Linus maggio 1983
“Era profondamente radicata in loro la percezione
che nell’Universo niente esiste come Materia, ma che tutto è Energia. Che noi
tutti siamo solo ombre della stessa Energia, che niente e nessuno possiede
un’identità propria. Che non esistono cose;
e che, in realtà, l’elemento caratterizzante l’Universo consiste nella sua inesistenza.” Troviamo questa sintetica
esposizione divulgativa dell’ipotesi idealista, a mezza strada fra il vescovo
Berkeley e le dottrine buddiste, in Tempo
di mostri, fiume di dolore di James Kahn (Urania n. 934, pp. 264, L. 1800)
che presenta l’ennesima versione del mondo “dopo la catastrofe”: ma con tale
ricchezza di scenari, particolari e riferimenti, da farne un utile repertorio
di temi e figure dell’immaginario fantascientifico di questi ultimi anni. Qui
risiedono le ragioni dell’interesse del romanzo, più che nell’andamento
narrativo, abbastanza tradizionale anche se fluido e a tratti serrato. Ecco lo
scenario: nel 24° secolo l’avanzata dei ghiacci ha ristretto l’abitabilità
della terra a ristrette fasce temperate, ma l’umanità arriva all’appuntamento
falcidiata dalle precedenti guerre nucleari e biologiche. In una America frazionata
in piccoli territori e comunità, i pochi umani convivono con una pletora di
esseri da incubo, usciti dalla fantasia dell’uomo dei secoli precedenti:
Vampiri, Centauri, animali pensanti e parlanti, fino agli esseri artificiali
più sofisticati, i Neurumani, corpi sintetici costruiti attorno a un cervello
umano, isolato e tenuto in vita con tutto il bulbo spinale. È evidente quanto
uno scenario del genere debba a Ballard, a Delany, a Farmer: il confronto con l’ultimo
romanzo di quest’ultimo, Il sole nero
(di cui si è parlato su queste pagine qualche mese fa) (1) si impone anche per la somiglianza di due dei protagonisti, il
centauro Beauty nel romanzo di Hahn, e l’essere vegetale Sloosh in quello di
Farmer. Ma sono evidenti anche le differenze: mentre Farmer si limita a mettere
in scena i suoi personaggi, i suoi esseri mitologici, lasciando nell’ombra la
loro origine, e anzi insinuando nel finale il dubbio che quel mondo sia proprio
il nostro mondo, Kahn si preoccupa di dipingere un quadro razionale, e di
informarci che vampiri, centauri e altri esseri fantastici sono il prodotto di
manipolazioni genetiche su larga scala. Quale che sia la loro origine, però,
tutti questi abitatori della fantascienza più recente alludono, con le loro
forme e lo spazio che si portano dietro, ad un mondo che, per essere
fantastico, non è meno attuale: un mondo in cui il posto centrale non è più
occupato dall’uomo e dai sistemi di relazioni, di psicologie, di motivazioni ad
esso collegati, ma dagli esseri (o, a volte, solo dalle funzioni) artificiali
di cui l’uomo stesso, negli ultimi decenni, ha già cominciato a circondarsi. È una
società post-umana quella che la
fantascienza più recente ci descrive: è quella che Ridley Scott, forzando forse
il testo ma non l’insieme dell’opera di Dick, ha messo insieme così
efficacemente in Blade Runner, una
società in cui l’uomo non è scomparso, ma deve affrontare tutti i nuovi e
sconvolgenti problemi che derivano dalla coabitazione con un insieme di forme
di vita artificiali, prodotte da lui stesso eppure dotate di logica,
sensibilità, comportamenti, aspettative, strategie a lui estranee. Nonostante
la similarità degli argomenti e degli scenari, non è più della vecchia
fantascienza catastrofista degli anni 50 e 60 che si tratta, ora, ma del
riconoscimento (con tutta la paura e l’angoscia che questo ancora comporta) che
l’uomo, anche prima del fatidico incontro con gli esseri provenienti da altri
mondi, non è più solo, già oggi, su questa terra; che bisogna scoprire poco a
poco, o inventarsi tutto d’un colpo, un nuovo modo di convivere con i prodotti
della nostra creatività.
(1)
Meglio morti che immortali, in
Linus novembre 1982 QUI
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