa alla natura del potere, e una embrionale riflessione sulle forme linguistiche. I nomi erano già allora, nel 1979, quelli che sarebbero rimasti al centro di questo dibattito sino a oggi: Philip K. Dick, James G. Ballard, Samuel R. Delany – e il nume tutelare che aveva acceso due anni prima in quasi tutti noi la scintilla dell’intuizione di un uso politico della fs, e che aveva suggerito il nome del collettivo (Ursula Le Guin) cominciava ad affievolirsi e a spostarsi in secondo piano. Sulla scorta di Baudrillard (che rappresentò per alcuni di noi l’influenza più rilevante di quegli anni), si individuava il tratto più caratteristico di questa “nuova fantascienza” in una diversa visione dei rapporti fra “reale” e “immaginario”. Nell’introduzione “Incarnazioni dell’immaginario” si legge:

Proprio perché la distanza fra immaginario e reale è abolita, proprio perché siamo immersi in un universo iperreale, la nuova fantascienza può fornirci strumenti così fini di rappresentazione e di critica della realtà. Non è più la vecchia dialettica fra utopia e antiutopia, fra letteratura apologetica (impegnata a descriverci i paradisi della tecnologia, della produzione, della libera iniziativa, della frontiera, della bontà o del socialismo) e letteratura di denuncia dei “nuovi inferni”. La scrittura della nuova fantascienza, piuttosto, è impegnata in operazioni di destrutturazione del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto. (3)

Ma si capisce bene che al fondo di questo discorso ci sono le preoccupazioni sulle potenzialità esplosive della situazione sociale e insieme sulla evidente tendenza al declino e alla sconfitta dei movimenti, c’è la richiesta (certo ingenua, e ancora dogmatica, in fondo) che la fantascienza ci dica una “verità” sulla società che ci era sinora sfuggita, nella pesantezza e nella rigidità dei marxismi in cui si era invischiata la nostra formazione, e che avevano dato una così misera prova, alla resa dei conti. C’è anche l’intuizione – non più di una confusa intuizione, certo – che in una letteratura si possa trovare meglio che in altri luoghi culturali un antidoto alla mortifera separazione fra strategia e tattica, fra universalità (o totalitarismo) della teoria, e concretezza (o miseria) della pratica. E tanto meglio, forse, se quella letteratura è una letteratura di consumo, fangosa, poco “nobile”, attraversata da esigenze di comunicazione immediata, capace anche di giocare con modelli sensazionalistici e “di cassetta”. Il finale di quell’introduzione, riletto a più di trent’anni di distanza, si rivela forse ciò di cui allora non potevamo essere consapevoli, e cioè un appello disperato alle nostre risorse di narrazione e di affabulazione perché ci preparassero a un passaggio difficile e periglioso, ci traghettassero da una forma del conflitto sociale che (lo sapevamo confusamente, ma lo sapevamo) era ormai esaurita, a un’altra, che ancora non sapevamo vedere – e meno che mai eravamo in grado di prevedere:
Sappiamo, certo, che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei libri. Ma, se rifiutiamo alla scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è dell’utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo alla comprensione di quello che siamo, all’elaborazione di altre forme di socialità, di altri codici di comunicazione, di qualche nuova, modesta teoria locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono accidentati e, inevitabilmente, ambigui.(4)
La nostra esperienza – come tutte le esperienze di quegli anni che facevano i conti con quella che allora si chiamava “crisi della militanza” – è stata spesso etichettata come “riflusso”. Va bene, accettiamo il termine. E perché no? un’onda deve sempre poter tornare indietro, all’interno dove è stata generata, per poter ripartire, per poter produrre altre onde, se mai anche anomale. Anomala è stata già la nostra partenza, lo slogan che auspicava la distruzione della fantascienza. Anomalo è forse adesso da parte nostra questo voler far partire un genere letterario da un cumulo di riviste spazzatura. Ma è un’anomalia che ci permette di capire una specificità di questo genere letterario che altrimenti andrebbe persa, o quantomeno annacquata.
L’Ottocento, secolo delle invenzioni, dell’entusiasmo per un progresso che si pensava inarrestabile, prodotto di un capitalismo all’apice delle sue potenzialità, aveva creato come scarto (come resto, per dire meglio), una letteratura fantastica, avveniristica, che non poteva sopprimere quel tanto di inquietudine che l’idea del progresso inevitabilmente portava dentro di sé. L’invenzione, motore del progresso, poteva sempre rivoltarsi contro il suo inventore. La creatura contro il suo creatore. È un rovescio della medaglia necessario, indispensabile all’idea stessa di progresso. Michel Foucault attribuisce agli scienziati protagonisti delle opere di Jules Verne il compito di lottare contro l’entropia, “incessantemente contro il mondo più probabile – mondo neutro, bianco, omogeneo, anonimo – il calcolatore (geniale, pazzo, cattivo o distratto) permette di scoprire un fuoco ardente che assicura lo squilibrio garantendo il mondo dalla morte.” (5) Il Novecento – e soprattutto il Novecento vissuto nel nuovo centro del mondo, che dall’Europa si è spostato in America – non ha più al primo posto l’idea del progresso, ma quello del benessere; non più la macchina, l’invenzione, ma la merce, il prodotto, un’inarrestabile produzione di merci necessaria a raggiungere l’obiettivo più agognato dall’uomo moderno, la felicità, che solo una continua produzione di benessere a buon mercato avrebbe potuto procurare. L’ottimismo ottocentesco per il progresso illimitato non poteva eliminare il senso di minaccia, ben visibile a chi dall’interno dell’acquario proustiano osservava quell’umanità derelitta che dall’esterno stava attaccata al vetro, esclusa, priva di ogni illusione di poter partecipare al banchetto, eppure per nulla rassegnata, anzi minacciosa. Ma anche la novecentesca società consumistica americana aveva il suo incubo. Essa viveva nella costante minaccia che quella fetta di paradiso che si prometteva a tutti subito e a poco prezzo, potesse finire, esaurirsi: che il paradiso non bastasse per tutti, era in realtà un segreto di Pulcinella. La faccia nascosta dell’America,  quella in fila per il pane davanti a un manifesto della felice famiglia americana media, immortalata da un celebre scatto di Margaret Bourke White (1937), è lì a ricordarcelo.
Il progresso perpetuo, il consumo illimitato. Due utopie che caratterizzano due diverse fasi in due diversi luoghi di un capitalismo maturo. Paure e minacce che si caratterizzano in modi e con tempi diversi. L’incubo delle masse, della rivoluzione, lo spettro del comunismo per l’Europa ottocentesca  (una prospettiva che di fatto genererà realtà opposte nello sviluppo novecentesco); l’incubo della crisi, della fine della produzione e della crescita, della recessione insomma, per il nascente impero americano. Anche quest’ultimo, col suo capitalismo avventuriero, dinamico, libero da lacci e lacciuoli del tipico stato nazionale europeo, produce uno scarto, un resto, un residuo non ulteriormente lavorato, nel campo dell’immaginario. Il vorace consumismo del capitalismo avanzato americano rende nevrotico tutto l’immaginario ad esso più strettamente collegato, quello inventivo, tecnico, scientifico. Certamente la fantascienza è il prodotto di una società consumistica, ma più per il suo lato inquietante, possiamo dire sinistro, se consideriamo il soffio di distruttività che l’idea di consumo porta con sé. La fantascienza delle riviste pulp, così come il cinema dell’epoca, nella sua iperbole distruttiva e profondamente anarchica espressa dal genere slapstick, testimoniano la vera tensione soggiacente al mito dell’eterno benessere rinnovantesi all’infinito, che si voleva spacciare alla popolazione più ricca del pianeta. Ma far nascere lì e proprio lì la fantascienza, indica per noi anche una sostanziale differenza tra due diversi modi di rapportarsi al futuro. Come osservano ancora Scholes e Rabkin, “la fantascienza ha potuto cominciare a esistere come forma letteraria solo quando gli uomini hanno potuto concepire un futuro diverso, e precisamente un futuro in cui nuove conoscenze, nuove scoperte, nuove avventure, nuovi mutamenti avrebbero trasformato la vita in modo radicale rispetto ai modelli del passato e del presente.” (6) I due critici parlano a questo proposito di un vero e proprio future shock per tutta l’umanità. Per la fantascienza che noi vogliamo delimitare entro il più angusto confine del xx secolo, invece, non c’è più lo shock di un futuro che potrebbe avverarsi, ma lo shock di un futuro che avviene, che si avvera ogni giorno. Se acquistando una macchina, una lavatrice o un altro oggetto del desiderio, si entra di fatto nel futuro, si vive nel futuro, allora il futuro si situa nel presente. Il futuro non potrebbe più accadere in questo o quest’altro modo, ma accade così, in questo modo. Siamo nel futuro, non dobbiamo più aspettarlo. È un futuro che si vive, che non si annuncia più, che c’è. E c’è perché lo si può comprare. È anch’esso in definitiva una merce, o meglio, una qualità della merce stessa. Sta allegato al prodotto, sua caratteristica intrinseca. La coscienza di questo “lasciarsi-cadere-nel-futuro”, lo stupore e il timore di vivere il futuro invece di aspettarlo, creano un’instabilità, non più semplicemente antientropica, come quello squilibrio di cui parlava Foucault, indispensabile a non far morire il mondo, a non cristallizzarlo. È un’instabilità di nuovo tipo, che pone al suo centro, nell’occhio del ciclone, un caleidoscopio che centrifuga tutti i possibili modi di pensare, conoscere, amare, godere, impazzire, ecc., degli abitanti della moderna società dei consumi. Un’instabilità che lotta contro l’arresto, la paralisi. La paralisi che la coscienza del movimento, di questo muoversi costantemente dal presente al futuro, inevitabilmente porta con sé. Per muoversi, per spostarsi, occorre non pensarci, altrimenti non si sta più ritti, come avvertiva Musil. La girandola di tutti i possibili è efficace, ma può durare fino a che nella società il senso del futuro respira ancora una certa autonomia dal presente, quando ancora ci si può stupire. Tutto questo finisce quando il germe contenuto nell’avverarsi continuo del futuro nel presente sboccia in un presente perpetuo, in cui il futuro non è più distinguibile. È il presente che stiamo vivendo adesso, in cui non è più necessario, camminando, spostare il punto di gravità per lasciarsi cadere in avanti, nel futuro, ma in cui basta lasciarsi scivolare. Lasciarsi trascinare dal fiume indifferenziato del tempo, di un tempo totalmente costruito, incanalato, gestito da altri.
Ecco perchè, se in base a queste considerazioni ci è piaciuto dare alla fantascienza quei miserevoli natali pulp , ci piace anche considerarla, oggi, definitivamente morta e sepolta. Non per una nobilitazione in estremo, sulla scorta della “morte dell’arte” e di discorsi del genere, ma per ribadire il suo legame a doppio filo con la fame di futuro che l’ha vista nascere. Con l’esaurirsi del futuro, per effetto del suo amalgamarsi completo col presente, la fantascienza perde la sua funzione di sentinella, di monolite ai confini dell’infinito, di termometro della possibilità di futuro. L’idea di futuro è un’idea ormai troppo radicale, in odore di sovversione, per poter essere tollerata nel mondo dell’oggi perpetuo. E se il cyberpunk definisce simbolicamente un termine plausibile del genere fantascienza, un’altra data potrebbe sancire ancor meglio questa ipotetica fine: il 2 marzo 1982, giorno della morte di Philip K. Dick. Che cos’è l’opera di Dick se non il rimasticamento e il rigurgito di tutta la letteratura di fantascienza? Dick, lo scrittore che ambiva ad essere “scrittore” e che ha dovuto ripiegare suo malgrado (per nostra fortuna) a guadagnarsi il pane con stupidi racconti di fantascienza. In questo modo ha rimanipolato tutto il genere senza restituire ad esso nulla, ma creando un’opera autonoma, capace di un pensiero fecondo generatore di potenzialità ancora tutte aperte, se non addirittura da esplorare. Dick è insomma l’autore che ha saputo fare della fantascienza davvero una cassetta degli attrezzi, che lui stesso ha usato e poi ha lasciato in eredità a tutti noi. Sancire la fine della fantascienza, per noi, ha lo scopo di rendere viva la sua potenzialità vivificante, una sorta di spray-ubik per creare realtà, per fare mondi. È possibile discutere del prodotto filmico Avatar o della pratica dei trapianti d’organo, senza (consapevolmente o meno) essere immersi in quell’enorme ragnatela culturale rappresentata dai romanzi, fumetti, pubblicità, prodotti per la tv, rotocalchi ecc. di fantascienza del secolo scorso? Quanto hanno inciso e quanto incideranno ancora nella nostra capacità di fare mondo, nel bene e nel male? Se “solo un individuo le cui trasformazioni risultassero prevedibili si potrebbe considerare immortale, ” (7)  lo stesso si può dire per un prodotto culturale. La fine apre all’inizio, la morte alla vita. E infine, ancora, quale “mondo oltre la collina” (8) possiamo oggi desiderare ancora di immaginare se non quello di una valle che lotta contro il TAV? Giovani (comunque), percossi ma non rassegnati.
“I ragazzi continuavano a osservarci. Due prigionieri politici, vecchi ai loro occhi, sporchi e laceri, sconfitti, che consumavano in silenzio il loro pasto. La radio a transistor suonava ancora, a volume più alto. Nel vento, potevo sentirne altre che spuntavano dovunque, in ogni parte del paese. Erano i ragazzi, pensai, che le accendevano. I ragazzi.” (9)

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(1). Robert Scholes, Eric S. Rabkin, Fantascienza. Storia, scienza, visione, Pratiche, Parma 1979, pag. 15.
(2). Antonio Caronia, Giuliano Spagnul, “Storia di una cassetta degli attrezzi”, in: Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70, a cura di A. Caronia e G. Spagnul, Mimesis, Milano 2009, vol. I, pp. 7-10.
(3). Antonio Caronia, “Incarnazioni dell’immaginario,” questo volume, p. **
(4) Ivi, p. **
(5). Michel Foucault, “La tecnica narrativa di Jules Verne,” in: J. Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni, Einaudi, Torino 1994, pag. XII.
(6). R. Scholes, E.S. Rabkin, op. cit., pagg. 14-15.
(7). Gilbert Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, trad. e cura di G. Carrozzini, Mimesis / Centro internazionale insubrico, Milano/Udine 2011, vol. I, pagg. 321-22.
(8). Alexei e Cory Panshin, Mondi interiori, Nord, Milano 1978.

(9). Philip K. Dick, Radio libera Albemuth, Fanucci, Roma 1996, p. 321.

martedì 2 dicembre 2014

Antonio Caronia: "Quando i marziani invadevano Milano"


1. Dentro il movimento, non dentro il fandom

Il primo numero di Un'ambigua utopia uscì nel dicembre del 1977. Il nono e ultimo nel maggio del 1982. Il nome della rivista era una citazione del sottotitolo di uno dei più noti romanzi di fantascienza "politica", da poco arrivato in Italia, The Dispossessed, di Ursula K. Le Guin1. An Ambiguous Utopia diceva bene, così ci sembrava, la nostra condizione di freschi esuli da un'esperienza politica drammaticamente (per alcuni traumaticamente) conclusa quanto alle forme e ai modi dell'impegno, ma per nulla messa in soffitta quanto alle ragioni della ribellione e a una persistente volontà di sovversione. In quei cinque anni alcuni di noi salvarono se stessi, non certo da una crisi che restava profonda e pesante, ma forse da suoi possibili esiti ancora più rovinosi e destabilizzanti: lo facemmo realizzando una delle più singolari esperienze culturali e politiche uscite dal cosiddetto "movimento del 77”2. Cronologicamente, infatti, I'attività di Un'ambigua utopia è totalmente posteriore a quel movimento (che si può considerare concluso con il convegno nazionale sulla repressione del 22, 23 e 24 settembre 1977 a Bologna3); ma I'atteggiamento del collettivo, le tematiche e lo stile della rivista, dei convegni e delle azioni, i referenti materiali e culturali, le preoccupazioni intellettuali e politiche che animavano il nostro agire, tutto insomma,
riporta al terremoto che gli eventi e le pratiche del 77 avevano introdotto nel movimento, e che in quegli anni si riassumeva nella formula "crisi della militanza".
         A esperienza conclusa, col passare degli anni e con le episodiche rievocazioni che alcuni dei protagonisti e dei testimoni andavano facendo (e che si possono leggere nella ristampa della rivista4), si è forse stratificata la convinzione che Un'ambigua utopia sia stato un fenomeno interno al mondo della fs italiana, un'escrescenza (bizzarra o sensata, da esecrare o da esaltare) del ristretto mondo degli appassionati di quel genere letterario. Secondo questa percezione I'obbiettivo fondamentale della nostra azione (sicuramente animata da intenzioni politiche, senza dubbio intenzionata a introdurre nella fantascienza chiavi di lettura sociali o ideologiche) sarebbe stato però quello di creare una specie di “fandom di sinistra”; forse introducendo una distinzione tra una "fantascienza di destra" e una di sinistra, oppure, ancora più radicalmente ma insensatamente, contrapponendo una fs globalmente considerata "di sinistra" ad altri generi (per esempio il fantasy o l'horror) considerati geneticamente e inguaribilmente di destra. Solo Giuliano Spagnul, fra chi
intervenne in quei dibattiti, è stato sempre chiarissimo e non ha mai dato adito a questo equivoco. Può darsi invece che anche chi scrive, inconsapevolmente, vi abbia contribuito. Questa sede mi pare singolarmente adatta, quindi, per (eventualmente) rettificare, e dichiarare in modo, spero, definitivo che questa lettura di Un'ambigua utopia è totalmente sbagliata, mistificante e fuorviante, e non trova fondamento né nei documenti scritti che abbiamo prodotto né nell’ insieme delle nostre azioni politiche e culturali - come vedremo fa breve. Noi non fummo dei fan di sinistra. Scegliemmo la fs come pretesto (in senso letterale: pre-testo), come occasione, come grimaldello, per affermare una serie di tematiche teoriche e politiche; prediligemmo la fs perché, geneticamente, quel genere era non solo, come scrisse Ballard, "la letteratura tipica di una società industriale”, ma anche perché era la letteratura del possibile, I'erede - tanto nella letteratura “alta” come in quella popolare - dell'utopia, e consentiva dunque meglio di altre di trattare, di scandagliare i temi che ci interessavano: le trasformazioni della società, i progetti di vita alternativi, gli scontri fra le classi, la distribuzione dei poteri, i sogni e i bisogni degli oppressi e il cinico realismo degli oppressori. Ma mai, in nessun momento, fummo interessati a promuovere una "fantascienza di sinistra”, e in fondo neanche una “lettura di sinistra” della fs; mai ci ponemmo come obbiettivo di destabilizzare il fandom, le riviste di fs o I'editoria di fs. Che marcissero nel loro brodo. Nell’editoriale del n.1 della rivista tutto questo è scritto a chiare lettere, addirittura maiuscole:

Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza.
VOGLIAMO DISTRUGGERLA.
Nel senso che vogliamo rompere questo involucro, questo contenitore che si chiama fantascienza,
e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro che quello che si trova fuori.
(…)
Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può soltanto sognare e non praticare.5

       Pratica dell'obbiettivo, pratica dell'utopia. sarà pure stata una formulazione rigida e ingenua, ma non li sentite gli echi degli slogan del 77? Dei volantini dei circoli dei proletariato giovanile? Non la vedete I'assonanza con le pagine di A/traverso, la sintonia con le trasmissioni di Radio Alice? È ovvio, poi, che avere scelto questa chiave di lettura, questo pre-testo, ci portasse a frequentare anche il mondo del fandom, degli appassionati: lì c'era chi poteva cogliere al volo le trame dei romanzi di Asimov, le situazioni di Sheckley, i riferimenti a Le Guin, i costumi di Guerre stellari, e questo ci evitava di fare il riassunto, ci permetteva di andare al punto più rapidamente. Ma non volevamo discutere di fs, neanche con loro. Volevamo parlare di lotte, di bisogni materiali, di rivoluzione. Sapevamo a priori che gran parte di quel pubblico sarebbe stato sordo, se non ostile, al nostro discorso: ma ci interessavano quelle due, tre, dieci persone, potenzialmente interessate - e ne trovavamo ogni volta ben di più, a Milano e in tutta Italia. Fra il 1978 e il 1980 si costituirono collettivi di un'ambigua utopia a Genova (con Claudio Asciuti e Nico Gallo), a Roma e a Napoli6, e c'erano contatti in varie altre città, da Bologna a Ferrara a Udine. Anche la rubrica delle lettere della rivista è interessante, al riguardo. Giancarlo Bulgarelli, che nella prima fase fu la figura di riferimento del collettivo, a ogni riunione leggeva la posta e rispondeva sulla rivista. Certo, ci furono le proteste per la stroncatura di Lovecraft, ma la maggioranza di quelli che scrissero, anche a quel riguardo, lo fece sollevando i temi di una nuova critica sociale, del rapporto fra ideologie e pratica rivoluzionaria, del superamento dell'ordine borghese.
       Se andiamo a enumerare le iniziative pubbliche del collettivo, le prese di parola in pubblico, vediamo che quelle dedicate alla fs in quanto tale furono una netta minoranza. In cinque anni, partecipammo in modo organizzato a tre soli appuntamenti, a tre convention “ufficiali”, nazionali o internazionali, di appassionati di fs: lo SFIR (Science Fiction Italian Roundabout) di Ferrara il 2 e 3 giugno 1978, la Seacon di Brighton del 1979 (con ben scarsi risultati), e soprattutto l’Eurocon di Stresa del maggio1980. E se a Brighton fummo presenti solo con un banchetto della rivista, senza organizzare nulla di alterativo, nelle altre due occasioni agimmo seguendo l’impostazione che ci era propria: utilizzare la fs per sollevare, anche ln quelle sedi, problemi più ampi e ben diversi. L'incursione a Ferrara fu la nostra prima uscita pubblica, e fu quindi l’occasione per una presentazione generale del collettivo, o poco più – sempre però, accompagnata da una contestazione e da una messa in ridicolo dei riti paludati e pomposi delle associazioni tradizionali. A Stresa arrivammo dopo due anni e mezzo di attività, con le idee più chiare e un lavoro preventivo di contatti e di organizzazione che ci permise di avere una presenza ben più incisiva - e che amplificò la nostra partecipazione a livello mediatico in modo significativo (due articoli sulle pagine nazionali cultura di Repubblica). Ma questo avvenne perché, sin dall'inizio, rifiutammo di farci intrappolare nelle liturgie rigide e precostituite del convegno. Seguimmo, certo, anche le conferenze ufficiali, discutemmo con Alfred Bester e John Brunner (ospiti d'onore), con Spagnoletti e Pagetti. Ma ci concentrammo su due linee: contestazione e sbeffeggiamento del programma ufficiale, e promozione di una serie di "assemblee generali" non previste dal calendario della convention. Sul primo fronte, quindi, disturbammo la conferenza di Alex Voglino (piccola star emergente, allora, della critica fantascientifica di destra) passeggiando per la sala in cinque o sei persone, inverosimilmente truccate, e fermandoci a fissare, in assoluto silenzio, i (pochi) ascoltatori; trasformammo la premiazione (ci era stato assegnato il terzo premio per le riviste) in una sarabanda, facendo del papiro ufficiale che ci era stato consegnato un aeroplano di carta lanciato tra il pubblico, accompagnato da altri corpi non contundenti come rotoli di carta igienica. Sull'altro versante, presentammo una performance autonoma di Claudio Asciuti ispirata a Lovecraft, efficace sul piano dell'orrore (lancio di vermi tra il pubblico); e nelle assemblee autoconvocate sottraemmo al programma ufficiale quasi meta dei delegati alla convention, per discutere di iniziative concrete sull'editoria, di autorganizzazione, di solidarietà ai dissidenti sovietici.7




2. La fantascienza come lettura del conflitto sociale

Certo, a Stresa arrivavamo anche sull'onda di un piccolo caso editoriale. Nel novembre del 1979 era uscito per Feltrinelli (Universale economica) Nei labirinti della fantascienza. Guida critica a cura del collettivo “Un’ambigua utopia”, ultima fra le pubblicazioni dello stesso tipo apparse fra il1977 e il 1979 a cura dei principali esperti del settore (Curtoni, Lippi, Montanari, Cremaschi). La fs era arrivata nelle librerie, in Italia all'inizio degli anni 1970, e a metà del decennio aveva conosciuto un piccolo boom: le varie “guide alla fs” erano una ovvia conseguenza di quel boom. Fu Goffredo Fofi, che allora collaborava con Feltrinelli, a proporci I'idea del libro, che all'inizio ci spaventò un poco, forse, ma che accettammo poi con entusiasmo. Alla fine del 1980 Nel labirinti della fantascienza aveva venduto circa 10.000 copie, esaurendo in pratica la tiratura (non venne pero ristampato). Credo si sia trattato del risultato migliore (azzarderei di tutti i tempi) per un libro di critica della fs
in Italia. È indiscutibile che anche questa iniziativa vada conteggiata nel capitolo “fantascienza” delle attività di Un'ambigua utopia. Marco Abate, Renato Aquilani, Silvano Barbesti, Patrizia Brambilla, Roberto Del Piano, Piero Fiorili, Giuliano Spagnul e chi scrive si dedicarono alla selezione di circa 140 titoli e alla stesura delle relative schede che, insieme con una introduzione di chi scrive (“Incarnazioni dell'immaginario”) e alcune appendici sull'editoria e la critica (curate da Barbesti, Fiorili e Spagnul), costituirono il volume. Ma anche in questo caso la nostra cifra fu chiara: ci tenevamo a distinguere il nostro lavoro dalle altre guide consimili allora in circolazione, e a dichiarare un'intenzione diversa, non fittiziamente neutrale, ma apertamente partigiana e al servizio di un discorso per nulla interno al settore. Nella "Avvertenza" che apre il volume scrivevamo:

[Al pubblico] non offriamo una enciclopedia o una guida onnicomprensiva, ma una proposta di lettura della 
fantascienza, come tutte le proposte unilaterale, o, se si preferiscono parole più forti, settaria. (...) Essa fa perno su un'idea di fondo: che la fantascienza sia fra i generi di narrativa popolare, quello che strutturalmente si presta più di altri a riflettere, rielaborare, restituirci, le contraddizioni della nostra vita pubblica e privata, le aspirazioni, le tensioni, gli incubi che percorrono il tessuto sociale e le storie personali di ognuno di noi.8

       Nell'introduzione si parlava, certo, di fs, ma si cercava di descrivere il processo che aveva portato alcuni autori e alcune tendenze, fra gli anni 1960 e 1970, a una maggiore consapevolezza e una maggiore apertura alle influenze del sociale, con un discorso più articolato e avvertito sulla natura del potere, e una embrionale riflessione sulle forme linguistiche. I nomi erano già allora, nel 1979, quelli che sarebbero rimasti al centro di questo dibattito sino a oggi: Philip K. Dick, James G. Ballard, Samuel R. Delany - e il nume tutelare che aveva acceso due anni prima in quasi tutti noi la scintilla dell'intuizione di un uso politico della fs, e che aveva suggerito il nome del collettivo (Ursula Le Guin) cominciava ad affievolirsi e a spostarsi in secondo piano. Sulla scorta di Baudrillard (che, è inutile negarlo, rappresentò per alcuni di noi l'influenza più rilevante di quegli anni), si individuava il tratto più caratteristico di questa "nuova fantascienza" in una diversa visione
dei rapporti fra “reale” e “immaginario”:

Proprio perché la distanza fra immaginario e reale è abolita, proprio perché siamo immersi in un universo iperreale, la nuova fantascienza può fornirci strumenti cosi fini di rappresentazione e di critica della realtà. Non è più la vecchia dialettica fra utopia e antiutopia, fra letteratura apologetica (impegnata a descriverci i paradisi della tecnologia, della produzione, della libera iniziativa, della frontiera, della bontà o del socialismo) e letteratura di denuncia dei “nuovi inferni”. La scrittura della nuova fantascienza, piuttosto, è impegnata in operazioni di destrutturazione del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto.9

       Mimetizzate in forme apparentemente più neutre, al fondo ci sono le nostre preoccupazioni di sempre, c'è la richiesta (certo ingenua, e ancora dogmatica, in fondo) che la fs ci dica una “verità” sulla società che ci era sinora sfuggita, nella pesantezza e nella rigidità dei marxismi in cui si era invischiata la nostra formazione, e che avevano dato una così misera prova, alla resa dei conti. C’è anche I'intuizione - non più di una confusa intuizione, certo - che in una letteratura si possa trovare meglio che in altri luoghi culturali un antidoto alla mortifera separazione fra strategia e tattica, fra universalità e totalità (totalitarismo?) della teoria, e parzialità e concretezza (miseria?) della pratica. E tanto meglio, forse, se quella letteratura è una letteratura di consumo, fangosa, poco “nobile”, attraversata da esigenze di comunicazione immediata, capace anche di giocare con
modelli sensazionalistici e “di cassetta”. Il finale di quell'introduzione, riletto a trent'anni di
distanza, si rivela allora forse ciò di cui allora non potevamo essere consapevoli, e cioè un appello disperato alle nostre risorse di narrazione e di affabulazione perché ci preparassero a un passaggio difficile e periglioso, ci traghettassero da una forma del conflitto sociale che (lo sapevamo confusamente, ma lo sapevamo) era ormai esaurita, a un'altra, che ancora non sapevamo vedere – e meno che mai eravamo in grado di prevedere:

Sappiamo, certo, che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei libri. Ma se rifiutiamo alla scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è dell'utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo alla comprensione di quello che siamo, all'elaborazione di altre forme di socialità, di altri codici di comunicazione, di qualche nuova modesta teoria locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono accidentati e,
inevitabilmente, ambigui.10

       Ma, se facciamo eccezione per il raid a Stresa, tutte le altre nostre maggiori iniziative si
svolsero al di fuori dell'angusto mondo della fs: vennero concepite, oltre che nelle stanze delle nostre case, in sedi di movimento come i centri sociali (come il Centro sociale Isola), vennero organizzate in collaborazione con altri soggetti collettivi di quel movimento (ancora centri sociali, gruppi di quartiere, altre riviste che agivano magari in una zona intermedia fra underground e mainstream, radio libere), vennero realizzate con l'ispirazione, i modi, le grammatiche e gli stili di iniziative di movimento. A cominciare dalla prima, quella che ci diede, insieme ai primi tre numeri della rivista, l'iniziale visibilità: la Prima Invasione dei Marziani, che si materializzarono a Milano il 15, 16 e 17 settembre 1978, ebbe luogo alla cascina “La Fornace” di Via Ludovico Il Moro 127, un centro sociale occupato lungo i Navigli, alla periferia della città, e fu tutto sommato una classica festa della sinistra di allora, che culminò con il più classico degli strumenti di comunicazione e di pressione dei movimenti - usato e strausato ancora oggi: un corteo. Certo, eravamo travestiti da
marziani (ma senza troppo insistere sull'iconografia classica: i costumi e le maschere puntavano a realizzare esseri alieni dei tipi più diversi – bellissimi, li realizzò il Centro sociale di Santa Marta, altra classica occupazione di quegli anni a Milano), gridavamo slogan come "Fuori i marziani dalle galere", suonavamo musica pazza e cacofonica (era il collettivo Nuove Esperienze di Eresia Musicale). Ma non facemmo altro che camminare lungo i Navigli, sino a Porta Ticinese, volantinando i passanti e scandendo parole d'ordine. Come tutti i cortei. L'invasione dei marziani dimostra che avevamo individuato sin dall'inizio uno spazio specifico per la nostra azione, che venne definito nell'editoriale del n. 3 la "pratica fantastica del quotidiano". In quell'articolo, dopo una critica un po' sommaria dei due “modelli” di festa prevalenti nel movimento in quel periodo (quello dei gruppi della sinistra rivoluzionaria e quello di Re Nudo e dei circoli giovanili) avanzavamo una proposta, forse confusa, ma che dimostrava la consapevolezza di una dimensione poco esplorata, appunto, dell'azione politica. Citiamo:

A questa effimera e pietosa figura, a questo superuomo grottesco e solo, noi contrapponiamo
il mutante, cioè colui che collettivamente, insieme ai suoi simili, si adopera per riscoprire il
fantastico nel quotidiano e nella realtà. Lentamente ma realmente la sua vita si trasforma
tramite la gioia di vivere, la capacità di rapportarsi agli altri, il godimento, I'amore e il gioco.
(…)
Se la festa è I'unico momento di liberazione, rimane uno strumento congeniale al sistema
produttivo del capitale. Occorre invece che la festa travalichi i suoi confini riversandosi in
momenti e modi diversi di liberazione.11

       Queste furono le premesse della Prima Invasione dei Marziani, che naturalmente Un'ambigua utopia non concepì come realizzazione di un modello già bello e pronto, ma come I'avvio di un dibattito nel movimento su questa tematica. Se ci credevamo davvero (e non saprei dire che cosa ognuno di noi si aspettasse dal nostro appello) restammo delusi. Quel dibattito non ci fu, ovviamente, alla festa, né in nessuna altra sede, perché non poteva esserci. Era il residuo, nelle nostre teste, di un modello politico che ci sembrava (o speravamo) di avere abbandonato, ma che lavorava ancora, sotterraneo e inconsapevole: priorità alle pratiche, sì, ma incanalate in un bel dibattito! (anche se non c'era più nessun comitato centrale a tirare le fila). Lo riconoscemmo francamente nel resoconto della festa pubblicato nel numero successivo12, ma ci rendemmo anche conto (indubbiamente in modo molto confuso e quasi inconsapevole) che una risposta c'era stata, che il nostro appello non era caduto nel vuoto. Certo, in una forma diversa da quella che ci aspettavamo: la risposta era l'interesse che cresceva intorno alle nostre iniziative, sia da parte dei media che di gruppetti e singoli in varie parti d'Italia. La risposta era che avevamo intravisto (con
molta confusione e molta ingenuità, lo ripeto) un terreno nuovo di azione politica, e cioè quello dell’immaginario e della cultura, e una modalità che, nel disfacimento dell'iniziativa politica organizzata tradizionale a sinistra, offriva qualche possibilità - obliqua, laterale e ”ambigua”, ma non priva di efficacia. Pressioni interne ed esterne per limitare la nostra azione al mondo della fs ce ne furono, ma in generale il collettivo non si fece convincere ad abbandonare la visione più generale da cui era partito, l'ancoraggio alle tematiche e al mondo dei movimenti radicali di ribellione. Uno degli interventi di maggior peso in questo senso venne da Mauro Miglieruolo, un giovane autore di fantascienza di Roma che, salutando con interesse (e anche con entusiasmo) la nascita di un gruppo di “comunisti, nel senso forte del termine, che hanno voglia di svolgere un ruolo culturale nella fs”, proponeva però che la nostra azione si concentrasse all'interno del mondo della fs e degli appassionati, per “contrastare con tutti i mezzi nelle teste di tutti, i condizionamenti ideologici che il resto del mondo fantascientifico conduce sfacciatamente, ma per vie interne. Si tratta in sostanza di rendere un servizio all'intero mondo fantascientifico.”13 Non era affatto un intervento qualunquistico o estraneo alla nostra ispirazione: Miglieruolo ricorreva ad Althusser per argomentare la sua proposta, e poneva con una certa chiarezza una serie di questioni sul ruolo del marxismo nel lavoro culturale, ma proponeva in conclusione come compito centrale di Un'ambigua utopia “la produzione di una teoria sulla fs e lo stimolo per una nuova fs, fuori dagli schemi rovinosi del realismo socialista". I punti di riferimento e le argomentazioni erano largamente condivise nel collettivo, ma le conclusioni non convinsero molti di noi. Non credevamo che il nostro compito principale dovesse limitarsi allo “stimolo per una nuova fs”. E se la creazione di una teoria della fs poteva anche starci (ma c'erano già personaggi come Suvin e Pagetti impegnati in quel compito), sarebbe stata solo il sottoprodotto di un'azione più ampia. Nella proposta di Miglieruolo leggevamo la sopravvivenza di una vecchia visione dell'autonomia della cultura, di tipo, per così dire, francofortese, ancora prigioniera di una compartimentazione e di una separazione fra cultura e politica. Toccò a chi scrive (entrato da poco nel collettivo, in occasione dell'Invasione dei marziani) esprimere questa posizione e quindi respingere la proposta, con ragionamenti di questo tipo:

Un progetto di lavoro culturale nel 1978 ha interesse per dei rivoluzionari, per chi si muove
consapevolmente dentro un progetto sovversivo dell'attuale assetto sociale, non più perché la
cultura è un'arma fra tante, perché I'ideologia borghese è quella dominante, o cose del
genere: ma ben più precisamente perché il movimento stesso ha scelto la strada della
distruzione della cultura (borghese) come teoria e controllo del comportamento sociale, e
della costruzione di una nuova cultura come pratica e diffusione di comportamenti
alternativi, disgreganti l’assetto sociale.14




3. Gergo rivoluzionario e questione del potere

       Forse qui bisogna fermarsi un attimo e rispondere a una domanda che sorge spontanea, anche in chi quell'esperienza l'ha vissuta dall'interno e intensamente (e che quindi sorgerà a maggior ragione in chi non l'ha vissuta, e in specie nei più giovani): ma non si rendevano conto, questi pazzi - ci si potrebbe chiedere - della sconfitta dei movimenti, non capivano che I'epoca stava rapidamente cambiando di segno, che il capitale (i capitali) stavano preparando una ristrutturazione vasta e profonda del modo di produzione, quella che poi si sarebbe chiamata "postfordista"? Perché persistere in un linguaggio barricadiero ("progetto sovversivo", "distruzione della cultura" "disgregazione")? Se Illusione e cecità ci furono, le condividemmo, in larga misura, con tutto ii movimento. Nel settembre del 1977 il movimento, scrive Franco Berardi (Bifo), "si sciolse". Ma "Zut/a/traverso dichiarò: la rivoluzione è finita, abbiamo vinto."15 Il senso di questa criptica affermazione era il riconoscimento (almeno inziale) del carattere contraddittorio e paradossale del movimento stesso. Circa dieci anni dopo (e quindi con una riflessione ulteriore) Bifo si espresse così:

Quel movimento non era animato dalla volontà di dominare politicamente il corso degli
eventi, ma piuttosto dal desiderio di mettersi in ascolto dell'epoca che sopravveniva. Lo
stesso gesto che compie, nello stesso periodo, il movimento punk.
(…)
In un certo senso, dunque, il movimento del 77 fu costituito su un paradosso, e questo ne
spiega la duplicità dei toni, creativo, utopico e festoso, ma al tempo stesso disperato,
nichilista, autodistruttivo.
Da una parte esso affermò la legittimità etica e la possibilità sociale della ricerca e del
perseguimento della felicita personale. Dall'altra parte, ma contemporaneamente, esso
percepì I'ineluttabilità di una catastrofe, la fine dei valori di solidarietà del movimento
comunista internazionale, I'emergere di un sistema tecnologico, comunicativo, ambientale,
destinato a pervertire i processi di trasformazione entro un nuovo modello di costrizioni.16
          
       Il 77, insomma, come momento più alto del movimento del rifiuto del lavoro,
dell'affermazione della creatività e della gioia come momenti insieme individuale e collettivo, come pratica dell'utopia; e insieme come innesco (certo inconsapevole) del processo di ristrutturazione capitalistica che proprio partendo da quelle pratiche stava portando a un nuovo dispositivo di valorizzazione, alia creazione di un nuovo proletariato della creatività e dell’intelligenza e alla sua espropriazione. Ma nel 1978, come nel'79 e nell'80, non era ancora così facile riconoscere con nettezza le conseguenza di quella duplicità. E così Un'ambigua utopia, come tante altre situazioni più o meno organizzate, come tanti altri compagni singoli in quegli anni, oscillò sempre fra il riconoscimento di un cambio di passo epocale delle condizioni del conflitto sociale e della lotta politica, e l'attaccamento disperato al mantenimento di una agibilità immediata del conflitto, all'illusione di una possibilità di incasso immediato dell'ipoteca contenuta in quel "abbiamo vinto" proclamato da A/traverso. Senza accorgerci che non eravamo noi i beneficiari di quella cambiale, che la rivolta del general intellect si stava interrompendo a metà del cammino, che il gioco stava
passando di mano.
                La fraseologia rivoluzionaria ed eversiva, negli editoriali di Un'ambigua utopia, nelle dichiarazioni, nei manifesti, non si limitò solo al 1977/78, continuo nel1979 e nel 1980, sin quasi alla fine di quell'esperienza. Certamente, il 7 aprile del 1979, con la gigantesca decapitazione di tutta I'Autonomia operaia a opera del teorema Calogero, con le migliaia di perquisizioni e di fermi giudiziari disinvolti (anche chi scrive venne toccato, marginalmente, da questa caccia alle streghe), con Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo, Paolo Virno, e centinaia di altri militanti in galera, con la massiccia e invereconda campagna di stampa per associare l'Autonomia operaia alle Brigate Rosse, ebbe delle conseguenze. E, per quanto ci riguarda finì quasi inconsapevolmente per dirottare gran parte dell'attività di Un'ambigua utopia in direzione di un lavoro culturale, per certi versi, tradizionale. Ancora una volta, nelle ricostruzioni della nostra storia già citate, questo processo viene definito come una "rivoluzione" interna, o un "cambio di direzione" (di cui mi si addebita in gran parte la paternità), teso a "raggiungere obbiettivi seri in materia di critica"17, o a "lanciarci nel campo della Cultura ‘alta’"18 abbandonando o ridimensionando tanto l'intervento nel campo della fs quanto il discorso politico. Ancora una volta, le cose non andarono affatto così. L'editoriale del primo numero della nuova serie della rivista, uscito all’inizio del1979 (prima, quindi, dell'attacco poliziesco-giudiziario del 7 aprile), dimostra chiaramente I'oscillazione a cui prima si accennava. Il punto di partenza era quello, evidente, della fine del ciclo delle lotte degli anni Sessanta. "Fine di un'esperienza, rottura, dicevamo. La generazione del '68 sta consumando, irreversibilmente, I'esperienza della Politica."19  E la situazione politica e sociale era descritta con un certo realismo: si riconosceva "l'indifferenza sociale, l'accettazione del dominio quotidiano travestito da rappresentazione oggettiva, I'adesione al copione dello Spettacolo in cui tutti (...) hanno un ruolo", e si prendeva atto della "stabilità nuova del regime nascente democratico pluralistico e partecipato della borghesia italiana"20 (evidentemente incarnato dai governi di solidarietà nazionale). Ma subito dopo, con una reazione rabbiosa, non si enunciava solo una ribadita estraneità all'esistente, ma si cercava di ridisegnare un percorso che consentisse, nelle evidenti difficolta del presente, di non abbandonare del tutto atteggiamenti, pratiche ed embrionalmente anche programmi, di tipo rivoluzionario - e il tentativo era quello di agganciarci a un dibattito che allora (pareva) stava investendo anche il movimento femminista:

La nostra estraneità a questa società non è in discussione, è forse più forte e profonda di
quanto fosse prima: la nostra alterità non è in vendita. Stiamo con chi non si identifica né
con lo Stato né con |a Società Civile, e se oggi l'esistenza di costoro, di questi strati, è
sotterranea e clandestina, si svolge in un luogo che non ha niente a che spartire con la
rappresentazione che imperversa (e quindi neppure con la lotta truccata tra Stato e
Terrorismo), allora noi viviamo in questo luogo.
In un luogo come questo il "noi" che abbiamo usato finora può, deve perdere la sua
asessualità: nel nostro progetto ci dovrà essere posto, anche, se non soprattutto, per un "noi"
sessuale, tragicamente e felicemente, un noi femminile/maschile, bisessuale. Perché il nostro
è un progetto più, non meno ambizioso di prima: è quello della liberazione da tutte le
oppressioni, da quelle esterne non meno che da quelle interne, introiettate, che ci portano per
esempio a difendere istintivamente il "femminile" o il "maschile" predominante in ciascuno
di noi.
(…)
Un'ambigua utopia vuole diventare sempre di più una tribuna delle diversità, dentro quel
percorso sotterraneo di produzione di rivolte parziali, di ridefinizione di linguaggi e di
comportamenti che è l'unica speranza per la rifondazione di un nuovo soggetto che,
liberando se stesso, liberi tutta I'umanità.21
                
       Quest'ultima affermazione mostra tutti i limiti e tutte le ambiguità di un processo di
maturazione, e le sopravvivenze di un marxismo classico e dogmatico. Il "soggetto che, liberando se stesso, liberi tutta I'umanità, come tutti sappiamo, la formula con cui Marx disegna il compito e il ruolo del proletariato nella sua filosofia della storia che, rimessa con i piedi per terra quanto si vuole, sempre hegeliana rimane. Non voglio coinvolgere oltre misura tutto il collettivo in questo percorso, e quindi forse le affermazioni che seguono andranno riferite unicamente all'estensore materiale di quell'editoriale, che è poi l'autore di questa rievocazione (tutti gli editoriali, sino all'ultimo - che è quello del n. 7 - sono stati sempre discussi collettivamente, ma sono sempre poi stati scritti da una persona: così si svolge il lavoro collettivo, e noi non facevamo eccezione).
       Come hanno scritto Balestrini e Moroni, "il movimento del '77 in Italia sintetizza tutte le
differenti facce della cultura giovanile: I'anima politica di stampo maoista, I'aggressività
guerrigliera si mescolano con il creativismo di chiara derivazione hippy: e tutto questo finisce per sfociare nella cupa e disperata rappresentazione del primo emergere del punk."22 Bene: quale fu la specificità del discorso di Un'ambigua utopia? Quale fu il timbro del nostro discorso nel panorama così sintetizzato da Balestrini e Moroni? La nostra provenienza non era né hippy né autonoma. Venivamo in gran parte da esperienze politiche più "tradizionali" dentro alla sinistra rivoluzionaria degli anni precedenti: esperienze di territorio, di sindacato, di movimenti di settore, di gruppi politici (prevalentemente Avanguardia Operaia, e, per chi scrive, la IV Internazionale, cioè il trockismo). Il fascino che esercitarono su di noi le pratiche e le forme espressive deI '77 fu fortissimo, e si può dire che al nostro interno si esprimessero, in varia misura e con determinanti mediazioni individuali, un po' tutte le "facce della cultura giovanile". Ma il mix culturale-politico di
Un'ambigua utopia non fu, sino in fondo, né il maodadaismo di A/traverso e di Bifo, né il
neoleninismo dell'Autonomia e di Toni Negri, né la disperazione del punk. Per quanto mi riguarda, non conoscevo quasi per nulla Deleuze (avevo provato a leggere L'anti-Edipo, ma il compito, allora, era superiore alle mie forze). Ero arrivato a Foucault tramite Delany, che lo cita in Triton, ma devo sinceramente ammettere che avevo capito pochissimo di quello che avevo letto. I miei riferimenti a lui sparsi nelle cose che ho scritto sino alla metà degli anni 1980 (a partire da “Incarnazioni dell’immaginario") dimostrano che tutto quello che ne avevo tratto era il discorso sulla “microfisica del potere” e quello sulla società disciplinare (e certo in modo riduttivo) - ma non avevo affatto colto, pur avendo letto Le parole e le cose, tutta la sua critica demolitoria della nozione di “soggetto” (e questo spiega le sopravvivenze marx-hegeliane in quell'editoriale). Tutto sommato, l’influenza più forte in quegli anni la subii da Baudrillard, e questo non è forse un caso, se pensiamo che Baudrillard, in quel panorama era l'unico che aveva alle spalle una storia “marxista", e che il suo lavoro, almeno sino allo Scambio simbolico e la morte, era proprio una traduzione dell’economia politica in termini semiotici. Così posso dire che la mediazione che trovai (anche se forse non la cercavo consapevolmente) fu proprio quella di una specie di semiotica generalizzata come chiave di lettura degli incipienti processi  di smaterializzazione e di trasformazione del capitalismo in senso cognitivo. Fine della parentesi autobiografica.




4. Dalla comunicazione-guerriglia alle geometrie della simulazione

Comunque, questo fu lo spirito con cui organizzammo tutte le nostre iniziative in quegli anni, quelle interne e ancor più quelle esterne al mondo della fs. Utilizzando costantemente provocazioni, fake, travestimenti . paradossi (insomma, le tecniche oggi classiche, di derivazione situazionista, della “comunicazione-guerriglia") per esporre le nostre posizioni. Così partecipammo al convegno della cooperativa scrittori, “Il lavoro mentale" (27-29 ottobre 1978), contestando con una nostra azione (insieme a Bifo e agli Skiantos) I'impostazione velleitariamente alternativa, in realtà tutta interna al mondo della cultura degli organizzatori (Balestrini, Leonetti, Fachinelli): il nostro attacco al Pci fu espresso dal palco di Piacenza con un intervento di diversi minuti nella lingua di Vega 4, una lingua di suoni gutturali e retrovocalizzazioni che avevamo già sperimentato all'Invasione dei marziani. Nel 1979 organizzammo a Milano, autonomamente, la conferenza "Fantascienza e realtà' Il caso del nucleare" (che si concluse con I'oratore portato via a braccia da due figure con la maschera del teschio), e il convegno "Marx/z/iana" sui rapporti tra fantascienza e movimento. Partecipammo al convegno di Ferrara “L'Einstein perduto", della cooperativa Charlie Chaplin. Intanto collaboravamo a rubriche di fs a Radio popolare e sulle pagine di Lotta Continua e Il quotidiano dei lavoratori. E nella seconda parte dell’anno ci concentrammo sulla discussione e la stesura del libro per Feltrinelli. Il 1980 fu l’anno della partecipazione alla Convention di Stresa, su cui si è già detto. Intanto, però, stavamo preparando l'apertura di una libreria, "La porta sull’ immaginario", in via MacMahon a Milano, che ci costò (comprensibilmente) uno sforzo organizzativo e finanziario fuori dal comune. La libreria aprì nell’autunno del 1980. Non avevamo finanziamenti di alcun tipo e non ne chiedemmo, se non alle nostre tasche semivuote (la libreria fu aperta, praticamente, con la liquidazione di patrizia Brambilla, che fu anche I'anima organizzativa, culturale e lavorativa di quell’iniziativa). In previsione di questo ci eravamo nel frattempo trasformati in cooperativa. Il tentativo era quello di dotarci di nuovi strumenti, più penetranti, per raggiungere sempre nuovi strati di pubblico e animare il dibattito culturale nella sinistra. Al di là delle nostre debolezze, come spiegammo  nell’introduzione al n. 7 della rivista, uscito all’inizio del 1980, il clima creatosi con l’assassinio di Moro nel 1978 e la repressione giudiziaria generalizzata dell'anno seguente non era tra i più favorevoli per iniziative come la nostra.
            La rivista si prese dunque una pausa di riflessione. Dopo il primo numero del 1977, i tre del1978,i due ciascuno negli anni 1979 e 1980, nel 1981 non usci alcun numero. Quell'anno fummo impegnati, oltre che nella gestione della libreria, solo nella collaborazione a un paio di convegni organizzati da altri (tra cui uno sull'Apocalisse in cui organizzammo un delirante dibattito con la partecipazione di Satana, che fini con una specie di giudizio universale e il sequestro per qualche decina di minuti di meta del pubblico, condannato all’inferno). Per lanciare la libreria facemmo una serie di incontri-conferenze in una biblioteca di quartiere di Milano (a Piazzale Accursio), invitando fra gli altri Darko Suvin, Paola Manacorda, Mario Perniola. Ma soprattutto, lavorammo all'iniziativa che avrebbe dovuto segnare il rilancio di Un'ambigua utopia, della libreria e della rivista. Si trattava di un convegno francamente ambizioso sul tema della "simulazione". L'argomento ci sembrava un'estensione abbastanza naturale del legame, che già avevamo individuato negli anni precedenti, tra la fantascienza e la cosiddetta "intelligenza tecnico-scientifica" (gergo dell'epoca): visto con gli occhi di oggi, non era altro che un'anticipazione - forse eccessivamente lungimirante - di quello che sarebbe scoppiato otto/dieci anni dopo, con le
realtà virtuali e più in generale la cultura digitale. Discutemmo approfonditamente. L'apertura della libreria aveva accelerato un movimento di ricambio nel collettivo: diversi membri fondatori se n'erano andati (tra cui Marco Dubini, Danilo Marzorati, Gerardo Frizzati - quest'ultimo continuo però eroicamente a dare una mano per i conti della traballante cooperativa), da ultimo anche Bulgarelli e quasi tutti i grafici/illustratori (Michelangelo Miani e Maurizio Giannoni), ma altre persone si erano avvicinate: giovani scienziati come Enrico Miotto, e insegnanti come Flavia De Giovanni, Cecilia Ghelli e Fernanda Tucci. Volevamo che fosse un'iniziativa "irreprensibile" sul piano degli standard culturali ufficiali, e così la progettammo. Non avevamo cambiato punto di riferimento strategico, ma il livello del movimento e delle lotte era effettivamente calato, nei due
anni precedenti. Al 7 aprile del 79 era seguito I'anno dopo il licenziamento dei 300 operai FIAT, che di fatto espelleva dalla fabbrica la reale direzione delle lotte autonome dell'ultima parte degli anni 1970, e preparava le ristrutturazioni e le prime massicce espulsioni di forza lavoro degli anni seguenti. E poi, i primi mesi di attività della libreria avevano dimostrato che I'avvio era più difficoltoso di quanto avessimo previsto (in termini di frequentatori e di incassi). Ultimo punto, ma non certo il meno importante, sentivamo che negli anni precedenti avevamo viaggiato su un trend ascendente di popolarità, ma che il sistema dei media (che ci aveva assicurato la maggiore visibilità) tendeva a schiacciarci nel mondo della fantascienza, e che questo era un limite oggettivo, invalicabile senza un colpo di reni che ci trasferisse a un altro livello, in un altro campo - e non solo nel nostro dibattito interno.
         Inutile girarci attorno. Fummo Patrizia e io i motori di II gatto del Cheshire (così si chiamò, alla fine, la rassegna), furono le nostre le preoccupazioni che disegnarono l'architettura dell'iniziativa, furono in particolare le conoscenze e le letture che io avevo accumulato nei tre anni precedenti che costruirono il programma (con l'apporto determinante di Cecilia Ghelli e di Flavia De Giovanni). Per le conferenze di quell'anno avevo preso contatto con Alfabeta e in  particolare con Carlo Formenti, che allora ne era redattore. Nel settembre del 1981 avevo pubblicato il mio primo articolo su quella rivista23, e avevo cominciato a girare per convegni e conferenze. A Mantova avevo conosciuto Jean Baudrillard, di cui due anni prima avevo tradotto il saggio "Simulacri e fantascienza”24, pubblicato anche su Un'ambigua utopia. Il gatto del Cheshire doveva avere una solida cornice teorica, e con l'aiuto di Carlo ci sarebbero stati, in video o dal vivo, Alberto Abruzzese, Franco Bolelli, Omar Calabrese, Christian Descamps, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Renato Giovannoli, Gilles Lipovetsky. Per la poesia Cecilia Ghelli avrebbe portato Tomaso Kemeny. Flavia De Giovanni ci mise in contatto con Antonio Attisani, che avrebbe organizzato una minima ma splendida rassegna teatrale con Ipadò, La condizione mentale, Santagata/Morganti e Il marchingegno (in attesa di trasformarsi in Krypton). Daniele Brolli stava lavorando a una performance-video che mi è rimasta nel cuore, Pasadena Sunrise. Gianni Ingellis ci assicurava un role playing di Il signore degli anelli dal vivo. La colonna sonora sarebbe stata curata da Bolelli con Saro Cosentino. Daniela Brambilla avrebbe organizzato una rassegna su "Arte e simulazione" davvero ampia, con opere (fra gli altri) di Bonalumi, Carmi, Cavaliere, Isgrò, La Pietra, Mantica, Paolini, Pardi, Pericoli, Pistoletto, Varisco. Trattavamo per avere una spettacolare rassegna di ologrammi appena presentata a Bologna, Laserart. Era una cosa troppo grossa perché la organizzassimo solo noi. Discutemmo il progetto con Gianni Sassi, e II gatto del Cheshire divento un'iniziativa Un'ambigua utopia/Intrapresa. Nessuno aveva i soldi per farla. Nel pieno della progettazione decidemmo che avremmo fatto una cosa che non avevamo mai fatto: chiedere un finanziamento a un ente pubblico, al Comune di Milano. Era l'unico modo per realizzare la cosa. Gianni Sassi, che ne sapeva un po' più di noi, era stato tassativo: senza i soldi pubblici, non si poteva fare.
           Il bilancio preventivo, nella tarda primavera 1981, era di 30 milioni di lire (al tasso
nominale, 15.000 euro, diciamo 30.000 reali; era escluso, ovviamente, il nostro lavoro, che non venne mai neppure conteggiato). Nell'autunno era già arrivato a 40. Al Comune ne chiedemmo 50. Eravamo tutti fortemente dubbiosi che ci avrebbero dato retta. Non avevamo alcun appoggio politico, nessuna raccomandazione - semmai, se si fossero dati la briga di fare qualche ricerca, avrebbero scoperto una nostra collocazione politica poco raccomandabile. Non so dire se Sassi abbia mosso qualche pedina. Non mi pare. L'assessore alla cultura della giunta milanese di allora era Guido Aghina, un radicale in quota PSI dal passato movimentista, ma che a noi si presentò con una faccia abbastanza istituzionale. Istituzionale ma disponibile. L’iniziativa pareva interessargli. Dopo qualche incontro ci disse: “Posso darvi 30 milioni." Il nostro bilancio preventivo era già salito a 60. Ma era così: o prendere, o lasciare. Nonostante I'avvallo e la collaborazione di Sassi (che fece gratis tutta la grafica, e un bellissimo manifesto con un gatto degli anni quaranta ubriaco davanti a un juke-box), Intrapresa non era partner finanziario. Il finanziamento lo prendemmo noi. Anche i contratti li firmavano noi, e le fatture le pagavamo noi (cioè non le pagavamo, perché i soldi non c'erano). Così, dal 20 al 23 maggio 1982, negli splendidi chiostri della Società Umanitaria a Milano, si svolse Il gatto del Cheshire. Rassegna di teorie e pratiche della simulazione. Stampammo il n. 9 della rivista, col gatto di Sassi in copertina e replicato all'interno, firmato Alik Cavaliere. Alla rassegna ne vendemmo sì e no 200 copie. Il numero non andò mai in distribuzione nelle edicole, e mi pare neppure nelle librerie. Se non ricordo male, il biglietto era a 5.000 lire. Avemmo circa un migliaio di visitatori.
      Nell'autunno dello stesso anno Novella Sansoni, Assessore alla cultura della Provincia di Milano, organizzò una serie di mostre mercato sul libro di fantascienza e qualche rassegna cinematografica nelle biblioteche della provincia. Il progetto ci venne assegnato. Fra I'ottobre 1982 e il febbraio 1983 organizzammo cinque o sei di queste iniziative. Nel frattempo aspettavamo ancora il finanziamento del Comune (che arrivo, mi pare, nell'estate 1983). La libreria chiuse all'inizio del 1983, e con essa la parabola di Un'ambigua utopia. La Milano da bere si era già saldamente installata, nelle strade e nelle coscienze.




1Ursula K. Le Guin, Quelli di Anarres (I reietti dell'altro pianeta), trad. it. di R. Valla Nord, Milano 1994, ed. or. 1974, prima ed. it. 1976.
2 Non è un autoelogio: rimando ai giudizi su di noi di Valerio Evangelisti, Primo Moroni e Bruna Miorelli, come sono
stati riportati da Giuliano Spagnul in "Un'ambigua utopia" (Un'ambigva utopia. Fantascienza, ribellione e
radicalità negli anni 70, a cura di A. Caronia e G. Spagnul, Mimesis, Milano 2009, vol. II, Appendice p. 20).
3 V. Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro 1968-77. Lo grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed
esistenziale, nuova ed. a cura di Sergio Bianchi, Feltrinelli, Milano 1997 (l^ ed. Sugarco 1988), pp. 574-581.
4 Un'ambigua utopia, cit., vol. II, Appendice.
5 “Un’ambigua utopia” n. 1 dic. 1977, p. 3, in Un’ambigua utopia, cit., vol. I.
6 Quelli di Napoli si chiamarono poi, col titolo della loro rivista, Pianeta rosso: ma ancora nel 5° numero di                                “Un’ambigua utopia” (gennaio/febbraio 1979) si firmavano “Collettivo napoletano di Un’ambigua utopia”.
7 Una cronaca beffarda, presentata attraverso la lente deformante dell'ossessione del terrorismo, e nella forma
paradossale di un falso numero di Repubblica (secondo il modello del Male) si trova nel n. 8 della rivista, pp. 3 I -34
(Un'ambigua utopia, cit., vol. II).
8 Nei labirinti della fantascienza. Guida critica a cura del collettivo “Un'ambigua utopia", Feltrinelli, Milano 1979,
pp. 5-6.
9 A. Caronia, "Incarnazioni dell’immaginario" in Nei labirinti della fantascienza, cit., p.29.
l0 lvi, p. 30. Per il riferimento a Foucault, e i limiti della sua influenza su Un'ambigua utopia, v. più avanti.
11 "Editoriale P.P.P.P.P. (Politico, Psicotico, Programmatico, Partitico, Pitrentottista)": "Un'ambigua utopia" n. 3, estate
1978,p. 4,in Un'ambigua utopia, cit., vol. I
12 "Fuori i marziani dalle galere": "Un'ambigua utopia" n. 4, novembre/dicembre 1978, p. 3, in Un'ambigua utopia,
cit., vol. I.
13 M.A. Miglieruolo, "Anche tu tra quegli animali?", "Un'ambigua utopia" n. 4, novembre/dicembre 1978, p. 9, in
Un'ambigua utopia, cit., vol. I.
14 A. Caronia, "Noi diciamo che questo è un progetto.. .", "Un'ambigua utopia" n- 4, novembre/dicembre 1 978, p.11,
in Un'ambigua utopia, cit., vol. I (il corsivo è nel testo).
15 Franco Berardi (Bifo) Dell'innocenza. Interpretazione del settantasette, Agalev edizioni, Bologna 1989, p. 8.
16 lvi,pp.9-10.
17 P. Fiorili, "Vita d'ambiguo", in Un'ambigua utopia, cit., vol. II, Appendice, p. 9.
18 Ivi, p.10.
19 "Quando cambierà", "Un'ambigua utopia. Rivista bimestrale di critica marx/z/ziana”, a. III n. 1, gennaio-febbraio
1979,p. 1, in Un'ambigua utopia, cit., vol. II.
20 Ivi, p.2.
21 lbid.
22 L'orda d'oro, cit., p. 629
23 A.Caronia, "E naturale che sia artificiaIe", Alfabeta n. 28, settembre 1981, ora in: A. Caronia, Universi quasi paralleli, Cut-up edizioni, Roma 2009, pp.24-32.
24 J.Baudrrllard, "Simulacri e fantascienza”, in La fantascienza e Ia critica. Testi del Convegno internazionale di

Palermo, Introduzione e cura di Luigi Russo, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 52-57.