Linus dicembre 1980
-Ah-, dice, -voi siete quelli che scrivono su Linus-, -Eh,
sì-, rispondiamo noi, e poi ci vergogniamo un po’ e nervosamente cerchiamo di
parlare d’altro, perché ci sembra che la domanda successiva debba essere: -Ma
che ci scrivete a fare?- (come, un po’ di anni fa, davanti alle fabbriche, ci
chiedevano: -Ma chi vi paga?-). Che sia una crisi di identità con tutti i
crismi, o un semplice momento di astenia autunnale, ci stiamo chiedendo da un
po’ (ed è per questo che temiamo che gli altri ce lo chiedano) che cosa voglia
dire questa nostra rubrichetta di segnalazioni, polemiche e varia umanità:
anche perché –va detto- ci pesa la maniera poco educata con cui l’abbiamo
iniziata, alcuni mesi fa, così, subito nel merito senza neppure presentarci
brevemente. E non opponeteci che nelle nostre angosce scribacchino-esistenziali
a voi lettori manovratori-manovrati di-da quella macchina dal bizzarro
funzionamento che è il mercato, poco importa. Perché è dalla risoluzione, o
meno, di queste angosce che dipende il fatto che noi scriviamo cose frizzanti e
intelligenti, oppure delle vaccate. E quindi, fedeli ad una concezione
tardo-democratica del rapporto scrittura/fruizione, di queste angosce facciamo
partecipi anche voi, che se in fondo siete tutti diventati dei “lectores in
fabula” è anche colpa vostra. Non cercate neanche di prenderci in castagna
ricordandoci, con aria di sufficienza, che nella società dei simulacri il senso
implode, che la distanza tra reale e immaginario è abolita, e quindi che senso
ha chiedersi che senso c’è. Eh: Baudrillard, Lyotard, Perniola e Vattimo li
leggiamo anche noi: e tutte quelle cose lì le abbiamo anche già dette e
scritte, quando il problema era di fare bella figura. Ma guardate che anche
fare gli alfieri del non senso mica è facile: non basta dire: -Ah
dimenticavamo: il senso è imploso, e tutto denota tutto e perciò non connota
più niente-. Forse è un passo importante, però magari l’hanno già fatto i Wutki
più di dieci anni fa su un giornalino che si chiamava come questo. Certo, si
può fare come quelli di Frigidaire, che dicono: -Non chiedetevi che rapporto c’è
fra tutto quello che trovate qui dentro, perché tanto anche la vita è
incasinata, e questa rivista, che non è niente di meno, anche-. Sfido: quelli
si chiamano Pazienza, Scozzari, e così via, e possono anche far finta di essere
la vita. Ma qui è un’altra cosa. Ricapitoliamo. Quando l’O.d.B. ci ha chiesto
di tenere questa rubrichetta per parlare della fantascienza, segnalare i libri,
fare le nostre polemiche (con moderazione), noi,
collettivo/cooperativa/redazione di rivista/adesso anche libreria, agenzia
fotografica e tutto quello che siamo, abbiamo accettato con entusiasmo, perché
eravamo convinti che questo discorso sulla fantascienza fosse sottovalutato,
preso sottogamba un po’ da tutti. Ci siamo detti: -Bene, ecco un’altra
occasione per cercare di capire meglio questo rapporto tra fantascienza e
realtà, per capire quanto nella nostra vita è diventato fantascienza (o quanto
la fantascienza è diventata la nostra vita)-. Perché a noi il problema sembrava
questo, e ci esaltavamo ancora, trovavamo la forza di meravigliarci nel vedere
quanta parte dell’immaginario, del repertorio di immagini
tecnologiche/sociologiche/antropologiche/alienontologiche della fantascienza si
stesse trasferendo nella nostra vita quotidiana. Ecco: poi, forse, dietro alle
novità librarie, alle polemiche con quelli che della fantascienza hanno ancora
un’immagine e una pratica che a noi pare vecchia, quel discorso non siamo
riusciti a farlo. O non siamo riusciti a farlo molto chiaro: forse anche perché
i primi a non averlo chiaro eravamo noi. Però l’intenzione era questa, e se non
ve l’avessimo detto, forse non si sarebbe capito perché adesso vi parliamo di
un piccolo convegno a cui siamo stati e che, un poco, ha contribuito a renderci
meno confuse le idee.
https://un-ambigua-utopia.blogspot.com/2019/10/antonio-caronia-fra-codice-e-codice.html
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