In un recente convegno (Teoria dei sistemi e razionalità sociale, Bologna, 21/22/23 ottobre
1983) si è parlato da molti punti di vista e con grande passione dello stato
delle scienze sociali oggi, in relazione al nuovo paradigma della cosiddetta
“teoria dei sistemi” introdotta in sociologia principalmente ad opera di Niklas
Luhmann. Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ho ascoltato e
letto, perché non sono né filosofo né sociologo, ma alcune cose mi sono sembrate
interessanti. Il concetto di sistema, ha spiegato a un certo punto Luhmann
nella sua introduzione è di tipo “autoreferenziale”, intanto perché la
descrizione di un sistema è essa stessa un sistema, ma anche perché, in un
senso più specifico, è il sistema stesso a produrre gli elementi di cui è
costituito, in modo che la sua organizzazione in un dato momento è il risultato
dei rapporti e delle relazioni fra i suoi elementi interni. E, come è naturale,
lo stesso carattere di “aureferenzialità” è insito nella teoria dei sistemi: è
proprio questo carattere, secondo Luhmann, che consente alla teoria di
svilupparsi senza riferimenti a finalità esterne (e quindi senza infiltrazioni
di un punto di vista “morale”). Il concetto di “sistema autopoietico” (cioè autoproducentesi,
autocreantesi), Luhmann lo trae esplicitamente dalla biologia e dalla
cibernetica: il sistema biologico, o, se volete, cibernetico, è quello che è
capace di mantenersi stabile attraverso l’omeostasi,
cioè un intercambio di materia, energia, informazione, fra interno ed esterno
in grado di produrre nel sistema le modificazioni necessarie a garantire la sua
sopravvivenza in relazione agli stimoli dell’ambiente. È stato a questo punto
che mi è scattato un relai nella testa:: mi sono improvvisamente ricordato dove
avevo letto per la prima volta quel curioso termine (omeostasi): era stato verso la metà degli anni Sessanta, in un
racconto di Philip K. Dick. A quel punto ho smesso di ascoltare e mi sono messo
a divagare. Potremmo dunque considerare la fantascienza di Dick come una antesignana
delle più recenti teorie sociologiche: i suoi universi sono proprio dei “sistemi”
nel senso di Luhmann, che si autoregolano, riproducono costantemente le
condizioni della propria esistenza in modo del tutto immanente, dilatandosi
fino a comprendere nel possibile (o nel pensabile) anche l’improbabile, come
accade, per fare un esempio, in Ubik.
Ma in realtà è tutta la fantascienza, nella sua qualità di elemento egemone,
riassuntivo, dell’immaginario tecnologico contemporaneo, ad avere le
caratteristiche del sistema cibernetico. La fantascienza “sociologica” degli
anni Cinquanta si conferma in questo senso come il momento in cui questo genere
letterario basso acquista una prima coscienza di sé, e comincia a diventare
fenomeno culturale di massa, costituendo quel “polo fantastico” contrapposto a
un “polo realistico” di cui ha parlato più volte Pagetti (rimando al suo
intervento contenuto nel volume L’Einstein
perduto, atti del convegno di Ferrara del 24/26 ottobre a cura di Alberto
Poggi, Edizioni Coop, Charlie Chaplin, 1982, L. 6.000). La recente ristampa di
un romanzo di Sheckley, anche se non dei migliori, permetterà di verificare
questa tesi anche al lettore più distratto (Gli orrori di Omega, Classici FS, Mondadori, L. 3.000). Per citare
sempre Luhmann, è nel momento in cui la teoria dei sistemi riconosce se stessa
come soggetto e contemporaneamente come oggetto di indagine che nasce l’ironia: una strada che appunto la
fantascienza sociologica – e il suo rappresentante più swiftiano, che è stato
Sheckley – aveva già percorso nel rovesciamento della tradizione del romanzo
utopistico. E non è forse un caso che uno degli autori di sf che, rimessosi a
scrivere dopo anni di silenzio, riproponga la tematica della fantascienza come
autoriferimento, come autocitazione, arrivi proprio dall’esperienza degli anni
Cinquanta, e si chiami Frederik Pohl (v. il suo recente Alla fine dell’arcobaleno, Nord, L. 6.000).
giovedì 31 dicembre 2020
Antonio Caronia: Fantascienza come sistema
Linus dicembre 1983
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