lunedì 17 febbraio 2020

Antonio Caronia: Destinazione personaggio


Linus - maggio 1980
Uno dei cambiamenti più significativi che si è prodotto nella fantascienza da dieci/quindici anni a questa parte (qua in Italia ce ne stiamo accorgendo più di recente, perché il ritmo di traduzione delle opere più interessanti è molto lento) è quello che si potrebbe chiamare la rivincita del personaggio. Ursula Le Guin riprende il personaggio tipico del romanzo ottocentesco, il protagonista del “romanzo di sviluppo” o di educazione, ed è forse l’esperimento meno interessante; altri, come Delany, tengono conto di tutto quanto è successo nel romanzo “ufficiale” in questo secolo, e mettono in scena personaggi post-joyciani, lacerati, sballottati, alla ricerca confusa di ragioni di sopravvivenza, dotati solo di brandelli di soggettività. Il primo passo avanti, rispetto ai cow-boy galattici tutto muscoli o agli scienziati pazzi degli anni ’30, e ai cervelloni della finanza e della scienza anni ’40, l’aveva fatto la fantascienza che poi si sarebbe chiamata “sociologica”, quella della rivista Galaxy negli anni ’50. Ma i personaggi di Pohl e Sheckley, uomini della strada, americani medi alle prese con problemi più grandi di loro che quasi mai risolvevano brillantemente, erano poco più che marionette, pretesti narrativi puri e semplici, assolutamente intercambiabili. La “rivoluzione del personaggio”, che andò di pari passo con la rivoluzione del linguaggio, e di gran parte del modo di concepire e di fare la fantascienza, si ebbe solo con gli scrittori che cominciarono ad operare verso la fine degli anni ’60, con quella che allora venne chiamata New Wave e i suoi successivi sviluppi. Eccezioni, però, ce n’erano state anche negli anni ’50. E una in particolare, che si chiama Alfred Bester, appare ad ogni successiva rilettura più interessante. Sarebbe bello che la recente ristampa del suo primo romanzo, L’uomo disintegrato (Classici Fantascienza n. 34, Mondadori, L. 1.500), servisse a far parlare di più di questo autore, che ha iniziato negli anni ’50, come hanno notato Scholes e Rabkin, molto di quello che sta succedendo oggi nella fantascienza (l’osservazione valga anche da autocritica, visto che neppure noi, nella nostra guida Nei labirinti della fantascienza, gli abbiamo dato molto spazio. Ma siamo qua per riparare). Ciò che rende Bester così interessante, e oggi forse più ancora che negli anni ’50, è presto detto: è la sua capacità di stare dentro alle convenzioni della fantascienza, senza restarne prigioniero, che è poi, se non ricordo male, quanto raccomandava Raymond Chandler a proposito del giallo. Sia L’uomo disintegrato (1953) che i successivi Destinazione stelle (1956; Cosmo Oro, Editrice Nord, 1976, L. 3.500) e Connessione Computer (1975; Narrativa d’anticipazione, Editrice Nord, 1977, L. 3.000), unici romanzi scritti da Bester, sfuggono a una lettura in termini di semplici romanzi di avventura. Visti così, apparirebbero come è apparso Destinazione stelle al non troppo acuto Jacques Sadoul: un confuso affastellarsi di scene e “artificiose” sequenze di fatti. Il fatto è che il Ben Reich di L’uomo disintegrato o il Gully Foyle di Destinazione stelle, come d’altronde i loro antagonisti, combinano casini, complicano le cose, non fanno quello che ci si aspetterebbe da (rispettivamente) un assassino che tenta di occultare un delitto e dei poliziotti con poteri di percezione extrasensoriale, e un macchinista ostinato e furibondo che cerca di vendicarsi per essere stato abbandonato nello spazio. Ben Reich e Gully Foyle sono, a dispetto delle apparenze, antenati del Bron Helstrom in Triton di Delany, cioè esponenti della categoria di coloro che “non sanno quello che vogliono”: non “personaggi” come lo sono quelli di Ursula Le Guin, alla ricerca dell’identità e della conciliazione, anche con tutte le loro contraddizioni, ma personaggi mutilati, furibondi, che riempiono la loro vita con uno scopo autimposto e maniacale (che non realizzano che a metà, mentre “incidentalmente” scoprono o fanno qualcosa di molto più grande: ma i finali, in genere sono sempre molto deludenti in Bester). Non è sicuramente un caso che Alfred Bester (il quale tra l’altro, si è occupato di molti altri media, dai fumetti alle sceneggiature televisive) sia stato uno dei primi autori nella fantascienza ad utilizzare idee e spunti della psicanalisi, e che il sogno occupi così gran parte della sua produzione, specialmente nei racconti. Due fra le scene più belle nei romanzi di cui si è parlato finora sono quelle in cui si mette in scena la dissoluzione della logica del mondo “reale”: in L’uomo disintegrato quella in cui Ben Reich vede svanire, a poco a poco, letteralmente, tutto il mondo intorno a sé per ritrovarsi solo in una regione di puro “spazio”; in Destinazione stelle il finale in cui Gully Foyle, nella cattedrale bruciante, viene colpito dalla sinestesi e il suo cervello riceve le sensazioni dei suoi sensi scambiate tra loro. Sono, soprattutto il secondo, non tanto pezzi di “bravura” quanto allusioni ad un uso del linguaggio svincolato dal limite della matafora, che esprima quella mescolanza di reale e immaginario che è caratteristica di tanta parte della fantascienza più recente, da Lafferty a Disch a Delany. Per chi vuole un primo contatto con i temi e il mondo di Bester, anche dal punto di vista dei gustosissimi impasti di lingue, dialetti, citazioni accuratamente nascoste, in forma più immediata e meno elaborata che nei romanzi, sono del resto disponibili in gran parte i suoi racconti, nel volume Stella della sera (Narrativa d’anticipazione, Ed. Nord, 1978, L. 4.500).

Alfred Bester

venerdì 24 gennaio 2020

Antonio Caronia: Il cacciatore di androidi



Linus dicembre 1982

Piove sempre, in questa Los Angeles del 2019, le facciate degli enormi grattacieli, da cui a intervalli regolari sorridono enormi e improbabili visi di geishe portati in primo piano, riproducono i meandri intricati di un microprocessore, d’altra parte tutta la decorazione labirintica degli interni, l’architettura pesante e barocca degli edifici ricordano stranamente sempre l’elettronica, per quel poco che se ne può vedere quando una fonte di luce obliqua e incassata si rivela improvvisamente. L’acqua e la penombra dominano incontrastati in Blade Runner, l’ultima fatica di Ridley Scott (I duellanti, Alien): l’acqua che scende dal cielo, implacabile e radioattiva, e che penetra scivolando sui muri interni della casa nel corso della lotta finale tra il poliziotto e il capo degli androidi, la penombra che avvolge strade e stanze e che la luce riesce di volta in volta a respingere provvisoriamente, mai a fugare del tutto. Scott e i suoi sceneggiatori hanno eliminato o attenuato alcuni degli elementi che spiegavano questa situazione nel romanzo da cui il film è tratto: ma hanno reso con grande efficacia e quel che più conta con discrezione il clima di oppressione che sovrasta la città descritto già da Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheeps? (“Sognano gli androidi pecore elettriche?”. La prima edizione italiana, uscita col titolo Il cacciatore di androidi più di dieci anni fa, è ormai esaurita, la prossima è annunciata dall’Editrice Nord, con discutibile scelta dei tempi, per la primavera prossima). Do Androids Dream…, pur non potendo essere considerato uno dei capolavori di Dick, resta nondimeno un romanzo interessante. Il tema di fondo è sempre quello del Dick degli anni Sessanta, la confusione fra i diversi piani di realtà, l’androide come copia talmente perfezionata dell’uomo da non potersene più distinguere. Il disagio del protagonista, Rick Deckard, oscuro impiegato di polizia incaricato di “ritirare” dalla circolazione sei androidi pericolosissimi dell’ultimo raffinatissimo modello, il Nexus-6, nasce dalla scoperta progressiva di una segreta affinità tra se stesso e le sue vittime: anche la vita di Deckard si svolge in una dimensione artificiale, segreta spesso ma sempre determinante, con l’”organo degli umori”, computer induttore di stati d’animo che regola il suo stanco rapporto con la moglie, e gli animali “elettrici”, robot zoomorfi che sostituiscono gli animali veri ormai in via di estinzione per effetto della radioattività (la Terra è ormai quasi completamente spopolata, e l’umanità è emigrata nelle colonie planetarie). Alla fine, se Deckard continuerà imperturbabile ad ammazzare androidi, sarà solo per intascare il premio e poter acquistare così un animale vero, dal prezzo altrimenti proibitivo. Scott, eliminando la maggior parte di questi elementi, impone ad Harrison Ford un Deckard molto più “chandleriano” di come Dick lo avesse immaginato, facendone un personaggio tormentato e crepuscolare, secco nei suoi gesti ma roso da un incurabile male di vivere (laddove il Deckard del romanzo, forse meno accattivante, risultava a volte anche patetico). E quindi, naturalmente, niente di male se, da questo punto di vista, Dick è stato disatteso e Scott ha creato una figura quasi interamente nuova: è un’operazione già sperimentata, e con buoni risultati a volte, nei rapporti tra letteratura e cinema (un esempio fra tutti, la “riscrittura” proprio di Raymond Chandler fatta da Robert Altman in Il lungo addio). Dove Scott risulta poco convincente è dove calca la mano, dove tenta di rendere più plausibile la “pericolosità” degli androidi (ribattezzati, con un neologismo che farà sicuramente fortuna, “replicanti”) facendone delle vere e proprie macchine da guerra, il che consente di esibire alcune scene certamente ricche di suspense in cui Ford-Deckard viene ridotto malino; dove introduce una dimensione eccessivamente riflessiva e moraleggiante nell’operare dei replicanti, o dove appiccica al tutto un finale improvvisamente lieto in cui l’amore anticipa una possibilità di convivenza serena fra uomo e androide. L’aspetto più riuscito del film, oltre alla buona interpretazione di Harrison ford (forse imprevedibile per chi lo ricordava solo come l’Indiana Jones de I predatori dell’arca perduta o l’Han Solo della saga di Guerre stellari), è certamente la scenografia e l’ambientazione, la Los Angeles che abbiamo ricordato all’inizio, questa città impenetrabile e triste, in cui asiatici e messicani si sono diffusi a macchia d’olio monopolizzando la lingua e la cucina, oltre alle strade senza neppure una esplicita dimensione di violenza umana, sociale (le uniche scene violente sono quelle della lotta con i replicanti), perché la violenza aleggia, sorda e incomprensibile, nell’architettura delle case, nei movimenti imprevedibili degli abitanti che affollano, come zombie, le strade sature di pioggia.

domenica 12 gennaio 2020

Antonio Caronia: A carte rimescolate


Linus aprile 1983

Il declino delle ideologie, che erano state le eredità, comodo o scomoda che i decenni precedenti avevano lasciato ai movimenti degli anni Settanta, continua inarrestabile. E continuerà, almeno per un po’. I segni sono tanti, non tutti coerenti, forse, ma leggerli non è difficile: riguardano, naturalmente, il comportamento di una minoranza della popolazione, minoranza estesa, ma sempre minoranza. Si tratta di quelle persone che, negli anni passati, hanno fatto appunto riferimento ai movimenti, o hanno militato nei partiti o nei gruppi politici (e in parte continuano a farlo anche oggi), e che da questo riferimento traevano modelli di comportamento, se non proprio ragioni di vita. Ad esse si mescolano quei giovani che, ancora dieci o sei anni fa, sarebbero stati portati dalla loro inquietudine o dal loro desiderio di capire e modificare la realtà a militare nei movimenti e nei partiti di massa e che oggi non possono più farlo per l’inesistenza dei movimenti e la crisi dei partiti. Questa minoranza “attiva” (in senso intellettuale) è naturalmente variegatissima, e i suoi comportamenti sono spesso molto differenziati. Tuttavia si può riconoscere qualche tendenza comune.  La prima, probabilmente, è questa: come negli anni passati questi strati erano stati prevalentemente consumatori di politica, oggi sono prevalentemente consumatori di cultura. Nelle grandi città non è più possibile andare a una conferenza o a un dibattito con qualche nome abbastanza noto senza trovare la sala stracolma e una lunga fila che preme per entrare. A Milano è successo in modo clamoroso, negli ultimi mesi, almeno due volte: la prima volta in occasione di una conferenza di Popper, la seconda volta alla serie di incontri “Processo alla cultura”, coordinati e animati dal filosofo Emanuele Severino e organizzati dal circolo culturale Pierlombardo. Ogni volta negli esclusi un disappunto che sfiorava la disperazione, nei fortunati che erano riusciti ad entrare un attento silenzio e un fiorire di quaderni e registratori per accogliere, con sereno, disincantato egualitarismo, tutti gli interventi, noiosi o interessanti, seriosi o brillanti che fossero. I primi ad essere stupiti sono di solito gli organizzatori, che devono trovare all’ultimo momento teatri, o altre sale più capienti, per accogliere le migliaia di persone che arrivano, e non sempre ci riescono. –Non ci aspettavamo certo una rispondenza del genere-, diceva Monica Maimone del Pierlombardo una sera, al termine di uno degli incontri, -e la cosa, se da un lato ci fa piacere, dall’altro ci pone anche dei problemi. Avevamo deciso quest’anno di fare una stagione impopolare, sia come teatro che come circolo culturale, e ci siamo invece imbattuti in queste esplosioni di pubblico. Per gli operatori culturali si tratta adesso di capire come formare, e non solo seguire passivamente, un gusto- . Anche in Italia, dunque, ci avviamo ad avere i nostri maìtres-à-penser? Io non credo che la cosa stia in questi termini. In Italia anche la minoranza di cui si sta parlando è stata sempre refrattaria a “prendere sul serio” i discorsi degli intellettuali (pensiamo a Pasolini), e anche questo nuovo atteggiamento del pubblico assomiglia più alla voglia tenace e un po’ caotica di informarsi che alla ricerca di maestri. Venuta meno la rassicurante guida delle ideologie, soprattutto di quelle di sinistra, è naturale che si cerchi di sapere più che si può sui discorsi e sulle teorie anche più specializzate, ma senza un’adesione né uno sbocco preciso. –Per certi versi questo pubblico potrebbe ricordare quello che frequentava i centri culturali negli anni ’50 e ’60-, dice ancora Monica Maimone, -ma in realtà è molto diverso, perché in quegli anni il bisogno di cultura veniva subito usato politicamente, per una battaglia di opposizione, mentre oggi i frequentatori di queste iniziative non si pongono contro a nulla, utilizzano con disinvoltura tutte le sedi, comprese quelle istituzionali-. Io ho l’impressione che il fenomeno sia accostabile a quello del boom delle riviste di divulgazione scientifica, scoppiata negli ultimi due/tre anni, con una proliferazione delle testate e un vertiginoso aumento delle tirature, dell’ordine delle centinaia di migliaia di copie. Ma il consumo, se non distratto, indifferente, si potrebbe dire, disponibilmente indifferente: il consumo a cui ci sta abituando il mezzo elettronico e televisivo. Interesse, molto: adesione, poca. Il che è collegato poi a un altro aspetto della questione, che si ritrova anche nelle ultime parole citate sopra dell’organizzatrice del Pierlombardo: questa “minoranza” è scarsamente interessata, molto meno che in passato, comunque dalla polarizzazione destra/sinistra. L’anticomunismo di Popper, alcuni anni fa, avrebbe fatto scandalo anche presso il tipo di pubblico che è andato a sentirlo a Torino e a Milano: oggi viene registrato, magari con qualche perplessità, o dibattuto con urbanità e disincanto. Non ci si deve aspettare di meno da questi anni, che vedono a tutti i livelli una rivincita del “soft” sull’”hard”. Tanto più che forze e discorsi diversi si liberano anche dalle aree etichettate a destra, ed è comprensibile che questo accada oggi, quando la “crisi di civiltà” provocata dal dilagare del progresso tecnico-scientifico comincia a far sentire gli effetti in tutte le sfere, anche le più minute, della vita quotidiana. Se ne è accorto con acutezza Massimo Cacciari, filosofo che si avvia a diventare (credo) ex deputato del Pci, quando nel novembre scorso è andato a partecipare ad un convegno della cosiddetta “Nuova destra”, suscitando clamore, allarme e stracciamento di vesti dentro e fuori il suo partito. D’altra parte, se questo gruppo di “Nuova destra” si è staccato, con aspre critiche, dalla militanza politica nel Msi o nelle organizzazioni collaterali, anche nelle sempre più sparute minoranze giovanili organizzate nei partiti e nei gruppi si fa più arduo distinguere tra la destra e la sinistra quanto ai comportamenti, ai gusti, al linguaggio. Mi è capitato di assistere, poco più di un mese fa, ad una assemblea in una grande scuola vicino a Milano organizzata dagli studenti del Fronte della gioventù per protestare contro l’aggressione al loro compagno Di Nella, a Roma (che in effetti è morto qualche giorno dopo): la loro mozione naturalmente non è passata, perché in quella scuola la tradizione politica prevalente tra gli studenti è di sinistra, ma il linguaggio, le argomentazioni, le “mozioni degli affetti” usate da quegli studenti di destra erano singolarmente simili a quelle che usavano gli studenti di sinistra, gli anni scorsi, in analoghe occasioni. Anche le frasi un po’ roboanti e le promesse (questa volta, obiettivamente, ancora più sproporzionate) di “far pagare tutto” non si sa a chi. D’altra parte che il Di Nella, quando fu aggredito, stesse attaccando manifesti per una manifestazione “ecologica”, è un altro sintomo. Una demarcazione più netta fra destra e sinistra, certamente, prima o poi si determinerà di nuovo, perché è una dialettica eterna e inevitabile: ma è probabile che non si costruisca più sugli stessi elementi che abbiamo conosciuto nei decenni passati, e che per qualche tempo si debba assistere ancora a rimescolamenti di carte addirittura più “scandalosi” di quelli che stiamo conoscendo adesso.

domenica 5 gennaio 2020

Antonio Caronia: Fantascienza a teatro


Linus febbraio 1981

La fantascienza a teatro non la si incontra spesso. Al cinema sì, è un’altra cosa: effetti speciali, prospettive intere di astronavi, galassie, alieni in abbondanza. Il teatro, sembra, è più legato a effetti di verosimiglianza: persone in carne ed ossa, movimenti in tempo reale, il corpo si misura con i suoi limiti effettivi, senza la mediazione della macchina. A sfatare tutti questi luoghi comuni ha provveduto il Teatro dell’Elfo, che dopo l’esperienza di Dracula, ha presentato a Milano nel dicembre scorso Il gioco degli dei: 2763 romanzi e fumetti (non facciamo le pulci sul numero) contaminati con l’Odissea. La storia è semplice: Elio, giornalista e critico teatrale, viene sbalzato in una specie di altra dimensione, dove viene utilizzato in qualità di pedina in una partita giocata da un manipolo di stilizzati e improbabili dei. Come un certo signor Bloom il 16 giugno di un anno all’inizio del secolo in una corposa e onnidigerente Dublino, Elio dovrà percorrere le tappe rituali del viaggio omerico, travestite questa volta con i gadget aerei, strampalati e a prima vista molto meno impegnativi della fantascienza degli anni Sessanta, vestita e disegnata come ci si vestiva e ci si disegnava allora: con il pulito e ossessivo bianco e nero della pop-art. Tutta la critica (quasi tutta senza eccezione) ha voluto vedere in Il gioco degli dei una rivisitazione del passato, la solita storia di una generazione, l’impossibile riconciliazione con i pezzi del proprio io abbandonati nel trapasso dall’adolescenza alla maturità: confortata in questo anche dalle parche dichiarazioni dei facitori dello spettacolo. Ma il dubbio rimane: perché, per mettere in scena la crisi dei trentenni, si ricorre al travestimento della fantascienza, e non, poniamo, dei romanzi di Salgari, del giallo, o di qualunque altro genere parimenti avventuroso? Azzardo un’ipotesi: che la fantascienza in Il gioco degli dei non sia, come si è scritto da varie parti, un pretesto, ma una forma necessaria del gioco, una forma che si imponeva quasi da sola nel momento in cui si sceglieva di abbandonare pretese “profondità” e ci si lasciava andare all’abisso superficiale dell’accadere scenico. Confesso che quello che ho apprezzato di più, in questo spettacolo, non sono state le parti in cui sembra trasparire un senso, quelle che sembrano fare da supporto al “discorso” sulla scissione dell’io, sul tempo della memoria. O meglio, anche in queste scene quello che sembra saltare di più agli occhi è il meccanismo della gag, la combinazione delle forme, la movimentazione della scena, che si offrono al di fuori di ogni “verosimiglianza”, ostentano esse stesse le proprie tecniche di costruzione, rendono trasparente la macchina teatrale: un po come i film di Nichetti, quando il mare di tela viene sollevato e si vede la gente che cammina carponi con le braccia alzate a fare le onde. È uno spettacolo di simulacri, di copie senza originale: lo stesso spettacolo che per prima, forse, ci ha offerto la fantascienza, mettendo sempre più a nudo e raffinando sempre più i propri meccanismi narrativi e le proprie figurazioni, credendo sempre meno a quello che andava raccontando, travolgendo ogni questione di stili e di ideologie per ricongiungersi alla fine, riciclare, digerire e vomitare i “racconti fantastici” più lontani e più diversi dalla fantascienza che ci siano: i miti. Proprio come in Il gioco degli dei: Omero e Sheckley. La fantascienza un pretesto? Suvvia, non siamo seri.

martedì 12 novembre 2019

Antonio Caronia: Vizi privati di pubbliche figure



Linus aprile 1985

Umberto U., “quarant’anni portati con cura ed esercizio quotidiano”, “occhi anonimi, mani secche e nodose”, è un personaggio ben riconoscibile della nostra contemporaneità. Per certi versi è partecipe di una tendenza che sembra timidamente affiorare, nella narrativa italiana (ma non prevalentemente ad opera degli scrittori più giovani), ad amalgamare fatti, emozioni private, con i fenomeni politici e sociali di questi anni: riprendendo con questo lezioni di anni ben trascorsi che in un recente passato apparivano messe da parte.  È comprensibile che , in questa logica, gli scrittori mettano in scena figure “pubbliche” del nostro tempo, industriali, magistrati, politici, spesso colti nel loro soccombere all’ineluttabile forza di situazioni che essi dovrebbero (si suppone) padroneggiare e che invece li travolgono. Di questo tipo è, per esempio, il giudice D’Alesi di un romanzo breve che viene da una Sicilia sempre lontana eppure mai come oggi così vicina (Forza Etna!). Di questo tipo è Umberto U. Il quale però, per  una serie di sue peculiarità, risveglia in modo particolare il nostro interesse.  In primo luogo per la sua professione, che è quella di funzionario di partito, un partito mai nominato perché non ve n’è bisogno, tanto è evidente che si tratta del Pci. Poi per la sua malattia che, come adombrato nel titolo (Anemia), e come si viene scoprendo man mano da numerosi indizi, è il vampirismo. E infine per il suo creatore, che è Alberto Abruzzese, noto come semiologo, critico, mediologo ma non ancora (almeno a me) come narratore. Ciò che mi incuriosiva, a libro ancora chiuso, era come Abruzzese avrebbe adattato la sua prosa di saggista (una prosa a volte aspra, sempre densa, mai comunque indulgente ai barocchismi e all’ambigua “narratività” di certa critica di stampo “francese”) alla narrazione. A me pare che sia riuscito in modo originale e interessante. Lo ha aiutato l’argomento scelto e la sua sottile conoscenza del meccanismo narrativo della gothic story, che egli classicamente ripropone in Anemia: lo scacco della razionalità di fronte all’”irrazionale” (soprannaturale o meraviglioso che sia). Qui però i diversi ruoli narrativi che per esempio in Dracula sono del Conte e di Jonathan Harker sono fusi in Umberto U., rappresentante di quella particolare forma di “razionalità” che è quella politica, e che l’Apparato del Pci incarna così bene. Umberto U. ha imparato a vivere la condizione indispensabile della politica contemporanea, la netta e cinica separazione tra forma e contenuto, e vive di questa. Quando, alla festa dell’Unità, incontra il “sottoproletariato vociante e opaco”, i “grappoli di ceti medi”, i pochi operai, queste sono le sue reazioni: - Di quella gente non ha rispetto. Per Umberto U. quei forti referenti del suo lavoro politico sono moneta, sono soltanto capitale, risorsa da “scambiare”. Per lui la politica è una professione. Ed è felice di questo -. La malattia che il politico di professione stenta così a lungo a individuare, su cui neppure la fortuita scoperta di un analogo destino occorso al nonno scomparso (è la parte più debole del libro) riesce a far luce, il vampirismo, segna l’irruzione nella vita di ciò che la politica, per fondare se stessa, ha dovuto rimuovere: il senso del pericolo e della morte. Con un linguaggio lento, sinuoso e pigro, preciso ai limiti della paranoia, suadentemente adesivo alla materia del racconto, Abruzzese ha mostrato come si possa scrivere del “gotico” senza fare noiose operazioni archeologiche.


Anemia di Alberto Abruzzese
Forza Etna! Morte civile per fatto di mafia di Enzo Grasso

mercoledì 6 novembre 2019

Antonio Caronia: La vita come malattia


(Linus luglio 1984)
L’ultimo romanzo di Kurt Vonnegut (Il grande tiratore, Bompiani) ha nel titolo un suono ambiguo che neppure un abile traduttore come Piero Francesco Paolini ha potuto rendere. Il Deadeye Dick dell’originale è infatti, dal nome di un attrezzo marinaresco, un soprannome da marinaio; ma è anche l’epiteto gergale con cui, nel Middle West, si indicava un tiratore particolarmente abile. A Rudy Waltz, farmacista di Midland City nell’Ohio, il soprannome è rimasto appiccicato da quando, all’età di dodici anni, salì sul terrazzo di casa sua con una carabina Springfield, lasciò partire una pallottola e la pallottola incontrò una pacifica signora incinta che faceva le pulizie di casa. Da quel momento il duplice omicida Rudy Waltz è segnato: all’isolamento sprezzante o alla morbosa curiosità dei concittadini egli oppone una fredda chiusura, si dedica senza un moto di ribellione ad accudire maniacalmente i genitori, rovinati dalla causa per danni che è seguita alla “morte accidentale”, si impiega come commesso in un drugstore notturno. E soprattutto diventa un “neutro” cioè uno “abituato a non aspettarsi amore da nessuno, sicuro che quasi ogni cosa desiderabile sia probabilmente collegata a qualche ordigno esplosivo”. Intorno a lui, infatti, la rovina procede metodica: muore il padre, grottesca ma non odiosa figura di falso pittore amico e ammiratore di Hitler, muore la madre corrosa dalla radioattività di un caminetto costruito con materiali di scarto di una centrale atomica, si suicida Celia, la ragazza più bella e più disprezzata della città, perde il posto di direttore della NBC il fratello Felix. Fino a che, un bel giorno, scompaiono tutti gli abitanti di Midland City, per effetto di una bomba a neutroni esplosa forse accidentalmente. Ora Rudy, Felix e il cuoco creolo Hippolyte Paul De Mille che parla sempre al presente, stanno ad Haiti (l’unica nazione al mondo nata da una rivolta di schiavi vittoriosa) da dove Rudy ci racconta la sua storia: e conclude, questo “ammalato di vita”, questo essere dal “soprannome anfibio”, che “i Secoli Bui non sono ancora finiti”. Dopo le prove deludenti di Slapstick e Jailbird (un pezzo da galera), Vonnegut ritorna con un romanzo che possiamo mettere vicino, appena un poco sotto, alle sue cose migliori: Le sirene di Titano, Ghiaccio-nove, Mattatoio 5. Abbandonati gli ordigni fantascientifici che usava negli anni Sessanta, Vonnegut non ha più bisogno di ricorrere agli abitanti del pianeta Tralfamadore per enunciare la sua radicale e disincantata filosofia della vita, ma può esprimerla direttamente, facendola scoprire a Rudy nella sua prima notte in guardina: “Era una negra del Profondo Sud e fu lei a instillarmi l’idea che la nascita è l’aprirsi di uno spioncino e la morte il richiudersi di esso”. “Non ho mica chiesto io, al mio spioncino, di aprirsi”, dice appunto la negra. Certo, con la riduzione della dimensione fantastica e il contemporaneo attenuarsi del riferimento ai grandi avvenimenti sociali come il Vietnam (così presente, per esempio, in Mattatoio 5), Vonnegut corre questa volta il rischio di farsi invischiare nel compianto per la precarietà della condizione umana, o nel vagheggiamento di un’età passata e più felice. Ma c’è sempre un colpo d’ala, una trovata da maestro che ristabilisce i diritti del nichilismo che sa ridere anche su se stesso, come il graffito che Rudy legge sul muro di un gabinetto (e che inevitabilmente perde molto del suo carattere ghignoso nella traduzione): “to be is to do – Socrates/To do is to be – Jean-Paul Sartre/Do be do be do – Frank Sinatra”.

giovedì 31 ottobre 2019

Lettera a Vittorio Curtoni di Antonio Caronia


(dalla corrispondenza di Un'Ambigua Utopia)

Milano 8 novembre 1979
Caro Vittorio,
tra noi non si sa chi sia Maometto e chi sia la montagna, questioncelle, certo. Però… Noi siamo ansiosissimi di sapere tue notizie, e notizie in genere: di te, di Lucia, dei programmi vostri, di quelli di Mondadori e di Armenia, ecc. (le ultime due cose sono lì per pura malignità; ma d’altra parte, a che cosa servono gli amici se non anche per avere indiscrezioni e anticipazioni sulla loro attività?). è comunque vero che siamo ansiosi di contemplare questo nuovo gioiello dell’editoria di fs: riusciranno a convivere De Turris e Fusco sotto lo stesso tetto di Curtoni? (non illuderti che ti siano risparmiate le frecciate su questo scabroso particolare, che continua a gettare una luce inquietante su Aliens…).
E comunque, in attesa che tu mitighi le nostre pene con una qualsivoglia forma di messaggio (scritto, orale o psi), eccoti le nostre, di novità, anche se non richieste. Novità per certi versi non troppo allegre. I nodi finanziari stanno venendo al pettine, aiutati da due semi-batoste successive nel campo della distribuzione: nonostante che abbiamo cambiato ancora una volta, dal n.1 al n. 2, nessuna delle due volte la diffusione è stata soddisfacente, e soldi poi non se ne vedono, né c’è speranza di vederne. Materiale ne avremmo, ma subissati dai debiti come siamo è molto improbabile che escano ancora numeri di UAU per quest’anno. Stiamo cercando di risolvere le questioni e assicurare l’uscita della rivista l’anno prossimo. Il collettivo invece non va male, ha ripreso a funzionare e idee ce ne sono. Alla rinfusa: dopo la delusione di Brighton quest’estate (siamo arrivati tardi, con niente di preparato, abbiamo litigato come al solito con l’organizzazione sul prezzo e ce ne siamo andati dopo un giorno) abbiamo invece deciso di andare a Stresa in modo più organizzato – tanto per cominciare abbiamo protestato per questa idea bislacca di far votare il romanzo migliore, la fanzine migliore, ecc., dai 100 “super esperti” scelti da Viviani: Bulgarelli, che stava nella rosa, non vota e invita gli altri a non votare. Poi stiamo discutendo con Lotta Continua per lanciare un “concorso non competitivo” di racconti di fs: noi faremo la giuria, e l’unico “premio” sarebbe la pubblicazione sul giornale (e forse anche su UAU, se esce). Per dirne solo due.
La novità più grossa, però, è che il bambino sta per nascere. O meglio, noi ce ne siamo già sgravati, e abbiamo consegnato tutto all’editore a settembre. Ora il libro esce a giorni (dovrebbe andare in libreria a fine mese), e noi siamo ovviamente eccitatissimi, come si conviene a dei parvenues, ultimi arrivati e provinciali, oltreché rissosi e privi del senso della misura, come tu ben ci conosci. Dopo inenarrabili contorcimenti, il titolo sarà NEI LABIRINTI DELLA FANTASCIENZA, visto che la parola “fantascienza” doveva assolutamente esserci, e che Fofi ha un’insuperabile idiosincrasia per la parola “immaginario” (noi proponevamo L’IMMAGINARIO POSSIBILE, il prezzo probabilmente 3.000 per circa 250 pagine, la copertina bellissima (secondo noi) di Michelangelo. Il contenuto… te lo leggerai, perché noi cercheremo di fartene avere una copia il più presto possibile: però puoi immaginare già adesso quali saranno gli autori più bistrattati  (sia americani che italiani). Noi speriamo proprio che serva a far discutere, almeno: i consensi nell’ambiente fs non dovrebbero essere molti, ma speriamo che lo leggano anche fuori da questo microcosmo. È inutile che ti diciamo che ci farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensi tu, anche dalle pagine di ALIENS. Stiamo anche cercando di organizzare un po’ di lancio, insieme con Feltrinelli. Una delle cose a cui pensavamo era, per esempio, un dibattito o una tavola rotonda, sullo stato della critica in Italia, o su altri argomenti specifici, o sulla fs in genere in una libreria o – se riusciamo – in qualche TV. Tu saresti disponibile a spostarti un pomeriggio o una sera? L’idea non è ancora definita, perciò non sappiamo chi potrebbe partecipare (per esempio si potrebbe fare una cosa con tutti fs, e allora tu, Guerrini, Lippi, gente così; oppure, forse più interessante, alcuni di noi e lettori di fs non del campo): ma se tu potessi venire, in ogni caso, è ovvio che per noi andrebbe benissimo.
Di altre cose potremmo parlare a voce, se decidessimo di vederci un giorno. Aspettiamo una tua risposta.
Un abbraccio a te e a Lucia.
Antonio Caronia