Linus febbraio 1981
La fantascienza a teatro non la si incontra spesso.
Al cinema sì, è un’altra cosa: effetti speciali, prospettive intere di
astronavi, galassie, alieni in abbondanza. Il teatro, sembra, è più legato a
effetti di verosimiglianza: persone in carne ed ossa, movimenti in tempo reale,
il corpo si misura con i suoi limiti effettivi, senza la mediazione della
macchina. A sfatare tutti questi luoghi comuni ha provveduto il Teatro dell’Elfo,
che dopo l’esperienza di Dracula, ha
presentato a Milano nel dicembre scorso Il
gioco degli dei: 2763 romanzi e fumetti (non facciamo le pulci sul numero)
contaminati con l’Odissea. La storia è semplice: Elio, giornalista e critico
teatrale, viene sbalzato in una specie di altra dimensione, dove viene
utilizzato in qualità di pedina in una partita giocata da un manipolo di
stilizzati e improbabili dei. Come un certo signor Bloom il 16 giugno di un
anno all’inizio del secolo in una corposa e onnidigerente Dublino, Elio dovrà
percorrere le tappe rituali del viaggio omerico, travestite questa volta con i gadget
aerei, strampalati e a prima vista molto meno impegnativi della fantascienza
degli anni Sessanta, vestita e disegnata come ci si vestiva e ci si disegnava allora:
con il pulito e ossessivo bianco e nero della pop-art. Tutta la critica (quasi
tutta senza eccezione) ha voluto vedere in Il
gioco degli dei una rivisitazione del passato, la solita storia di una
generazione, l’impossibile riconciliazione con i pezzi del proprio io
abbandonati nel trapasso dall’adolescenza alla maturità: confortata in questo
anche dalle parche dichiarazioni dei facitori dello spettacolo. Ma il dubbio
rimane: perché, per mettere in scena la crisi dei trentenni, si ricorre al
travestimento della fantascienza, e non, poniamo, dei romanzi di Salgari, del
giallo, o di qualunque altro genere parimenti avventuroso? Azzardo un’ipotesi:
che la fantascienza in Il gioco degli
dei non sia, come si è scritto da varie parti, un pretesto, ma una forma
necessaria del gioco, una forma che si imponeva quasi da sola nel momento in
cui si sceglieva di abbandonare pretese “profondità” e ci si lasciava andare
all’abisso superficiale dell’accadere scenico. Confesso che quello che ho
apprezzato di più, in questo spettacolo, non sono state le parti in cui sembra
trasparire un senso, quelle che sembrano fare da supporto al “discorso” sulla
scissione dell’io, sul tempo della memoria. O meglio, anche in queste scene
quello che sembra saltare di più agli occhi è il meccanismo della gag, la
combinazione delle forme, la movimentazione della scena, che si offrono al di
fuori di ogni “verosimiglianza”, ostentano esse stesse le proprie tecniche di
costruzione, rendono trasparente la macchina teatrale: un po come i film di
Nichetti, quando il mare di tela viene sollevato e si vede la gente che cammina
carponi con le braccia alzate a fare le onde. È uno spettacolo di simulacri, di
copie senza originale: lo stesso spettacolo che per prima, forse, ci ha offerto
la fantascienza, mettendo sempre più a nudo e raffinando sempre più i propri
meccanismi narrativi e le proprie figurazioni, credendo sempre meno a quello
che andava raccontando, travolgendo ogni questione di stili e di ideologie per
ricongiungersi alla fine, riciclare, digerire e vomitare i “racconti fantastici”
più lontani e più diversi dalla fantascienza che ci siano: i miti. Proprio come
in Il gioco degli dei: Omero e
Sheckley. La fantascienza un pretesto? Suvvia, non siamo seri.
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