Amo l’India. Certamente un’India letteraria (quella
reale non l’ho mai vista e non so se mai la vedrò), che ho incontrato da
bambino nei romanzi prima di Salgari e poi di Kipling, e che deve essermi
rimasta dentro a maturare. In anni più recenti mi continua a stupire, con un
atteggiamento che so essere ingenuo ma da cui non mi libero, lo scarto fra la
grandiosa mitologia induista (che mi hanno aiutato ad esplorare gli splendidi
studi di Georges Dumézil) e la presente realtà, la miseria e la fame – che solo
le condizioni ancora più tristi dell’Africa hanno cancellato dall’attenzione
dei giornali – la tirannia del regime. Dopo aver letto i romanzi pazzi e
vorticosi di Salman Rushdie, di cui ho parlato puntualmente su queste pagine, mi ero accostato con qualche
diffidenza al voluminoso “Rj Quartet” (quartetto indiano) dell’inglese Paul
Scott, di cui compare adesso, tradotto in italiano dall’instancabile Roberta
Rambelli, il primo volume, La gemma
della corona, The Jewel in the Crown, (Garzanti, pp. 568, L. 15.000),
uscito nel 1966 in Inghilterra, dall’anno scorso è anche una miniserie
televisiva (14 puntate) di buona fattura, premiatissima nell’isola e
all’estero, che anche gli italiani potranno vedere prima o poi, quando una
delle reti di Berlusconi deciderà di metterla in programma (visto che è già
acquistata). In questo romanzo ponderoso e corale si parla degli avvenimenti
dell’agosto 1942 (la sconfitta britannica in Birmania, i primi appelli di
Gandhi alla disobbedienza civile) e di come essi furono vissuti nella città di
Mayapore. Lo scollamento fra la comunità indiana e quella inglese viene visto rifratto
nelle storie di alcuni personaggi, nella loro evoluzione e nei loro incontri
obliqui e problematici, con la tecnica ben nota delle testimonianze e dei punti
di vista diversi che si succedono man mano a illuminare (o complicare) il
quadro. C’è la vecchia insegnante “libera” che si scontra con la realtà brutale
dei disordini e della morte, la giovane infermiera bruttina che rimane vittima
di una violenza nei giardini del Bibigha, il poliziotto inglese innamorato che
ha già scelto come vittima il giovane indiano occidentalizzato che si rifiuta
di parlare persino la sua lingua, la saggia e disincantata lady indiana
testimone del cambiamenti. Certo Scott non è Rushdie, e neppure Durrell: però
mostra di conoscere bene l’India, e per lenta sovrapposizione costruisce un
quadro illuminante (anche se non sempre intrigante) dei rapporti fra due
civiltà così diverse. Non senza qualche buona arguzia britannica, come questa
definizione che degli inglesi dà la vecchia lady indiana: -Siete uno strano
popolo. Quando camminate al sole, siete consapevoli della lunghezza o della
brevità delle ombre che gettate sul suolo-. Il tema dello scontro fra due
culture è anche al centro dei tre racconti di London che Sandro Roffeni ha
raccolto e ci presenta col titolo di uno di essi, Il rosso, (Sugarco, pp. 142, L. 8.000). Sono tre storie ambientate
nei mari del Sud, scritte da London nell’anno stesso della morte, il 1916.
Quella che dà il titolo alla raccolta è il resoconto di una sfida e di una
sconfitta: un bianco prostrato dalle malattie equatoriali tenta di penetrare il
segreto della lontana divinità a cui gli indigeni di Guadalcanal (Isole Salomone)
tributano efferati sacrifici. Mentre la tribù che lo ospita attende ansiosa il
momento della sua morte, Bassett riesce a intuire l’origine extraterrestre
dell’enorme uovo senziente, il Rosso, che gli indigeni considerano dio, ma non
sopravviverà per portare la notizia in Patria. È la sconfitta della razionalità
occidentale che non riesce a superare la prova di questa vera e propria discesa
agli inferi costellata delle ossa dei sacrificati al Rosso. Di ossa parlano
anche gli altri due racconti, ambientati invece nelle isole Hawaii, e
indubbiamente più “solari”. Tuttavia anche nell’ultimo racconto, Tibie, che personalmente ho apprezzato
di più, si narra di una discesa nella notte, nel passato rappresentato dal
luogo segreto dove riposano le ossa degli antenati di un giovane principe
hawaiano. La spedizione è descritta magistralmente, con un piede sul pedale
dell’orrore e l’altro su quello dell’ironia, fornita dal contrasto fra il
giovane principe ormai occidentalizzato e miscredente e il vecchio e tremebondo
servo. Ormai alla fine della vita, London è in grado di trattare con inedita
leggerezza uno dei suoi temi preferiti, lo scontro della civiltà con le forze
della natura e della tradizione.
Nessun commento:
Posta un commento